Trasferimento, trasferta, distacco

Il datore di lavoro può spostare il lavoratore dal luogo di lavoro originario solo in presenza di precise condizioni di legge; ecco tutta la disciplina prevista dalla legge in questi casi.

Il luogo in cui il dipendente deve eseguire la propria prestazione lavorativa viene stabilito all’atto dell’assunzione e può essere individuato in un punto fisso (come la sede dell’azienda o dell’unità produttiva cui il lavoratore è assegnato) oppure essere identificato con un ambito territoriale (come la zona assegnata nel caso del venditore o piazzista) o ancora non essere predeterminabile per particolari tipi di attività (come nel caso dei trasfertisti tenuti per contratto ad espletare la propria attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi).

Durante lo svolgimento del rapporto, il luogo di lavoro inizialmente stabilito può essere variato dal datore di lavoro, con le limitazioni stabilite dalla legge e dai contratti collettivi.
Ciò avviene in caso di:

  • trasferimento
  • trasferta
  • distacco.

Vediamo singolarmente tali ipotesi.


IL TRASFERIMENTO INDIVIDUALE

La legge stabilisce che il lavoratore non può essere trasferito da una unità produttiva a un’altra se non per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive.
Si deve trattare di un trasferimento tra unità produttive della stessa azienda.

Pertanto, i trasferimenti all’interno della medesima unità produttiva non dovrebbero necessariamente essere giustificati da esigenze tecniche, organizzative e produttive. Ma, in alcune sentenze, la giurisprudenza ha sottolineato che, per tutelare il lavoratore dai disagi personali e professionali conseguenti a modifiche del luogo di lavoro senza ragioni valide, la tutela predetta si applica anche nel caso di spostamento della sede di lavoro all’interno della stessa unità produttiva.

Forma e motivazione

Il trasferimento potrebbe essere disposto anche oralmente, ma i contratti collettivi prevedono di norma la forma scritta (proprio per provare le ragioni tecniche, organizzative e produttive sottese al trasferimento e alla scelta del lavoratore da trasferire).

Ad ogni buon conto, salva diversa indicazione del contratto collettivo, il datore di lavoro non deve necessariamente indicare, nell’atto di trasferimento, le ragioni tecniche, organizzative e produttive poste a fondamento del trasferimento stesso.

L’obbligo di indicare tali ragioni, infatti, scatta solo se il lavoratore ne faccia richiesta. Il datore, in tal caso, deve fornire tali chiarimenti entro 5 giorni dalla richiesta: se non lo fa, il trasferimento diventa inefficace.
La mancata richiesta dei motivi da parte del lavoratore, peraltro, non equivale ad acquiescenza al trasferimento e non impedisce, dunque, a questi di contestare in giudizio l’illegittimità del trasferimento stesso, fermo restando che nell’un caso come nell’altro, spetterà al datore di lavoro l’onere di provare in giudizio le ragioni giustificatrici del trasferimento.

Limiti previsti dalla legge

La legge prevede dei limiti al potere del datore di trasferimento:

  1. Il lavoratore handicappato maggiorenne ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di sevizio più vicina al proprio domicilio.
  2. Il lavoratore che assiste un soggetto handicappato in situazione di gravità non ricoverato a tempo pieno (coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti) ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere.
    In entrambi i casi i lavoratori in questione non possono essere trasferiti ad altra sede senza il loro consenso.
  3. Il trasferimento dei dirigenti delle Rappresentanze sindacali aziendali da un’unità produttiva a un’altra non può essere disposto senza il preventivo nulla osta delle organizzazioni sindacali di appartenenza. Il divieto perdura sino alla fine dell’anno in cui è cessato il mandato.
    L’intento del legislatore è evidentemente quello di tutelare il rappresentante sindacale dalla eventualità che il datore di lavoro possa, a scopo discriminatorio, allontanarlo dalla unità produttiva che lo ha espresso.
  4. Il lavoratore eletto amministratore di un ente locale non può essere trasferito se non con il suo consenso.
    Il lavoratore può chiedere di essere avvicinato al luogo in cui il mandato viene svolto: in tal caso il datore di lavoro deve esaminare la domanda di trasferimento con criteri di priorità.

