Si può obbligare il dipendente a fare le ferie?

L’azienda deve comunicare per iscritto e con preavviso il periodo di ferie e tenere conto anche delle esigenze del lavoratore. Anche in caso di arretrati.

Una cosa è smaltire le ferie arretrate ed un’altra ben diversa è vedersi obbligati a fare le ferie in qualsiasi modo, senza un criterio ben definito. Il riposo coatto, chiamiamolo così, viola il Codice civile, com’è stato ribadito dalla giurisprudenza. In sostanza, un’azienda non può obbligare il dipendente a fare le ferie forzate con poco preavviso, senza tenere conto delle sue esigenze e solo per poche ore al giorno: il datore di lavoro sarebbe passibile di sanzione.


Come si stabilisce il periodo delle ferie

Secondo la normativa che regola le ferie, al dipendente spettano:

  • un giorno di riposo settimanale;
  • un periodo annuale di ferie retribuite, possibilmente continuativo, per una durata stabilita dalla legge, dai contratti collettivi e dagli usi.

Abitualmente (ma è una norma più dettata dall’uso che non dalla legge) il dipendente decide quando fare la metà del suo monte ferie, mentre l’altra metà la decide l’azienda in base alle esigenze lavorative.

Nel caso ci siano dei giorni arretrati, il datore di lavoro può obbligare il dipendente a fare le ferie? Tutt’al più, può dettare i tempi ma è tenuto a comunicare il periodo con un certo preavviso e concedendo al lavoratore di usufruire delle ferie in modo continuativo, cioè non frazionando i giorni.

Il Codice civile [1], infatti, sancisce che – dopo un anno di ininterrotto servizio – il dipendente «ha diritto ad un periodo di ferie retribuito, possibilmente continuativo, tenuto conto degli interessi dell’azienda e del prestatore di lavoro», cioè del dipendente stesso. Lo stesso articolo stabilisce che il datore di lavoro deve comunicare preventivamente al dipendente il periodo del godimento delle ferie. Va da sé che quel «preventivamente» non riguarda il giorno prima e nemmeno due [2].

Ma ci sono altri due passaggi da non sottovalutare. Uno, è quello che fa riferimento agli «interessi dell’azienda e del prestatore di lavoro». Significa che non si può obbligare il dipendente a fare le ferie (o tutte le ferie) solo quando l’azienda lo decide. Altro discorso è che, per esigenze del datore di lavoro, ci sia un periodo in cui il dipendente non può recarsi in ufficio o in fabbrica (pensiamo, ad esempio, alle chiusure aziendali di agosto o – per chi le adopera – durante il periodo natalizio). In questo caso, il resto del monte ore può deciderlo il lavoratore. Nel caso in cui venga obbligato a smaltire i giorni di riposo in modo coatto, l’azienda può essere condannata a reintegrare il monte ore di ferie maturate.

L’altro passaggio importante dell’articolo del Codice civile in materia di ferie, riguarda l’opportunità di godere di quel periodo «in modo continuativo». Sulla questione si è pronunciato il Tribunale di Pordenone [3], chiamato a pronunciarsi su una società che, ripetutamente, metteva le maestranze in ferie solo per qualche ora al giorno, a ridosso o in sostituzione dell’utilizzo della cassa integrazione, senza accordo con i sindacati e senza preavviso.

Per i giudici, obbligare il dipendente a fare le ferie in questo modo viola il Codice civile perché vengono decise in periodi frazionati e per «l’assenza di una preventiva comunicazione e di un qualche accordo sindacale in materia».

Inoltre, per il tribunale friulano, il datore di lavoro è tenuto a dare al dipendente comunicazione scritta riguardante le ferie, precisando nominativo, le ore di ferie da smaltire e data e periodo in cui devono essere godute.

Come si devono smaltire le ferie arretrate

Oggi la legge non consente più alle aziende di pagare le ferie arretrate per azzerare il monte ore. Il dipendente, dunque, deve usufruire di almeno due delle quattro settimane annue obbligatorie in modo continuativo durante l’anno stesso di maturazione. Il resto, anche frazionato (ad esempio tre giorni questa settimana, cinque giorni in un altro momento, ecc.) nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. A meno che non si tratti di una risoluzione del rapporto di lavoro (fine contratto, dimissioni, licenziamento), il periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute. Qualsiasi accordo che non rispetti i termini di legge è nullo [4].

L’azienda, inoltre, deve pagare i contributi previdenziali sulle ferie maturate, anche se non sono state godute, entro 18 mesi dalla fine dell’anno solare in cui sono state, appunto, maturate. Il periodo di fruizione delle ferie è stabilito dal datore di lavoro, purché, come dicevamo prima, tenga conto non solo delle sue esigenze ma anche di quelle del dipendente, le sue necessità personali, familiari o economiche. Appare ovvio, dunque, che si può obbligare il dipendente a fare le ferie solo in caso di chiusura aziendale, ma non in qualsiasi periodo dell’anno e ogni volta che il titolare della società abbia intenzione di farlo se ciò crea dei problemi al lavoratore.

note

[1] Art. 2109 cod. civ.

[2] Trib. Milano, sent. del 24 aprile 1996.

[3] Trib. Pordenone, sent. n. 121/2016.

[4] Cost. italiana, art. 36 co. 3.

Fonte: www.laleggepertutti.it




Mobbing e violenza psicologica sul posto di lavoro

Sempre più spesso sentiamo parlare di mobbing sui posti di lavoro. Non sempre, tuttavia, siamo in grado di capire se comportamenti ai quali siamo abituati ad assistere possano invece rappresentare abusi tali da compromettere la nostra serenità e minare la nostra salute.

Alla fine dell’articolo pubblichiamo il link alla relazione scritta a 4 mani dalla Professoressa Emilia Costa, psicoterapeuta e docente universitaria, e dall’allora praticante avvocato Massimiliano Costa in occasione di un convegno sul tema.
La relazione è un po’ datata, essendo stata scritta nel 2003, ma i temi trattati e le informazioni riportate sono assolutamente attuali.

