Lo studio Bankitalia: precarizzare il lavoro è stato un disastro


Uno studio dell’istituto mostra che liberalizzare i contratti a termine non ha creato occupazione, ma aiutato solo i profitti delle imprese


Non è il primo giudizio scientifico in materia, va detto, ma colpisce l’autore – Banca d’Italia – e la stroncatura: la riforma del lavoro che nel 2001 ha spalancato alle imprese l’universo dei contratti precari ha fallito nei suoi obiettivi dichiarati (su quelli non dichiarati, ognuno può farsi la propria idea): non ha creato occupazione, ha solo fatto aumentare i profitti delle imprese a scapito dei salari. Certo, detta così sembra un po’ la scoperta dell’acqua calda, eppure dare una misura al disastro compiuto con le riforme del lavoro non è mai inutile: può aiutare a far comprendere cosa è stato fatto ai lavoratori in questi decenni, anche a chi – a differenza di milioni di persone – non l’ha vissuto sulla propria pelle.

Lo studio. “Gli effetti delle riforme parziali del mercato del lavoro: evidenza per l’Italia” è stato appena pubblicato nella sezione working papers della Banca d’Italia. Si occupa della famosa riforma del 2001 affidata dall’allora ministro Roberto Maroni al sottosegretario Maurizio Sacconi e al consigliere Marco Biagi, il giuslavorista che un anno dopo, nel marzo 2002, verrà ucciso dalle nuove Br. Fu l’atto d’esordio del secondo governo Berlusconi, sulla base però di una delega fornita dal morente centrosinistra, che al precariato ha sempre dato il suo fattivo contributo.

La curiosa idea che tutele troppo rigide ostacolino l’occupazione è diventata prevalente in Europa nel pensiero mainstream economico attiguo ai partiti di centrosinistra dalla metà degli Anni 90, facendo saltare tutte le barriere. Il primo assaggio era arrivato con la legge 55 del 1987 (e la possibilità per i Cnel di autorizzare in alcuni casi il ricorso ai contratti a termine). L’esordio vero è il “pacchetto Treu” (governo Prodi) che nel 1997 permette il ricorso al lavoro interinale. La legge del 2001 , però, anche a detta dello studio di Bankitalia, fu una vera liberalizzazione perché permise un ricorso ampio ai contratti a termine per qualsiasi motivo “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo” delle imprese. C’è, insomma, un prima e un dopo.

Ebbene, cosa ha prodotto questo (quasi) liberi tutti? Secondo gli economisti dello studio innanzitutto è fallito l’obiettivo dichiarato di aumentare l’occupazione. L’effetto netto è stato nullo, con “un numero maggiore di lavoratori che è rimasto intrappolato in cicli di lavori temporanei poco retribuiti e fragili, con una probabilità sostanzialmente ridotta di passare da lavori temporanei a lavori permanenti”. La riforma, insomma, non ha aiutato l’ingresso nel mondo del lavoro verso la stabilizzazione ma ha prodotto precari che sono rimasti tali passando da un’impresa all’altra . “Questi effetti negativi – si legge – sono particolarmente pronunciati tra i giovani, il gruppo che avrebbe dovuto beneficiare maggiormente della riforma”.

L’analisi ha il pregio di ragionare in termini di interessi in conflitto di settori della società. Non c’è infatti nessuna decisione politica neutra. “Nonostante il suo effetto nullo sull’occupazione – si legge ancora nel paper – la riforma ha comunque generato sia vincitori che vinti”. Tra i primi, ci sono le imprese, che hanno visto i margini di profitto aumentare dell’8% a scapito dei salari dei lavoratori precari: quelli delle aziende più grosse li hanno visti scendere del 7%. I dati mostrano che i lavoratori a termine assunti subito dopo la riforma “hanno subito perdite immediate di reddito del 5%”, rispetto a colleghi pre-riforma, una perdita che hanno recuperato “solo 7 anni dopo” perché i lavoratori precari sono più deboli e sotto-rappresentati nei sindacati e negli accordi aziendali. I dati mostrano un altro aspetto perverso: questi lavoratori “sembrano occupati in lavori temporanei marginali che, nel periodo pre-riforma, avrebbero dovuto essere convertiti in posti a tempo indeterminato dal loro datore di lavoro. L’arrivo della riforma ha ridotto di quasi il 32% la probabilità delle imprese di convertire posti temporanei in permanenti (60% per i lavoratori di età pari o inferiore a 25 anni) e, di conseguenza, i lavoratori temporanei in carica sono stati riallocati in posti di lavoro di qualità inferiore”. “Questi effetti – spiega lo studio – sono simmetrici rispetto a quelli che mostrano come un aumento del salario minimo in Germania (una riforma che aumenta il costo del lavoro, contrariamente a quella italiana del 2001) abbia aiutato i lavoratori a trovare posti di lavoro di qualità superiore”.

L’altro effetto è stato invece un generale calo della produttività, specie tra le imprese più fragili a cui la riforma “ha consentito la creazione di posti di lavoro di bassa qualità che altrimenti non sarebbero esistiti”. Quelle più grosse ne hanno approfittato per aumentare il numero di precari “senza crescere dimensionalmente”.

Chi l’avrebbe mai detto?

 

Articolo di Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano del 28/11/2022

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