Ci deriva in modo desolante, per svariate prospettive, la percezione di avere buttato via un secolo di attività politica e sociale nella speranza di tenere spalancata una alternativa politica e culturale al liberismo. In effetti ci si innervosisce e si diventa intolleranti, anche perché si ha l’impressione che, in quasi tutta l’Europa, la sinistra si trovi al tramonto, in quanto retrocede nelle competizioni elettorali e i suoi principi fondamentali appaiono ovunque in declino. Ci si domanda, quindi, come mai i partiti di destra siano arrivati a mettere le mani sul potere e sul consenso, nonostante la difficoltà di una crisi economica, che parimenti hanno cooperato ampiamente a produrre.
La destra offre solo rassicurazioni del tipo “il peggio è passato, la recessione è vinta, è alle spalle”, completamente indifferente al fatto che la crisi finanziaria ormai si è trasformata in crisi industriale, per arrivare a produrre una crisi sociale tragica. La verità è che i governi neoconservatori di destra liberal-populista sono stati in grado di persuadere i ceti medi che, nella società delle public companies e del low cost, con le borse euforiche, la deregulation (deregolamentazione per lasciare campo libero alla iniziativa privata) sarebbe andata a loro beneficio, mentre era evidente che avrebbe, invece, favorito il capitale monopolistico della grande finanza ed accentuato le ineguaglianze negli assetti sociali. Purtroppo, troviamo anche un’altra opinione per chiarire la stabilità della destra, sebbene non sia di marchio rigorosamente economico; osservando una società vecchia e impaurita, come quella europea (nella Unione europea dicono che gli “anziani” sono oltre il 25% della popolazione), le forze neo conservatrici si sono fatte imprenditrici del terrore, inserendo in un solo carnet ideologico, l’immigrazione clandestina, la minaccia islamica, la sicurezza nelle città, la concorrenza degli immigrati sul lavoro, un reclamato ordine sociale aggiudicato dalla volontà della maggioranza. Sfortunatamente, l’inganno è riuscito bene sovrapponendo via via misure di controllo pubblico, che, in genere, sono risultate nel complesso ridicole, ma che, sul momento, partoriscono consenso politico, in quanto soddisfano l’opinione pubblica moderata e le sue ossessioni.
L’idea che il coinvolgimento psicologico a caldo abbia vinto sulla freddezza della politica tradizionale con le grandi questioni collettive del XX secolo, come il lavoro e l’occupazione, le pensioni, la tutela del risparmio, la sanità, l’istruzione, gli investimenti pubblici di pubblico interesse (appassiti nella visione attuale), si concretizza con la buona riuscita di fenomeni politico culturali, come il berlusconismo, che affermano democrazie coriacee, completamente svuotate, sorrette da fratellanze e da strutture di relazione mediatiche, dove si vive di pettegolezzi e di novelle trovate televisive. Evidentemente, smarrite le migliori ideologie, anche le radici socialdemocratiche, che avevano costituito l’alternativa al socialismo di comando nonché, il correttivo accettato in Europa occidentale alle leggi dure del mercato capitalistico, hanno ceduto il passo, negli ultimi anni, a correnti pseudo culturali, in apparenza irresistibili ma del tutto fallimentari.
Ora, una sinistra con un certo residuo di razionalità si dovrebbe preoccupare ancora di cose classiche come il lavoro, senza dare per scontato che, con la trasformazione tecnologica e la fine delle grandi fabbriche, i lavoratori siano tutti scomparsi, perché delocalizzati, trasferiti, resi dei fantasmi. Una sinistra rifondata dovrebbe scendere in campo per rifiutare il modello imposto dal capitalismo internazionale della flessibilità sul mercato del lavoro, che si esprime con il precariato e con bassi salari; ma, evidentemente questo non basta, occorrono disegni politici generali e politicamente convincenti, per riuscire a mettere insieme l’individualismo e il consumo da una parte, con l’uguaglianza dei diritti dall’altra parte, per affermare valide alternative ad una società in evoluzione tecnologica fondata sulla folle concorrenza, per uscire dagli schemi su base corporativa, superando un’Italia conformista, che cerca di perpetuare le posizioni di vantaggio delle lobby e si oppone alla rinuncia alle rendite di posizione ed alla lotta all’evasione ormai strutturale. Non sbagliamo sicuramente nell’affermare che oggi il capitalismo accumula profitti, non più solo sfruttando i propri lavoratori, bensì imprigionando e opprimendo i consumatori (la propria clientela mondiale), che si sono fatti avvolgere in una spirale in cui si intessono una molteplicità di fattori che non sono più solo economici, ma inglobano più dimensioni della vita individuale e sociale: parliamo della pubblicità ossessiva, del marketing a 360 gradi, del credito per il consumo, della creazione dei desideri di evasione, del sogno di restare giovani a lungo e di trarre prolungati piaceri dalla vita, senza una parola sul lavoro e sull’occupazione. Evidentemente, una favola è stata il credere alla crescita dello sviluppo, ai risultati del mercato unico europeo, che avrebbe dovuto avvicinare i prezzi nei diversi paesi, favorendo i consumatori, all’euro che avrebbe eliminato definitivamente l’inflazione.