I relatori partono dal rapido sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi 50 anni, osservando come gli essere umani non siano state altrettanto rapide ad adeguarsi ai continui cambiamenti. Per questo motivo oggi i lavoratori sono spesso insoddisfatti, aggressivi ed ostili.
In un simile contesto soprusi e prevaricazioni finiscono per diventare non solo comprensibili ma vengono in un certo senso ritenuti legittimi, in ambienti lavorativi caratterizzati spesso da ambizioni sfrenate.
Laddove l’aspirazione alla crescita professionale non sia supportata da adeguate capacità la carriera diventa carrierismo, la sana competitività viene distorta nel tentativo di impedire con ogni mezzo la crescita di quelli che vengono visti come rivali; le energie vengono allora rivolte alla distruzione invece che alla creatività ed alla crescita dell’impresa.

Il mobbing viene presentato come una malattia creata dalla società attuale. Una malattia che, attraverso la degradazione professionale del lavoratore, può arrecare gravi danni a lui come persona ed all’intero tessuto sociale.
Significativa in tal senso è l’origine della parola Mobbing. Il termine deriva da quello inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, accerchiare, assalire in massa, malmenare. E’ stato usato per la prima volta da Konrad Lorenz proprio per descrivere il comportamento di alcuni animali che si coalizzano contro un membro del gruppo, lo attaccano, lo isolano, lo escludono dal gruppo, lo malmenano fino a portarlo anche alla morte.

E’ interessante infine rilevare come le aziende del nostro settore, banche ed assicurazioni, vengano viste dai relatori come particolarmente idonee alla nascita di comportamenti discriminatori.
Il nostro lavoro è infatti caratterizzato dalla continua ricerca di un difficile equilibrio tra pressioni commerciali e rispetto delle regole, rendendo i lavoratori particolarmente esposti ad errori, e comunque facilmente attaccabili.

LE FASI DEL MOBBING

Tra i primi a studiare in modo sistematico il fenomeno del mobbing ci sono due psicologi, lo svedese Heinz Leymann ed il tedesco Harald Ege, che cominciarono ad occuparsene a partire dal 1984.

A loro si deve l’individuazione delle fasi che caratterizzano il mobbing:

  1. Conflitto mirato.
    La vittima viene individuata.
    Il conflitto generalizzato si dirige verso di essa con l’obiettivo di distruggerla.
    Il conflitto si allarga dall’ambito lavorativo alla “sfera privata”.
  2. Inizio del Mobbing vero e proprio
    La vittima avverte disagio.
    Le relazioni con i colleghi diventano più difficili.
    Il mobbizzato subisce demansionamenti o trasferimenti.
    La vittima comincia a porsi domande sul cambiamento.
  3. Primi sintomi psicosomatici
    Il soggetto avverte l’isolamento, comincia a non dormire la notte, ha problemi digestivi, ha difficoltà a recarsi sul posto di lavoro, si sente insicuro.
    L’idea del lavoro diventa prevalente ed ossessiva.
    Si manifestano i primi sintomi della depressione: senso di spossatezza, demotivazione, sensi di colpa per non saper migliorare la situazione.
  4. Errori ed abusi dell’Amministrazione del personale
    La vittima comincia ad assentarsi per malattia, dando il pretesto ai superiori per prenderlo di mira.
    La vittima avverte un senso di minaccia incombente, che peggiorerà il suo malessere.
    Aumentano le assenze dal lavoro.
  5. Aggravamento della salute psicofisica della vittima
    Il soggetto entra in grave depressione presentando certificazioni che attestino il suo stato.
    L’azienda non vuole riconoscere il malessere, aggravando la posizione del mobbizzato.
    La vittima si sente sempre più perseguitata, sente di non poter più affrontare la situazione.
    Si sviluppa un “Disturbo postraumatico da stress” caratterizzato da paura intensa, pensieri di morte, compromissione dei rapporti sociali.
    Possono svilupparsi anche malattie fisiche quali asma bronchiale, ulcere, vertigini, cefalee, disturbi alimentari o della sfera sessuale, riduzione delle difese immunitarie.
  6. Esclusione dal mondo del lavoro.
    Dimissioni volontarie, licenziamento, prepensionamento.
    Nei casi più gravi suicidio o morte a seguito di malattia.

Secondo Leymann si può parlare di mobbing solo se questo processo si verifica in modo costante e sistematico per almeno sei mesi, e se le azioni vengono messe in atto tenendo conto della personalità e dei punti deboli della vittima in modo da massimizzarne i disagi.
Tra i comportamenti che possono rappresentare forme di mobbing possono rientrare i seguenti:

  • sparizione o rottura improvvisa senza sostituzione di strumenti di lavoro come telefoni, computer, lampadine ecc…
  • litigi sempre più frequenti con i colleghi
  • la conversazione si interrompe non appena la vittima entra in una stanza
  • il mobbizzato viene escluso da notizie ed informazioni utili per il suo lavoro
  • vengono diffusi pettegolezzi infondati sul conto della vittima
  • affidamento improvviso di incarichi inferiori alla propria qualifica o del tutto estranei alle proprie pompetenze
  • controllo sempre più stringente su orari d’entrata ed uscita, pause caffè, telefonate ecc…
  • rimproveri eccessivi per piccole mancanze
  • nessuna risposta alle richieste scritte o orali
  • provocazione da parte dei superiori per spingere il mobbizzato a reazioni incontrollate
  • mancati inviti a feste aziendali o attività sociali
  • continue prese in giro per l’aspetto fisico o l’abbigliamento
  • le proposte del mobbizzato vengono sistematicamente ignorate
  • retribuzione inferiore rispetto ad altri colleghi che svolgono incarichi meno importanti.
  • e così via per innumerevoli azioni assimilabili

Secondo lo psicologo psicologo tedesco Ege, le cui ricerche si sono concentrare soprattutto sul nostro Paese,  in Italia il forte legame familiare espone i lavoratori al doppio mobbing, cioè quello che il mobbizzato può subire dalla sua famiglia che, se in un primo momento può essergli vicino, nel tempo finisce col colpevolizzarlo.