Decadenza per l’impugnazione del trasferimento

Per quanto riguarda la decadenza per l’impugnazione del trasferimento, si applicano le  stesse norme previste per l’impugnazione del licenziamento.

Trasferimento collettivo

Il trasferimento collettivo coinvolge interessi più generali rispetto a quelli implicati in un trasferimento individuale. In particolare il trasferimento collettivo si distingue da quello individuale in quanto esso riguarda una collettività di lavoratori considerati non in modo individuale, ma quali componenti di una unità produttiva o di una parte di essa.
Per i singoli lavoratori trasferiti resta ferma la possibilità, anche dopo l’effettuazione dell’esame in sede sindacale in ordine alla ricorrenza delle ragioni giustificatrici del trasferimento, di impugnare il provvedimento di trasferimento al fine di ottenere una verifica giudiziale circa la sussistenza delle esigenze tecniche, organizzative e produttive richieste dalla legge.


TRASFERTA E “TRASFERTISTI”

Anche la trasferta implica un mutamento del luogo in cui il lavoratore è tenuto a prestare l’attività dedotta nel contratto di lavoro.
Tuttavia, mentre nel caso di trasferimento il mutamento del luogo di lavoro è definitivo, nel caso della trasferta tale mutamento è provvisorio.
In sostanza il datore di lavoro, nell’ambito dei poteri di organizzazione dei fattori della produzione che gli competono, a fronte di sopravvenute esigenze di carattere transitorio e contingente, può modificare temporaneamente e provvisoriamente il luogo di lavoro.
Venute meno le esigenze che avevano determinato l’invio in trasferta del lavoratore questi rientrerà al precedente luogo di lavoro.

Lavoratori “trasfertisti”

I cosiddetti “trasfertisti” sono invece quei lavoratori tenuti per contratto all’espletamento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi.
Le indennità e le maggiorazioni retributive spettanti a questi lavoratori concorrono a formare il reddito nella misura del 50%, anche se vengono corrisposte con carattere di continuità.
Per la qualificazione della fattispecie è necessario che la normale attività lavorativa si svolga contrattualmente al di fuori di una sede di lavoro.

IL DISTACCO

Nel caso di distacco (o comando), invece, non si ha un mutamento del luogo di lavoro, ma piuttosto si ha che il titolare del rapporto distacca il suo dipendente presso un’altra azienda che lo inserisce nella propria organizzazione e ne utilizza le prestazioni lavorative.
Si ha quindi distacco quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone in via temporanea uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa (il distacco può riguardare anche dipendenti assunti a termine).
L’originario datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore e a suo carico permangono gli obblighi relativi alle assicurazioni sociali.
Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore.
Quando il distacco comporti un trasferimento a un’unità produttiva sita a più di 50 Km di distanza da quella cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.
L’interesse alla base del distacco può coincidere con qualsiasi interesse produttivo dell’imprenditore distaccante diverso, ovviamente, da quello della mera somministrazione di manodopera.

Distacco in situazione di crisi aziendale

Al fine di evitare riduzioni di personale in situazioni di crisi aziendale, gli accordi sindacali possono regolamentare il comando o il distacco di uno o più lavoratori dall’impresa in crisi a un’altra per una durata temporanea.
Secondo il Ministero del lavoro, il distacco può essere applicato al fine di evitare il ricorso sia alla cassa integrazione straordinaria che a licenziamenti collettivi.

 

Fonte: La legge per tutti

 

 

 

 




Il welfare aziendale è una iattura

Riceviamo spesso dai lavoratori richieste di consigli in merito all’opportunità di destinare al welfare aziendale le somme derivanti dai premi di produttività.

