I primi cinque istituti di credito in sei mesi hanno visto crescere i guadagni del 19,8%. In Italia gli impieghi alle famiglie e alle imprese diminuiscono, in Europa aumentano
I conti semestrali da poco chiusi dicono che i tassi d’interesse, malgrado un primo taglio operato dalla Bce a giugno, generano ancora margini ingenti sugli attivi degli istituti.
I primi cinque gruppi – Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bper, Mps, che valgono oltre metà del mercato domestico – in sei mesi vedono gli utili netti aggregati salire del 19,8% a 12,67 miliardi di euro, grazie a margini d’interesse saliti del 10,4% rispetto al lauto bottino di metà 2023, e che crescono più delle commissioni, salite del 6,5% grazie alla buona marcia dei listini. Poiché nel 2023 le cinque banche totalizzarono 21 miliardi di utili (1’84% dei 25 miliardi del settore), è probabile che di questo passo il loro bottino 2024 salga a 25 miliardi, e l’intero settore segni un nuovo record a 30 miliardi.
Le cifre, diffuse dalle stesse banche, mostrano un settore in grande salute, e capace di tenere molto sotto all’inflazione i costi operativi, del personale e del credito: le tre voci salgono in media tra lo 0,22% e 1’1,6% malgrado le ansie di recessione, il carovita e il rinnovo del contratto bancario, che ha alzato di 435 euro lordi al mese lo stipendio standard. La cuccagna, tra l’altro, può durare perché le banche sono zeppe di capitale (le prime cinque hanno un patrimonio Ceti salito al 15,1% medio degli attivi di rischio), e la cometa dei tassi non svanirà così presto come si pensava mesi fa: nemmeno se la Fed e la Bce iniziassero da settembre a sforbiciare con zelo i tassi. «Il margine d’interesse delle banche italiane resterà resiliente nel 2024 – scriveva l’8 agosto Morningstar Dbrs -, perché eventuali riduzioni dei tassi sarebbero compensate dall’aumento dei volumi di credito». Già, perché le banche italiane – e qui forse sta la notizia – fanno più utili delle rivali pur prestando meno soldi a famiglie e imprese. Le cifre della vigilanza Bce sui settori nazionali, sempre di giugno 2024, vedono il settore creditizio italiano ridurre dello 0,9% gli impieghi alle famiglie in un anno, e di un 3,6% alle aziende, ambiti che per le banche Eurozona crescono rispettivamente dello 0,3% e dello 0,7%.
Morningstar Dbrs spiega l’anomalia con «il rialzo dei tassi, la contrazione delle condizioni creditizie e la minor domanda di credito dei clienti, che ancora godono dei prestiti Covid a garanzia statale che stanno venendo a scadenza».
Per le Big Five italiane i prestiti sono scesi a giugno di uno 0,5% complessivo (pari a 5,23 miliardi) mentre l’insieme più ampio degli “impieghi” lima di 37 miliardi (-3,2%). Se un contesto monetario più espansivo incoraggiasse i clienti a indebitarsi, e le banche nostrane volessero, potrebbero quindi esserci ulteriori e reciproci benefici. Tra l’altro, il rischio di perdere soldi rimane sui minimi storici: oltre a confermare un costo del rischio di soli 0,22 euro ogni 100 prestati, a giugno per i grandi gruppi sono crollati, di un quinto, i crediti “stage 2” di prossimo deterioramento. “La capacità di generare organicamente capitale continua a trasformarsi in benefici quasi esclusivi per gli azionisti – dice Riccardo Colombani, segretario generale di First Cisl. Il sindacalista, oltre che più credito, vedrebbe bene anche «i necessari investimenti in nuove tecnologie e sistemi di AI, con uno sguardo lungo e non solo focalizzato sul trimestre».
La capacità delle banche di soddisfare, oltre, ai soci, le comunità dove operano – nel semestre hanno anche chiuso altri 163 sportelli, e 4,4 milioni di italiani vivono in Comuni senza sportello – è anche al vaglio del governo. Che dopo il blitz della tassa extraprofitti fallito un an no fa cerca oggi i fondi per quadrare la legge di spesa 2024. E malgrado ogni smentita è pronto a sfruttare ogni varco, tecnico e politico, per chiedere “contributi” di sorta a un settore ormai ricco.
Articolo di Andrea Greco su “La Repubblica” del 20/8/2024