FATTORI SPECIFICI DEL MOBBING 

Il Mobbing può iniziare per diversi motivi:

  • Un dipendente o un dirigente non è in sintonia con le idee o con le scelte del capo, o con le idee e decisioni del gruppo dominante.
  • La persona rivendica diritti che non gli vengono riconosciuti perché quella carica è stata destinata ad altri.
  • Si entra in collisione col potente della situazione.
  • Ci sono molte persone con la stessa funzione che vorrebbero accedere al livello superiore.
  • Bisogna immettere personale per creare un nuovo servizio e nessuno vuole andare a lavorare con un certo direttore o trasferirsi.
  • Non si hanno sponsor o protettori.

In ognuno di questi casi può bastare un minimo segno di insofferenza o di ribellione da parte del lavoratore per mettere in moto il meccanismo che lo porterà ad essere mobbizzato.


TIPOLOGIE DEL MOBBING: BOSSING, MOBBING ORIZZONTALE, VERTICALE, TRASVERSALE

Quando il mobbing viene attuato dal diretto superiore si parla di bossing o mobbing verticale.
Il bossing si manifesta attraverso una precisa strategia volta ad estromettere il lavoratore da ogni possibilità di crescita professionale in modo da renderlo impotente, o allontanarlo dal posto di lavoro.
Si parla di mobbing verticale anche quando sono i sottoposti a coalizzarsi ed assumere comportamenti aggressivi nei confronti del superiore per difendere una serie di privilegi.

Il mobbing orizzontale è quello messo in atto dai colleghi di pari grado, in genere per impedire l’avanzamento di carriera della vittima.

Il mobbing trasversale si estende anche al di fuori dell’ambiente lavorativo potendo contare su persone vicine al mobber che contribuiscono ad isolare la vittima quando questa cerca appoggio, togliendogli il saluto e chiudendogli tutte le porte.

MOBBING STRATEGICO – MOBBING RELAZIONALE

Il mobbing strategico è una scelta che può essere deliberatamente adottata da alcune imprese come mezzo per la riduzione del personale, finalizzandolo all’allontanamento di dipendenti considerati non più utili perché provenienti da vecchie gestioni, o impiegati in reparti da dismettere, o da riqualificare, o ritenuti troppo costosi, o indesiderati perché d’intralcio alla carriera di chi è stato predestinato.

Il mobbing relazionale riguarda i rapporti interpersonali. E’ un modo di gestire il potere basato su “divide et impera”: mira quindi ad aizzare le persone l’una contro l’altra fomentando rivalità e gelosie e concentrandosi sui soggetti che si è deciso di estromettere dalla possibile crescita professionale, rifiutando di fornirgli informazioni chiare o mettendoli in condizione di sbagliare a causa di messaggi volutamente ambigui.


IL MOBBIZZATO

Non esiste ovviamente un’unica tipologia di persone che possono essere vittime di mobbing.

La vittima può essere una persona capace e creativa, che proprio per le sue qualità rischia di diventare un ostacolo rispetto a percorsi di carriera pre-determinati.
Oppure, al contrario, può trattarsi di persona con limitate capacità o con peculiarità che la facciano apparire “diversa”: caratteristiche fisiche, handicap, orientamenti politici o sessuali.
Si può finire vittime di mobbing perché si appare più deboli, in ambienti caratterizzati da competitività esasperata, o per assenza di appoggi. Ad essere attaccata può essere una donna, solo perché si trova ad operare in ambienti prevalentemente maschili.

Ciò che invece accomuna tutti i soggetti che subiscono mobbing è la loro sofferenza, il loro senso di inadeguatezza. Il mobbizzato viene privato di qualsiasi prospettiva, togliendogli ogni speranza di miglioramento futuro e condannandolo a rivivere all’infinito quel presente al quale vorrebbe sfuggire. Questo getta le premesse per cadere nella depressione che può limitarsi a manifestazioni con impatto limitato, pur rendendo pesante il vissuto quotidiano, o sfociare in patologie molto più gravi.

IL MOBBER

La personalità del mobber è spesso caratterizzata da forte narcisismo ed egocentrismo o tratti paranoici. Giustifica il male arrecato agli altri con la presunta superbia o incompetenza della vittima. Necessita di essere attorniato da persone che lui sente inferiori e che non gli pongono problemi o domande anche in presenza di comportamenti potenzialmente illeciti, che lo assecondano pedissequamente per confermare la sua convinzione  che a lui è permesso tutto, lui può tutto e tutto gli è dovuto.
Molte volte non si rende nemmeno conto delle conseguenze nefaste del suo operato anche sul piano  giuridico: civile, penale, amministrativo. Spesso poco creativo e conformista, arrogante, invidioso e geloso dei colleghi di lavoro, che utilizza e sfrutta a suo piacimento senza alcuno scrupolo. Solitamente di intelligenza media, raramente anche elevata. In tutti i casi il mobber non riesce a vedere mai l’altro come una persona, e non è in grado di accettare una relazione autentica, ma solo una parvenza di relazione  fondata sul potere,  sul dominio e sul condizionamento e controllo che schiaccia, umilia e degrada l’altro, e lo rende assolutamente dipendente e passivo, distorcendone le qualità personali, solo per il suo piacere ed il gusto di rovinarlo e distruggerlo.

CONSEGUENZE DEL MOBBING

Il mobbing  produce conseguenze sulla salute psicofisica, sulla professionalità e dignità del lavoratore e  sulla produttività e qualità del lavoro personale e dell’Ente di lavoro, sulla famiglia e sulle relazioni interpersonali del mobbizzato, rappresentate dal danno biologico e danno sociale.