A questa domanda risponde Alberto Perfumo con il volume “Il welfare aziendale è una iattura” (dal quale abbiamo tratto il titolo del post).
L’autore è responsabile di un’azienda che si occupa di consulenza in materia di welfare aziendale; tuttavia, invece di sostenere a spada tratta i vantaggi del welfare, riferisce correttamente anche dati e informazioni negative. Che la sua opinione sia controcorrente si comprende sin dall’introduzione, della quale riportiamo un estratto:

“Il welfare aziendale è una iattura”, mi ha detto un candidato durante un colloquio, riportando la frase di un amico impiegato presso una grande azienda. Ma come? Durante la selezione per una società che offre servizi e consulenza in ambito welfare aziendale e mentre in giro non si parla d’altro, un lavoratore dice che si tratta di “una iattura”?
In realtà, l’affermazione non mi ha sorpreso: da mesi rifletto sul boom del fenomeno welfare aziendale. Con i miei 16 anni di esperienza nel settore ho sentito la necessità di una riflessione seria sull’argomento. E mi piace pensare che questa riflessione possa essere utile ad altri.

Si è ormai affermata, da più parti, la convinzione che il welfare aziendale sia la soluzione ideale per tutti e che convenga ad aziende e dipendenti.
In realtà il welfare aziendale è ingannevole: vengono sbandierati vantaggi fiscali e contributivi, ma nel complesso la scelta è economicamente in perdita.

Nel settore privato le aziende premono affinché i lavoratori destinino al welfare i premi variabili di risultato anziché riceverli in busta paga. Apparentemente, per chi fa questa scelta ci sono vantaggi tangibili.
Incassare i premi direttamente in busta paga significa pagare il 9,19% di contributi previdenziali e il 10% d’imposta (comunque ridotta rispetto all’aliquota ordinaria Irpef che va dal 23% al 43%.)
Destinarli al welfare significa evitare ogni contributo o imposta. Ecco perché questa seconda opzione è apparentemente quella più conveniente.

C’è però un aspetto che può sfuggire al lavoratore. Versando il premio di produzione nel welfare, anche il datore di lavoro è esentato dal versare la sua quota di contributi previdenziali, pari all’incirca al 24% della retribuzione.

Ricapitolando: destinando i premi di risultato al Welfare il lavoratore si trova una maggiorazione immediata del 19% (subito vanificata nel caso la somma venga utilizzata per spese mediche o per altre spese potenzialmente detraibili, che a quel punto non possono essere detratte perdendo il beneficio fiscale che ammonta esattamente al 19%).
Così facendo però perde contributi INPS nella misura complessiva del 33%. 
Per invogliare i lavoratori a scegliere di utilizzare comunque il welfare, le aziende tendono ad offrire maggiorazioni a chi sceglie questa opzione, che possono arrivare al 10-15%: comunque inferiori al risparmio ottenuto dal mancato versamento dei contributi.

E’ bene ricordare che i contributi previdenziali non sono soldi persi: più contributi versati comportano una pensione più alta.
Perfumo cita uno studio secondo cui mille euro l’anno in welfare per 37 anni causano una decurtazione della pensione di 873 euro l’anno.

Quindi qual è la scelta migliore?

Se si riesce ad utilizzare il welfare per sostenere spese che non beneficerebbero di detrazione fiscale (es. acquisto di libri scolastici) ed in presenza di incentivi aziendali, la scelta tra welfare e incasso in busta paga è pressoché equivalente se il bonus per chi opta per il welfare arriva al 15%.

Ragionando con un’ottica di lungo periodo, e comunque in tutti i casi in cui le somme accantonate dovrebbero essere destinate a spese potenzialmente detraibili, appare preferibile incassare il premio in busta paga.
Al momento della scelta va tenuto conto anche del fatto che i soldi destinati a welfare non si recuperano subito, e può non essere semplicissimo utilizzarli tutti.