Non si può essere contrari a chi avverte la necessità di formule che riducano ad ordine il nuovo caos, cioè la crisi economica globale; forse la globalizzazione incarna la guerra, visto che un picco di crisi in qualsiasi punto del mondo globalizzato si scarica inevitabilmente con cruda violenza sulla totalità del mondo (pensiamo, ad esempio, agli attentati terroristici come la distruzione delle torri gemelle, alla guerra in Ucraina, ed alle relative conseguenze belliciste planetarie). Bisogna accettare l’idea che la grande recessione non è semplicemente una questione di sistema, ma un problema che deriva dalla errata e fallimentare distribuzione della ricchezza tra le nazioni e nelle nazioni, sempre a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri. Forse la società americana non potrà uscire dalla crisi del capitalismo che essa stessa ha creato, essendo destinata ad una netta divisione delle comunità economiche, con il mondo della finanza – dove si fanno soldi attraverso la nociva speculazione, spesso tramite il trading – da un lato, e con le residue industrie – avanzi di un mondo decaduto e migrato in oriente, con schiere di lavoratori ormai precari – dall’altro, con la conseguenza di produrre un universo caratterizzato da una drammatica divisione di classe e da conflitti sociali, emersi in maniera evidente nella recente competizione elettorale tra repubblicani guidati da Trump e i democratici.
Può darsi che l’unica maniera per riemergere dalle spirali della recessione economica sia il cercare un nuovo ordine sociale, fondato su un’economia regolata dallo stato e temperata dal welfare, rinvenendo nella globalizzazione un ruolo e una posizione competitiva. Per quanto riguarda il capitalismo europeo (tedesco in particolare), la sua formula era in esatta contrapposizione del modello finanziario americano, dove il profitto nelle grandi società di capitali era essenziale, per evitare la mancata valorizzazione di imprese e la perdita di efficienza del management e quindi le scalate ostili e le acquisizioni del mercato di borsa. Un mondo a stelle e strisce, dove le imprese sono abbondantemente dipendenti dal mercato finanziario e quindi sono aziende che costituiscono un business che acquista e vende molto, e che hanno, come unico modo per evitare di essere mangiati dalla cattiva speculazione, il massimizzare dei profitti. In sostanza, sono costrette a fare salire il proprio prezzo sul mercato della borsa, ma come si può facilmente intuire, questo schema impone strategie di breve periodo, che rendono ardue le più feconde politiche di lungo termine (in particolare, parliamo delle aree di investimento nel campo della valorizzazione delle risorse umane e della formazione professionale). Tecnicamente, nella struttura industriale americana, l’importanza dei mercati finanziari sempre più volatili rende nevrotico il comportamento delle imprese, costrette a penalizzare gli investimenti di lungo periodo, con la conseguenza di perdere la competitività a livello mondiale.
Siamo convinti che la crisi economica globale sia una gravissima crisi di redistribuzione dei redditi; infatti, storicamente le società occidentali hanno prosperato quando sono riuscite a distribuire con una discreta equità il benessere generato dall’attività economica, con il sostegno del reddito e dell’occupazione, ottenuto nel periodo postbellico e durante gli anni 50, con incrementi di produttività e con il formarsi di una società di massa orientata a spendere. Ma non appena l’aumento di produzione materiale si è svelato insufficiente a distribuire con una certa imparzialità il reddito a tutti i fattori di produzione (lavoro e capitale) per sottrarsi da cadute dei livelli di benessere che sarebbero risultati intollerabili politicamente, è stato fondamentale cercare altri strumenti per mantenere elevata la domanda aggregata, e quindi si è assistito all’utilizzo sistematico dell’inflazione: stampare moneta per dare respiro e, una volta esaurita anche questa soluzione temporanea che erogava moneta via via svalutata, si è iniziato ad utilizzare l’indebitamento pubblico. Quest’ultima soluzione certamente non era molto differente rispetto all’inflazione; anzi, spesso i due metodi si collegavano; in sostanza, si trattava di immiserire in un futuro più o meno lontano, anziché guardare consumato nell’oggi, il patrimonio corrente. Poi, i grandi centri di produzione economica (le multinazionali, le banche, i fondi di investimento e tutte le società globali) comprendono che l’inutilizzabilità di strumenti come l’inflazione e il deficit portano al deperimento della domanda aggregata (vedi le teorie dell’economista Keynes) e quindi della propensione al consumo (acquisto di beni e servizi) nella società, con conseguenze imponderabili per l’intera economia. Si passa allora, per sostenere la domanda (di beni e servizi) di milioni di consumatori, all’indebitamento delle masse con le ipoteche sulla casa, i mutui subprime, le nuove carte di credito revolving, che consentono di rateizzare il debito sommando debito a debito, con il credito al consumo alla portata di tutti (per finanziare acquisti di autoveicoli, barche, elettrodomestici, computer, cellulari, servizi televisivi, ecc.).
Da tutto ciò non possiamo non comprendere l’importanza della presenza pubblica nell’economia; lo Stato deve essere un interventore presente ed impegnato, per evitare soprattutto che non si fabbrichino i soliti monopoli e non si concedano le usuali posizioni privilegiate di vendita, in quanto il mercato non è composto da soggetti anonimi dall’agire imprevedibile (la famosa mano invisibile del celebre economista classico Adam Smith), ma è una comunità civile retta da ordinamenti, da norme giuridiche create per regolare la vita sociale. In una frase, il mercato è un vero bene pubblico, fondato sulla realtà delle persone, sul giusto ed equo diritto di proprietà personale, sugli scambi, sulle transazioni, dove oltre al proliferare di acquisti e vendite esiste una convenzione (costituzione giuridica), che regola il mercato per correggerlo, limitarlo ed integrarlo quanto esso fallisce.
Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Cgil Chieti