Dalle violenze morali e dalle persecuzioni sul posto di lavoro possono derivare malattie organiche, psicosomatiche e psichiatriche di rilevanza medico legale, e nei casi più gravi  conseguenze letali come il suicidio, nella percentuale del 15% secondo studi condotti in Svezia , arrivando anche a causare nei casi più estremi tentativi di omicidio sui mobbizzati resistenti  o, per vendetta, sui mobber.

Il mobbizzato subisce inoltre conseguenze rilevanti di varia natura: perdita dei benefici derivanti dal normale rapporto di lavoro, perdita di opportunità anche al di fuori dell’ Azienda, perdita di prospettive di maggior guadagno o riduzione dei guadagni abitualmente conseguiti, perdita della progressione nella carriera, perdita delle consulenze relative ai rapporti di lavoro, perdita del posto di lavoro per prepensionamento, dimissioni provocate, licenziamento, pensionamento.

Il danno da mobbing finisce col riguardare non solo la persona che lo subisce ma anche la famiglia della vittima, l’Azienda in cui viene attuato e l’intera comunità sociale.

Lo Stato subisce danni economici dovuti all’indennità da malattia, agli eventuali indennizzi ed ai prepensionamenti. L’Azienda, e l’intera comunità sociale, vengono privati di soggetti capaci e quindi della possibilità di beneficiare di un lavoro svolto in modo qualitativamente e quantitativamente migliore.

RICONOSCIMENTO GIURIDICO DEL DANNO DA MOBBING

Il Mobbing può essere causa di almeno quattro tipi di danno: biologico, patrimoniale, morale, esistenziale.

Andrebbe anche considerato il danno sociale alla famiglia, all’Azienda ed alla intera società in termini di economia e cultura.

Il danno biologico o danno alla salute comprende il danno psichico dovuto alla perdita di opportunità lavorative, la maggior fatica nell’espletamento del proprio lavoro e per mantenere inalterato il reddito, l’usura psichica, i danni alla vita di relazione.
Il danno patrimoniale è costituito dalle conseguenze economiche dovute alle discriminazioni subite, che possono portare ad una diminuzione del patrimonio del danneggiato e ad un ridimensionamento del suo tenore di vita.
il danno morale è costituito dal disagio, dal dolore, dalla sofferenza che il mobbing possono causare e che, quando sfociano in depressione o altri disturbi, finiscono col compromettere anche le relazioni sociali ed affettive.
Il danno esistenziale è rappresentato dal peggioramento oggettivo delle condizioni di vita della persona e della sua famiglia, venendo meno il diritto di vivere la propria vita senza disagi e con la piena facoltà di disporre del proprio tempo e delle proprie energie.

Dal punto di vista giuridico il mobbing può avere rilevanza sul piano civile ed ammnistrativo, ma anche di natura penale. Ad oggi, la difficoltà maggiore in sede giudiziale è rappresentata dalla necessità di dimostrare il rapporto di casualità tra vessazioni subite e danni alla persona.

 

Per un maggior approfondimento dei temi trattati invitiamo a consultare la relazione integrale




Nuovi papà: 5 giorni di congedo dal 2018

Salgono da quest’anno i giorni di congedo per i padri lavoratori: 4 obbligatori e 1 facoltativo.
È entrata in vigore infatti la novità prevista dall’art. 1, comma 354, della legge di bilancio 2017 (n. 232/2016) che ha innalzato, infatti, per il 2018, da 2 a 4 i giorni di congedo obbligatorio per i neo papà, oltre a ripristinare il congedo facoltativo di un giorno da fruire alternativamente alla madre.


Congedo neo papà 2018: da 2 a 5 giorni


La norma (comma 354, art. 1, legge bilancio 2017), ha prorogato le disposizioni concernenti il congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente, da fruire entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, introdotte in via sperimentale per gli anni 2013, 2014 e 2015, anche per gli anni 2017 e 2018.

La durata del congedo obbligatorio per i neo padri è aumentata a due giorni per l’anno 2017 e a quattro per l’anno 2018, da godere anche in via non continuativa.
Non solo. Con la medesima disposizione viene ripristinato anche il congedo facoltativo, non confermato per il 2017. Per quest’anno, invece, è previsto che
il padre lavoratore dipendente può astenersi per un periodo ulteriore di un giorno previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima”.


Congedo papà, a chi è rivolto


Possono accedere al beneficio, spiega l’Inps sul sito istituzionale, i padri lavoratori dipendenti anche adottivi e affidatari, entro e non oltre il quinto mese di vita del figlio o dall’adozione e affidamento avvenuti a partire dal 1° gennaio 2013.

Congedo papà, come funziona

Quanto al congedo obbligatorio, quest’ultimo è fruibile dal padre entro il quinto mese di vita del bambino (o dall’ingresso in famiglia/Italia in caso di adozioni o affidamenti nazionali/internazionali) e quindi durante il congedo di maternità della madre lavoratrice o anche successivamente purché entro il limite temporale sopra richiamato. Tale congedo, spiega l’istituto di previdenza, “si configura come un diritto autonomo e pertanto è aggiuntivo a quello della madre e spetta comunque indipendentemente dal diritto della madre al proprio congedo di maternità”.

Il congedo obbligatorio è riconosciuto anche al padre che fruisce del congedo di paternità ai sensi dell’articolo 28 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.

Durata

Ai padri lavoratori dipendenti spettano quattro giorni di congedo obbligatorio, che possono essere goduti anche in via non continuativa, per gli eventi parto, adozione o affidamento avvenuti dal 1° gennaio fino al 31 dicembre 2018.

Un giorno di congedo facoltativo

Il congedo facoltativo del padre è condizionato invece alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di altrettanti giorni di congedo maternità. I giorni fruiti dal padre anticipano quindi il termine finale del congedo di maternità della madre.
Il congedo è fruibile anche contemporaneamente all’astensione della madre e deve essere esercitato entro cinque mesi dalla nascita del figlio (o dall’ingresso in famiglia/Italia in caso di adozioni o affidamenti nazionali/internazionali), indipendentemente dalla fine del periodo di astensione obbligatoria della madre con rinuncia da parte della stessa di uno o due giorni. Infine, il congedo spetta anche se la madre, pur avendone diritto, rinuncia al congedo di maternità.