 

In passato avevamo sviluppato l’analisi dell’argomento welfare giungendo alle medesime conclusioni. Anche se riferito in parte ad uno specifico Istituto Bancario, invitiamo tutti coloro che volessero approfondire la questione a rileggere il post .

https://www.fisaccgilaq.it/banche/bper-welfare-aziendale-2017.html




Donare le ferie ad un collega: un atto di solidarietà

Il caso di Mathys Germain, il bimbo francese morto a causa di un tumore al fegato nel 2012, insegna quanto può essere importante un gesto di solidarietà, al di là di una legge, prima di una legge. Christophe, il papà di Mathys si era visto donare dai colleghi giorni di vacanze per assistere il piccolo, un atto meraviglioso che solo successivamente si è trasformato in legge: la legge 2014/459 (cosiddetta legge Mathys) grazie alla quale i colleghi di lavoro possono donare le proprie ferie per aiutare chi ha bisogno di tempo per curare figli minorenni gravemente malati.

Con l’articolo 24 del Dlgs 151/2015 la cessione delle ferie è stata introdotta e regolamentata anche in Italia; la norma prevede che i lavoratori possano cedere, a titolo gratuito, le proprie ferie maturate ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro, per consentire l’assistenza ai figli minori che necessitano di cure costanti per le particolari condizioni di salute.

La norma non contrasta con il principio di irrinunciabilità delle ferie stesse e con quanto disposto dal decreto sull’orario di lavoro che prevede il diritto, per il dipendente, ad un periodo annuale di ferie retribuite di almeno 4 settimane, per reintegrare le energie psicofisiche e parteciparealla vitafamiliare e sociale. In parole semplici, è possibile cedere soltanto le cosiddette “ferie monetizzabili”, ossia quelle ulteriori rispetto al minimo annuale irrinunciabile di 4 settimane, oppure i riposi previsti dai contratti collettivi in aggiunta ai normali riposigiornalieri e settimanali.

La cessione delle ferie è dunque gratuita ed ha una finalità solidale, perché volta a consentire l’assistenza di uno o più figli minori del lavoratore (non di altri suoi familiari) bisognosi di cure continuative (è dunque implicito che lo stato di malattia o la disabilità del minore debbano essere certificate), nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicabili al rapporto dilavoro. Ad oggi, purtroppo, sono ancora pochi i contratti collettivi che hanno regolamentato leferie solidali In assenza del contratto collettivo nazionale, diverse realtà hanno regolamentato le ferie solidali del proprio personale con accordi collettivi di secondo livello o con singoli accordi.

Nel nostro settore alcuni istituti hanno dato applicazione a questo decreto, attraverso l’introduzionedellaBanca del tempo.

Nella fattispecie Intesa San Paolo ed Unicredit declinano questo istituto con una serie di iniziative, tra le quali ora ci interessa porre l’accento sulla costruzione di un “contenitore” di permessi retribuiti a disposizione dei colleghi che, per gravi ed accertate situazioni personali e/o familiari, hanno bisogno di permessi aggiuntivi. Questo contenitore viene alimentato sia dall’azienda che dai colleghi che volontariamente vi aderiscono. Nel Gruppo Ubi sta iniziando solo adesso l’elaborazione di una una proposta su quest’argomento.

Oggi il temine solidarietà sembra stia scomparendo dal nostro vocabolario; la realtà ci dimostra però che esistono molte persone disposte a donare il proprio tempo e le proprie energie a favore di chi ne habisogno. Queste buone prassi si stanno diffondendo anche nel nostro settore, non solo nell’ambito delle ferie solidali.