Congedo neo papà, quanto spetta

Il padre lavoratore dipendente ha diritto, per i giorni di congedo obbligatorio e facoltativo, a un’indennità giornaliera a carico dell’Inps pari al 100% della retribuzione.

Congedo papà, come fare domanda

Il padre, titolare di un rapporto di lavoro dipendente, deve comunicare al proprio datore di lavoro le date in cui intende usufruire del congedo almeno 15 giorni prima.
Nei casi di pagamento a conguaglio, per poter fruire dei giorni di congedo il padre deve comunicare in forma scritta al datore di lavoro le date di fruizione.

Fonte: www.studiocataldi.it

Per approfondimenti su maternità, paternità e congedi parentali consulta la
guida Fisac




MIFID 2: cosa cambia per gli operatori?

Lo scorso 3 gennaio è entrata in vigore la normativa MIFID 2.
Lo scopo delle nuove norme è garantire maggiori tutele agli investitori al dettaglio ed aumentare la trasparenza sui costi.
Diverse le novità introdotte, alcune delle quali riportiamo in modo estremamente sintetico:

  • I prodotti finanziari dovranno essere pensati per un specifico target di clientela, che le aziende saranno tenute ad individuare all’atto dell’emissione.
  • Verrà implementato il questionario per la profilazione del cliente, includendo anche i suoi bisogni.
  • I controlli di adeguatezza non saranno limitati al momento della sottoscrizione, ma verranno estesi a tutta la durata del prodotto finanziario.
  • Comunicazioni più trasparenti ed esaustive sui costi, da indicare sia ex ante sia ex post, per consentire ai clienti di valutare con chiarezza il loro reale impatto rispetto ai rendimenti.
  • Possibilità per le autorità di vigilanza di vietare o limitare la vendita di singoli prodotti finanziari.

Esaminiamo in modo più approfondito le norme che avranno un impatto sui lavoratori.

INCENTIVI

Le aziende non potranno prevedere incentivi legati a specifici strumenti finanziari. La norma è finalizzata ad evitare che il consulente sia spinto a proporre al cliente gli strumenti più redditizi per l’azienda, tralasciando quelli più vicini alle effettive esigenze dell’investitore ma meno remunerativi per la banca o la compagnia assicurativa.

REQUISITI PROFESSIONALI DEL CONSULENTE FINANZIARIO

Questa è la parte della normativa che avrà maggior impatto sugli operatori e sulle aziende, causando presumibilmente diverse modifiche di carattere organizzativo e gestionale.

La Consob, basandosi sulle Guidelines for the assessment of knowledge and competence” dell’ESMA, ha emanato il Documento di consultazione del 6 Luglio 2017 (nel quale sono riportate anche le modifiche rispetto alla prima versione risalente al mese di dicembre 2016 )attraverso il quale elenca i requisiti richiesti per prestare la consulenza in materia di investimenti. Entrambi i documenti sono consultabili attraverso i link pubblicati in fondo all’articolo.

I consulenti dovranno pertanto essere in possesso di almeno uno dei seguenti requisiti:

  • Iscrizione all’ “Albo Unico Nazionale dei Promotori finanziari” istituito con l’Art. 31 del Testo Unico sulla Finanza, o superamento dell’esame previsto per tale iscrizione e, in entrambi i casi, almeno 12 mesi di esperienza professionale.
  • Diploma di laurea almeno triennale in discipline economiche, giuridiche, bancarie o assicurative e almeno 12 mesi di esperienza professionale.
  • Diploma di laurea almeno triennale in discipline diverse da quelle precedentemente indicate, integrato da un master postlauream in discipline economiche, giuridiche o finanziarie, o titolo di studio estero equipollente, e almeno 12 mesi di esperienza professionale;
  • Diploma di laurea almeno triennale in discipline diverse da quelle precedentemente indicate, e almeno 24 mesi di esperienza professionale;
  • Diploma di istruzione secondaria superiore di durata quinquennale e almeno 4 anni di esperienza professionale.

Limitatamente agli ultimi due casi, il periodo dell’esperienza professionale è dimezzato qualora l’interessato attesti di avere acquisito, mediante una formazione professionale specifica, conoscenze teoriche e pratiche nelle materie individuate al punto 18 degli Orientamenti ESMA
La formazione professionale consiste nella partecipazione nei 12 mesi antecedenti l’inizio dell’attività a corsi di durata non inferiore a 60 ore, svolti in aula o a distanza, mirati al conseguimento di conoscenze teoriche aggiornate, di competenze tecnico-operative e di una corretta comunicazione con la clientela.
I corsi di formazione si concludono con lo svolgimento di un test di verifica, effettuato a cura di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la formazione.

L’ esperienza lavorativa professionale dev’essere maturata nell’ambito delle materie elencate nel punto 18 degli Orientamenti ESMA. Tale esperienza deve essere stata acquisita in un periodo non antecedente gli ultimi 10 anni, anche presso diversi intermediari.

Durante il periodo di maturazione dell’esperienza professionale, l’operatore privo dei requisiti può operare esclusivamente sotto la supervisione di un altro membro del personale in possesso di uno dei requisiti citati. La durata massima del periodo di supervisione è prevista in 4 anni.

Per gli operatori che non prestano servizi di consulenza, ma si limitano a fornire informazioni riguardanti strumenti finanziari, servizi di investimento o servizi accessori, i titoli di studio richiesti sono i medesimi ma il periodo di esperienza professionale da maturare è dimezzato. In questo caso, le competenze richieste sono quelle elencate al punto 17 degli Orientamenti ESMA.

Non sarà più possibile operare in alcun modo su prodotti finanziari a chi non è in possesso almeno di un diploma di scuola secondaria. Esiste però la possibilità di non perdere le professionalità acquisite: la normativa consente a coloro che sono in possesso del solo diploma di licenza media di continuare fornire informazioni o prestare la consulenza a condizione che, alla data del 2.1.2018, svolgano tali attività ed abbiano maturato un’esperienza documentata di almeno dieci anni.