 

Fonte: “Banconote” mensile del coordinamento donne Fisac Brescia




Assegni per il Nucleo Familiare 2018: è il momento della domanda annuale

Con la Circolare numero n. 68 dell’ 11 maggio 2018, che riportiamo in calce, l’INPS ha pubblicato le tabelle delle fasce di reddito per l’erogazione degli assegni familiari valide per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019
Dalla circolare INPS stessa si evince che, essendo la variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo calcolata dall’ISTAT tra l’anno 2016 e l’anno 2017 pari a +1,1 per cento, sono stati rivalutati i livelli di reddito delle tabelle contenenti gli importi mensili degli assegni al nucleo familiare, in vigore per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019 con il predetto indice.
Di cosa si tratta
L’ANF è un sostegno economico per le famiglie dei lavoratori dipendenti ed i pensionati che viene erogato su richiesta annuale del lavoratore alla propria azienda utilizzando il modello INPS ANF/DIP SR16 (allegato alla presente o scaricabile dal sito www.inps.it).
Chi ha diritto alla corresponsione dell’assegno ed in quale misura
NB:  si raccomanda di verificare sempre la propria situazione familiare rispetto alle tabelle e non dare per scontato che non si ha diritto alla corresponsione dell’ANF
Il diritto e la misura dell’assegno dipendono dal numero dei componenti, dalle caratteristiche e dal reddito del nucleo familiare.
Per avere diritto alla corresponsione occorre che almeno il 70% del reddito familiare derivi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente.
Il reddito da prendere a riferimento è cumulativamente quello del richiedente e quelli di tutti gli altri componenti del nucleo familiare validi ai fini IRPEF dell’anno precedente.
Alla formazione del reddito concorrono i redditi di qualsiasi natura, compresi quelli esenti da imposte e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva se superiori ad € 1.032,92 (ad esempio gli interessi maturati su depositi, titoli ecc.).
Non si computano nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati e le anticipazioni sui trattamenti stessi, nonché l’assegno del nucleo familiare stesso.
L’attestazione del reddito del nucleo familiare è effettuata con autocertificazione (all’interno del modello di domanda)
***
A partire dall’1/7/2018, per l’erogazione dell’assegno, in presenza ovviamente dei prescritti requisiti, si dovrà fare riferimento al reddito familiare complessivo dell’anno 2017 ed alle relative tabelle INPS.
Composizione del nucleo familiare ai fini dell’ANF
  • il richiedente lavoratore o il titolare della pensione;
  • il coniuge che non sia legalmente ed effettivamente separato, anche se non convivente, o che non abbia abbandonato la famiglia. Gli stranieri residenti in Italia, poligami nel loro paese, possono includere nel proprio nucleo familiare solo la prima moglie, se residente in Italia;
  • i figli ed equiparati di età inferiore a 18 anni, conviventi o meno;
  • i figli ed equiparati maggiorenni inabili, purché non coniugati, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i figli ed equiparati, studenti o apprendisti, di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i fratelli, le sorelle del richiedente e i nipoti (collaterali o in linea retta non a carico dell’ascendente), minori o maggiorenni inabili, solo se sono orfani di entrambi i genitori, non hanno conseguito il diritto alla pensione ai superstiti e non sono coniugati, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i nipoti in linea retta di età inferiore a 18 anni e viventi a carico dell’ascendente, previa autorizzazione da parte dell’INPS.
Termini di presentazione della domanda
Dal 1° luglio di ogni anno su apposito modello Inps SR16  a valere per il periodo 1° luglio dell’anno corrente fino al 30 giugno dell’anno successivo.
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Nel caso in cui negli anni passati non si sia presentata domanda per l’ANF e se ne aveva diritto, è possibile recuperare fino a 5 anni di arretrati presentando all’attuale datore di lavoro, un modello SR16 per ogni anno; questo deve essere debitamente compilato con i dati relativi al nucleo familiare ed ai redditi conseguiti nell’anno solare precedente il 1° luglio di ogni anno di riferimento.
Chi paga l’ANF
L’assegno viene erogato in busta paga.
E’ tuttavia possibile richiederne il pagamento in favore del coniuge che non ha un rapporto di lavoro o non è titolare di pensione compilando un apposito quadro del modulo INPS che prevede anche l’indicazione delle relative modalità di pagamento al coniuge.
Casi particolari
  • In caso di variazione del nucleo familiare cambiano i parametri di riferimento per il calcolo e l’erogazione dell’assegno ed è necessario quindi segnalare la variazione all’azienda
  • Per il personale a part time l’assegno spetta in misura intera se l’orario di lavoro non è inferiore alle 24 ore settimanali; in caso contrario, vengono riconosciuti tanti assegni quante sono le giornate di lavoro svolte, indipendentemente dal numero delle ore di lavoro nella giornata

Consulta i rappresentanti della FISAC CGIL in azienda, o contatta gli uffici del Patronato INCA CGIL della propria città per verificare la tua specifica situazione e ricevere consulenza e supporto per l’eventuale compilazione della modulistica prevista per la richiesta degli assegni in questione, con particolare riferimento alle domande che richiedono preventiva autorizzazione da parte dell’INPS.

FISAC CGIL Coordinamento Nazionale Credito Cooperativo
Allegati:



Licenziati per un commento sui social

Si moltiplicano le sentenze sui lavoratori per i post contro le proprie aziende: “Rompono la fiducia col datore”.

Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione: licenziamento per giusta causa nei confronti di una impiegata di Forlì che sul suo profilo Facebook si era lasciata andare a uno sfogo contro la sua azienda:

“Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”

è il post riportato sulla sentenza. Secondo i giudici, di carattere diffamatorio e tale da aver definitivamente incrinato il rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro. Non è però la prima volta né l’unico caso di licenziamenti e sanzioni disciplinari dovuti ai social network. Basta una breve ricerca per rintracciare una esplicativa casistica, come quella riportata dal sito Workengo, che si occupa di reputazione online. Ma partiamo da Forlì.

La vicenda risale al 2012. La donna pubblica sul suo profilo Facebook un post che nella sentenza della Cassazione viene riportato tra virgolette: “Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”. Tra i suoi amici virtuali, però, c’è anche un collega nonché il legale della società. La donna cancella il post ma viene licenziata e la sanzione viene confermata in primo e in secondo grado.
“La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone – scrivono i giudici della Suprema Corte – pertanto la condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo”. Giusta causa, dunque. La difesa ha provato a spiegare che la donna, 43 anni e invalida al 67%, non era consapevole della eco che avrebbe avuto il suo sfogo, che credeva corrispondesse a una chiacchierata con un gruppetto di amici. La fine del rapporto di fiducia, spiegano i giudici, c’è indipendentemente dalla natura colposa della diffamazione. E anche se l’azienda non era citata direttamente, il destinatario era facilmente identificabile.

 

A Nichelino (Torino) nel 2015, una dipendente di una mensa scolastica condivide sul proprio profilo Facebook il post di un politico che denuncia il ritrovamento di insetti nella purea servita agli alunni. Si limita a commentare:

“Mah… io una polenta con aggiunta di scarafaggi non la mangerei volentieri”.

L’azienda se ne accorge e la licenzia (guadagnava 370 euro al mese) nonostante non avesse nominato la mensa in cui lavorava direttamente e nonostante avesse condiviso il post in un profilo con impostazioni di privacy private.

 

Nel 2014 era toccato invece a una dipendente della Perugina, licenziata per aver criticato un capo-reparto con un post su Facebook. Nel messaggio raccontava di aver sentito che diceva a un collega che per lui era necessario il collare. Nonostante le proteste sindacali, l’azienda non si era scomposta e, contro la dipendente (che era oltretutto una sindacalista) aveva sostenuto che il caporeparto stesse riprendendo il dipendente per la scarsa osservazione delle norme di sicurezza e igiene. “Da un esponente sindacale – aveva spiegato la Nestlé – che ha la responsabilità di rappresentare centinaia di persone che lavorano nel più grande stabilimento del Gruppo Nestlé in Italia, ci si attendeva il sostegno e non la critica agli sforzi rivolti a salvaguardare la sicurezza sul posto di lavoro, l’igiene e la qualità del prodotto”.