Gl’intermediari dovranno assumersi la responsabilità di verificare che i soggetti interessati siano effettivamente in possesso delle conoscenze richieste dagli Orientamenti ESMA.

Allegati:

Documento di consultazione CONSOB del 6 Luglio 2017

Orientamenti ESMA




Come e quando si può essere demansionati

A partire dal 25.06.2015 a tutti i lavoratori subordinati, anche se assunti precedentemente a tale data, si applica il nuovo art. 2103 c.c., come modificato dal Testo Unico di Riordino dei Contratti di Lavoro (D.Lgs. n. 81/2015).

La norma riguarda il cosiddetto ius variandi, vale a dire Il potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente la mansione del lavoratore, quindi anche senza il consenso dell’interessato.
Prima della riforma valeva il principio della immodificabilità in peggio della mansione e della irriducibilità della retribuzione. Per espressa previsione di legge, ogni patto contrario era nullo.

L’attuale testo dell’art. 2103 recita:

Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero a quelle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

La parte in neretto ha sostituito la precedente formulazione, che parlava di mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte.
La modifica conferisce al datore di lavoro il diritto ad uno ius variandi (unilaterale) più ampio e più flessibile in quanto si supera la precedente necessità di individuare “mansioni equivalenti”.
Con la precedente norma, infatti, in caso di contestazione da parte del lavoratore, il Giudice, per accertare la legittimità del cambio di mansioni non si limitava a verificare l’eguaglianza retributiva e la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento contrattuale, ma si accertava che sussistesse l’equivalenza professionale.
Oggi invece il datore di lavoro potrà assegnare unilateralmente il dipendente a qualsiasi mansione purché riconducibile allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte, con riferimento solo alle declaratorie ed ai profili professionali del contratto collettivo.

Un esempio per chiarire meglio il concetto: un quadro direttivo potrà essere adibito a qualsiasi mansione, anche se precedentemente svolta da lavoratori con inquadramento inferiore, purché i suoi nuovi compiti rientrino tra quelli che possono essere svolti da appartenenti alla categoria dei quadri direttivi.

In caso di “modifica degli assetti organizzativi che incidono sulla posizione del lavoratore”, il datore di lavoro può assegnare a quest’ultimo mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore purchè rientranti nella medesima categoria legale.
Questo significa che, a seguito di modifiche dell’attività produttiva o dell’organizzazione del lavoro, il datore di lavoro può attribuire al lavoratore mansioni appartenenti ad un livello contrattuale più basso,  pur mantenendo il medesimo inquadramento.

Le contrattazione collettiva potrà disciplinare ulteriori ipotesi nella quali il datore di lavoro sarà legittimato a demansionare, con i limiti di cui sopra, il lavoratore.
In questi casi il mutamento di mansioni deve avvenire con determinate garanzie:
1. Dev’essere accompagnato, “ove necessario” dall’assolvimento dell’obbligo formativo (la cui violazione, tuttavia, non determina la nullità della assegnazione);
2. Dev’essere comunicato per iscritto “a pena di nullità”;
3. Non determina un abbassamento del livello di inquadramento;
4. Non può comportare una riduzione del trattamento retributivo.

Queste garanzie, tuttavia, possono venire a mancare in situazioni particolari, come prevede il sesto comma del rinnovato art. 2103, che prevede la possibilità di sottoscrivere accordi bilaterali che comportino peggioramenti delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione. Ciò quando tali modifiche rispondano alla necessità:
1. Di conservare il posto di lavoro del dipendente
2. Di acquisire una diversa professionalità
3. Di migliorare le condizioni di vita personali.

Anche in questo caso facciamo un esempio. Un quadro direttivo preposto ad una filiale che viene soppressa potrebbe essere posto di fronte alla prospettiva di un trasferimento a centinaia di Km di distanza; in alternativa, l’Azienda potrebbe proporgli, al fine di “migliorare le sue condizioni di vita personali un accordo bilaterale con il quale accetta un peggioramento dell’inquadramento e di conseguenza una retribuzione più bassa pur di restare nei pressi del Comune di residenza.

L’articolo 2103 regolamenta anche i casi in cui il lavoratore si trovi a svolgere mansioni superiori rispetto al suo inquadramento; in questo caso ha diritto al trattamento normativo ed economico corrispondente all’attività svolta.
L’assegnazione diviene definitiva trascorso un periodo fissato dai contratti collettivi o aziendali o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi (In precedenza l’art. 2103 prevedeva un periodo di 3 mesi continuativi). Il lavoratore ha in ogni caso la facoltà di rifiutare l’assegnazione, rinunciando a vedersi attribuire l’inquadramento superiore.
Non si matura il grado nel caso in cui l’adibizione a mansioni superiori sia dovuta alla sostituzione di un lavoratore assente, con diritto di quest’ultimo a riprendere la mansione una volta cessata l’assenza.

 

 




Le 5 false promesse del Governo sulle pensioni

Cinque promesse. Nessuna rispettata. Sulle pensioni il governo si è rimangiato tutti gli impegni presi  con i Sindacati e con il Paese.

Non è una mia opinione. Parlano i testi. Uno in particolare: quello dell’intesa sottoscritta appena un anno fa, che è utile richiamare per chi avesse la memoria corta.

Era il 27 settembre 2016 e per la prima volta dopo tanti anni riuscimmo in quell’occasione a convenire una serie di misure per rendere più giusto ed equo il sistema previdenziale italiano dopo i danni prodotti dalla riforma Fornero.

Si decise inoltre di definire i temi per la seconda fase del confronto perché eravamo consapevoli che il lavoro non fosse finito.