 

E ancora. Nel 2012 un operaio abruzzese era stato adescato su Facebook dal proprio capo “sotto mentite spoglie”. Il titolare aveva creato un falso profilo femminile sulla piattaforma e si era accorto che il dipendente aveva preferito chattare invece di occuparsi di una lamiera incastrata sotto una pressa. La Cassazione aveva riconosciuto legittimo lo strumento di “investigazione” anche perché il lavoratore avrebbe avuto anche in precedenza atteggiamenti d’allarme: “Il lavoratore – si legge nella sentenza – era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositivo elettronico utile per conversazioni via Internet”.

 

I motivi dei licenziamenti a causa dei social sono, comunque, molti. “Attenzione anche a usare troppo i social durante l’orario di lavoro, non è una grande idea”, si legge su Workengo.

L’esempio è una sentenza del 2016 del Tribunale di Brescia in cui il datore di lavoro aveva calcolato che la sua dipendente ogni tre ore effettuava circa 16 accessi a Facebook sottraendo, secondo il giudice, tempo all’attività lavorativa e incrinando così il rapporto di fiducia tra lei e il suo datore di lavoro.
“Se poi siete assenti dal lavoro e pubblicate foto mentre fate aperitivo o siete al mare invece di essere sotto le coperte e stravolti dalla febbre come avevate assicurato – spiegano ancora gli esperti di Workengo – beh… non si può dire che il vostro licenziamento sia immotivato da molteplici punti di vista”.
E ricordano il caso del dipendente di Veneto Banca licenziato perché, dopo aver richiesto un permesso per stress psicofisico, era poi andato al concerto di Madonna.

Articolo di Virginia Della Sala su “Il Fatto Quotidiano” dell’8/6/2018

 

Sullo stesso argomento leggi anche

https://www.fisaccgilaq.it/banche/occhio-al-web-social-network-e-sanzioni-disciplinari.html

 

 

 




Pensione anticipata di 5 anni grazie alla RITA

Nel 2018 ci sono diverse misure per andare in pensione in anticipo: una di queste è la RITA, la Rendita Integrativa Temporanea Agevolata con la quale si può anticipare la pensione di ben 5 anni.

La RITA è un anticipo pensionistico simile all’APe, dal quale si differenzia per determinati aspetti; infatti, mentre l’assegno dell’Ape Sociale e Volontaria è finanziato tramite un anticipo bancario, per la RITA si attinge dal fondo di previdenza complementare o eventualmente dal TFR (Trattamento di Fine Rapporto).

Quindi, coloro che negli anni scorsi hanno aperto un fondo di previdenza complementare con l’obiettivo di aumentare l’importo dell’assegno pensionistico futuro potrebbero decidere di utilizzarlo per un altro scopo, ossia per anticipare il ritiro dal lavoro.

Anche la RITA è stata introdotta con la Legge di Bilancio 2017 – così come l’APe – con l’obiettivo di rendere più flessibile la riforma Fornero; come anticipato, infatti, grazie alla rendita integrativa agevolata si può andare in pensione con 5 anni di anticipo rispetto all’attuale requisito anagrafico (66 e 7 mesi, 67 anni dal 2019). E in alcuni casi la pensione può essere goduta con ben 10 anni di anticipo.

Se siete iscritti ad un fondo di previdenza complementare – o anche se non lo avete – e siete interessati ad andare in pensione con largo anticipo vi consigliamo di informarvi in maniera approfondita su come utilizzare la RITA per le vostre esigenze; potete farlo di seguito, in questa guida dedicata alla rendita integrativa temporanea anticipata.
Requisiti

La RITA – acronimo di Rendita Integrativa Temporanea Anticipata – garantisce ai beneficiari di percepire un assegno ponte per smettere prima di lavorare. Il costo della pensione integrativa viene scaricato sui fondi di previdenza complementare, che possono essere sfruttati totalmente o in parte.