Non erano vaghe promesse ma impegni veri e precisi. Erano cinque. Li abbiamo scritti tutti insieme e messi nero su bianco. Sono stati disattesi e non hanno trovato alcun riscontro nella legge di bilancio appena presentata dal governo. Eccoli:

1) Le pensioni dei giovani

Per mesi dalla maggioranza di governo e in particolare dal Pd ci è stato detto che questa era la priorità e che dovevamo fare tutti uno sforzo di responsabilità. Abbiamo preso sul serio il tema, lo abbiamo approfondito e abbiamo presentato le nostre proposte con l’obiettivo di garantire a chi verrà dopo di noi di avere una pensione dignitosa. Ci ritroviamo invece con un nulla di fatto. Con buona pace dei nostri giovani che ancora una volta resteranno fermi un turno.

2) Aspettativa di vita

Dal 2019 scatterà l’automatismo che porta in avanti l’età pensionabile. Lo sapevamo e avevamo concordato una soluzione differenziando questo meccanismo a seconda dei lavori. Tradotto significa che l’aspettativa di vita non è uguale se fai il muratore o il professore universitario. Lapalissiano. Ma evidentemente per il governo che si fatichi su un’impalcatura o dietro una scrivania non fa alcuna differenza.

3) Il lavoro di cura delle donne

È uno dei temi su cui si è concentrata maggiormente la nostra azione, convinti che fosse necessario dare una risposta alle milioni di donne che svolgono attività di cura nei confronti dei propri figli o di parenti disabili o non autosufficienti. Risultato? Un misero sconto per alcune donne (si stima siano poche migliaia) con le precise e stringenti caratteristiche dell’Ape sociale.

4) Flessibilità in uscita

Si era concordato di favorire l’accesso alla pensione anticipata modificandone i requisiti. Significava dare ad alcune tipologie di lavoratori la possibilità di lasciare un po’ prima il posto di lavoro magari liberandolo per i giovani.

5) La previdenza complementare

Ci voleva poco. Dovevano solo favorire l’adesione dei lavoratori ai fondi pensione attraverso il meccanismo del silenzio-assenso, legarli agli investimenti nell’economia reale e parificare la tassazione dei dipendenti pubblici a quella dei privati. Il tema è stato del tutto rimosso.

Molte di queste misure erano ad impatto zero. Ovvero non costavano nulla, almeno non nell’immediato. Sull’aspettativa di vita si poteva tenere aperta la partita e rinviare la decisione mentre ci siamo ritrovati davanti al Presidente del Consiglio che burocraticamente si limita a dire che applicherà la legge così com’è.

Il governo ha scelto quindi di disattendere gli impegni che si era preso e che aveva messo per iscritto. Alla vigilia delle elezioni non esattamente un bel messaggio.

Non staremo fermi a guardare. La partita ora si sposta in Parlamento dove proveremo a modificare i contenuti della legge di bilancio.

Ivan Pedretti
Segretario Nazionale SPI/CGIL

Link all’articolo originale dal sito www.huffingtonpost.it




Malattie e certificati

È prassi consolidata, presso molte aziende, di non richiedere la consegna del certificato medico in caso di assenza dal lavoro per malattie di breve durata (di norma entro i tre giorni). La flessibilità è sempre a discrezione dell’azienda, che potrebbe comunque richiedere il certificato anche per un solo giorno d’assenza.

È bene ricordare che, qualora la malattia includa anche sabato e domenica, è necessario aggiungerli al computo dei giorni. Questo vale anche per assenze superiori ad un giorno che si concludono di venerdì, in quanto il rientro effettivo in ufficio non avverrà prima del lunedì successivo, quindi l’assenza si protrarrà di fatto anche per il fine settimana.

In alcune circostanze si sono verificati problemi per dei lavoratori, in malattia fino a tre giorni e che pensavano di guarire entro il quarto ritornando al lavoro. A seguito di una ricaduta sono stati costretti a prolungare l’assenza, rivolgendosi al Medico di Famiglia per avere il certificato che coprisse l’intero periodo d’assenza. Purtroppo questa richiesta contrasta con la normativa prevista dal Servizio Sanitario Nazionale, che prevede per il certificato di malattia elettronico una predatazione non superiore ad un giorno. In casi del genere, non riuscendo a certificare i primi giorni d’assenza, i lavoratori si sono visti costretti a trasformare alcuni giorni di malattia in permessi o in ferie.

Per ovviare al problema si può provare a richiedere al Medico di Famiglia un certificato cartaceo e non elettronico, da inviare a cura del dipendente all’Ufficio del Personale: bisogna però sapere che non tutti i medici sono disposti a produrlo, in quanto tenuti a rilasciare esclusivamente quello elettronico.

La soluzione migliore consiste nel contattare il Medico e richiedere il certificato fin dal primo giorno d’assenza, in modo da prevenire eventuali problemi successivi.




Infortuni in itinere

Nel rientrare a casa dall’ufficio un lavoratore subisce un incidente. Viene portato al Pronto Soccorso dove gli viene rilasciata una prognosi di qualche giorno. Come deve comportarsi?

L’infortunio in itinere è una particolare tipologia di infortunio sul lavoro che il lavoratore subisce:
• Durante il normale percorso tra casa e ufficio (o sede del lavoro), sia nel percorso di andata che in quello di ritorno;
• Durante il normale percorso tra due diverse sedi di lavoro, se richiesto per esigenze di servizio;
• Durante il normale percorso tra l’ufficio e il luogo di consumo abituale dei pasti, se l’azienda non ha un servizio mensa.

Contrariamente ai sinistri stradali tout court, l’infortunio sul lavoro in itinere viene riconosciuto dall’Inail indipendentemente da chi lo ha causato: che si abbia torto o ragione, infatti, l’INAIL è tenuta a indennizzare il lavoratore infortunato, purché vengano rispettati alcuni criteri.

Affinché l’INAIL riconosca il sinistro come incidente in itinere, provvedendo così ad indennizzare il lavoratore, occorre che il tragitto percorso sia quello più breve e diretto possibile, salvo eventuali deviazioni e/o interruzioni cd “necessitate”, dovute cioè a forza maggiore (es.: traffico, lavori in corso, ecc.).
Eventuali eccezioni alla maggior brevità del percorso sono possibili per esigenze “essenziali ed improrogabili”, come ad es. passare a prendere uno o più colleghi, ma devono essere autorizzate dal datore di lavoro. Se il lavoratore, tuttavia, dovesse compiere una deviazione e/o un’interruzione per ragioni “del tutto indipendenti dal lavoro o comunque non necessitate”, la copertura assicurativa dell’Inail verrebbe meno.

Anche l’utilizzo di un particolare mezzo influisce sul riconoscimento dell’ infortunio sul lavoro in itinere, bisogna infatti che siano stati utilizzati i seguenti mezzi:

• Mezzi pubblici;
• Auto o moto personali, se l’utilizzo del mezzo privato sia necessitato in quanto è dimostrabile la mancata copertura del tragitto da parte dei mezzi pubblici, o la loro incompatibilità o eccessiva scomodità rispetto agli orari di lavoro

E’ importante ricordare che, nel caso di utilizzo del mezzo privato, restano esclusi dalla copertura INAIL gli infortuni direttamente causati da:
• Lavoratore con patente sospesa, ritirata o mai conseguita;
• Lavoratore in stato di ebrezza o sotto l’influsso di psicofarmaci;
• Lavoratore sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o allucinogene, sempre che non gli siano state somministrate per finalità terapeutiche.

Ecco, in concreto, alcune tipologie particolari di incidenti in itinere riconosciuti e indennizzati dall’INAIL:

• Lavoratore investito da un’auto, durante la pausa pranzo, nel tragitto per raggiungere la mensa convenzionata con l’azienda o comunque uno dei luoghi abituali in cui consuma i pasti;
• Incidente in auto avvenuto non sul tragitto più breve e diretto tra casa e ufficio, poiché il lavoratore ha compiuto una deviazione a causa di un precedente incidente;
• Tamponamento dell’auto che precede

LA VISITA PRESSO GLI AMBULATORI INAIL
In caso di infortunio sul lavoro è prevista la visita presso gli ambulatori Inail.

· Se la prognosi del Pronto Soccorso è uguale o inferiore a tre giorni, ed entro in quella data il lavoratore è in grado di riprendere l’attività, non ha bisogno del certificato Inail prima di tornare al lavoro.

· Se la prognosi del Pronto Soccorso è superiore a tre giorni il lavoratore è invitato a presentarsi all’Inail per la visita medica due-tre giorni prima della scadenza della prognosi:
1. l’Inail rilascerà un cartellino con un successivo appuntamento a visita in caso di continuazione della temporanea e un certificato da consegnare al datore di lavoro;
2. l’Inail provvederà alla chiusura della temporanea con un certificato di chiusura definitiva da consegnare in azienda per poter riprendere il lavoro.

I “portatori” di gesso o di tutore sono invitati a presentarsi a visita all’Inail dopo la rimozione degli stessi.




Permessi per lutto o grave infermità di un familiare

La Legge 8 marzo 2000, n. 53, concede ad ogni lavoratore dipendente il diritto a tre giorni annui di permesso retribuito in caso di decesso o grave infermità di un familiare.

I gravi motivi devono riguardare parenti entro il secondo grado, coniuge o convivente. I permessi non possono essere richiesti per gli affini.

Per chiarezza riepiloghiamo i casi in cui si può richiedere il permesso e quelli in cui non spetta.

 

Il permesso spetta per:

  • Genitore (madre/padre)
  • Figlio/a
  • Fratello/sorella
  • Nonno/a
  • Nipote (figlio dei figli)

 

Il permesso non spetta per:

  • Zio/a
  • Cugino/a
  • Nipote (figlio del fratello/sorella)
  • Bisnonno/a
  • Suocero/a
  • Genero/nuora

 

Fra i gravi motivi il Decreto Ministeriale 278/2000 elenca le necessità familiari derivanti da una serie di cause:

a) necessità derivanti dal decesso di una delle persone sopra specificate;
b) situazioni che comportano un impegno particolare del dipendente o della propria famiglia nella cura o nell’assistenza delle persone sopra specificate
c) situazioni di grave disagio personale, ad esclusione della malattia, nelle quali incorra il dipendente medesimo.

La documentazione relativa alle patologie viene rilasciata da un medico specialista del Servizio Sanitario Nazionale o convenzionato, dal medico di medicina generale (medico di famiglia) oppure dal pediatra di libera scelta. La documentazione va presentata contestualmente alla richiesta di congedo.

La domanda di congedo va inoltrata attraverso un modulo specifico, da richiedere alle stesse Aziende.




Assegni familiari 2017 – 2018

L’Assegno per il Nucleo Familiare (ANF) è una prestazione a sostegno delle famiglie con redditi inferiori a determinati limiti, stabiliti ogni anno dalla legge.

L’importo dell’ANF è stabilito in misura diversa in relazione al numero di persone che compongono il nucleo familiare e in relazione anche al reddito complessivo familiare. Hanno diritto a fruire dell’ANF tutti i lavoratori dipendenti, disoccupati, i lavoratori in mobilità, i cassintegrati, i soci di cooperative, i pensionati e i parasubordinati.
L’ANF viene erogato dal datore di lavoro, per conto dell’INPS, nel periodo compreso tra il 1° luglio e il 30 giugno dell’anno successivo.
La legge stabilisce un termine di prescrizione del diritto all’ottenimento dell’Assegno: esso può cioè essere richiesto anche per un periodo antecedente ma comunque non superiore a 5 anni dalla data di presentazione della domanda. E’ quindi consigliabile comunque effettuare la domanda tempestivamente.
La presentazione della domanda deve essere effettuata con apposito modello rilasciato dall’INPS (o dall’Istituto competente). I redditi presi a riferimento sono quelli dell’anno precedente la data di inizio dell’erogazione.

Di seguito i links alla Circolare INPS ed alle tabelle aggiornate

Circolare INPS 87 – 2017

Tabelle con i limiti di reddito