A chi si chiede come funziona la RITA è necessario indicare come esistano dei requisiti definiti per richiederla. Nel dettaglio, possono ricorrere alla RITA tutti i lavoratori dipendenti – sia pubblici che privati – che soddisfano i seguenti requisiti:

  • 61 anni e 7 mesi di età (5 anni al pensionamento) e 20 anni di contributi. Dal 2019 – qualora la RITA venisse confermata – vi si potrà ricorrere al compimento dei 62 anni, poiché a causa dell’adeguamento con le aspettative di vita l’età pensionabile è stata aumentata a 67 anni.
  • Se inoccupati da almeno 2 anni sono sufficienti 56 e 7 mesi di età (10 anni dalla pensione), più almeno 5 anni di partecipazione al fondo di previdenza complementare. Dal 2019 l’età anagrafica per gli inoccupati sarà aumentata a 57 anni.

Dai requisiti per RITA sono esclusi gli appartenenti alle casse professionali. A seconda della volontà del richiedente inoltre sarà data la possibilità di utilizzare i suddetti fondi pensione solo in parte o in misura integrale.

 

COME FUNZIONA?

L’assegno pensionistico percepito negli anni precedenti alla pensione grazie alla RITA è finanziato dal fondo di previdenza complementare al quale è iscritto il lavoratore. A differenza dell’Ape Volontario, quindi, andare in pensione con la RITA è più conveniente dal momento che non bisogna restituire il prestito ottenuto da un istituto di credito.
Inoltre la RITA gode di un regime fiscale agevolato; chi la richiede, infatti, subisce una ritenuta del 15% oltre alla riduzione dello 0,30% per ogni anno successivo al quindicesimo di partecipazione al fondo. L’aliquota minima comunque non può scendere al di sotto del 9%.

 

DA QUANTO BISOGNA ESSERE ISCRITTI AL FONDO PREVIDENZIALE COMPLEMENTARE?

Apparentemente quindi la RITA può sembrare una misura molto conveniente per anticipare l’accesso alla pensione di qualche anno, ed effettivamente lo è. Tuttavia questo strumento ha un limite: solo pochi lavoratori possono avere la possibilità di ricorrere al loro fondo previdenziale complementare per finanziare la rendita integrativa.

Secondo quanto stimato dalla fondazione dei consulenti del lavoro e dal MEFOP, infatti, per ricorrere alla RITA sarà necessario un montante contributivo di almeno 100mila euro. Quindi solamente chi per anni ha avuto un lavoro sicuro e ben pagato – così da avere abbastanza liquidità per iscriversi ad un fondo previdenziale integrativo – potrà ricorrere a questa misura.

Tuttavia c’è una possibilità anche per coloro che in questi anni hanno deciso di non iscriversi ad un fondo previdenziale per integrare il futuro assegno pensionistico; infatti non è mai troppo tardi dal momento che potete farlo anche oggi destinando al fondo l’intero importo del TFR accantonato in questi anni, aumentando così il montante contributivo ed utilizzando la cosiddetta liquidazione (trattamento di fine rapporto) per anticipare la vostra uscita dal lavoro.

Fonte: www.money.it




Poste Italiane, così il Governo Monti ha venduto i dati degli studenti

La carta IoStudio Postepay, che dovrebbe avere funzione primaria di carta dello studente, è una prepagata che viene rilasciata senza alcuna informativa sui costi (che pure ci sono) e con un esplicito invito agli studenti ad attivarla, caricarla e iniziare a utilizzarla negli esercizi convenzionati, negli store online e anche a contribuire attivamente a estendere la rete degli esercenti.

Gli studenti e i loro dati? Sono stati venduti dal Ministero dell’Istruzione a Poste Italiane.

E non si tratta di un modo di dire: dal 2014 tutti i ragazzi e le ragazze che frequentano il primo anno delle scuole superiori ricevono in automatico la cosiddetta Carta dello Studente, denominata IoStudio Postepay con funzionalità incorporata di carta prepagata utilizzabile anche sul circuito Visa. La carta, che viene emessa dal gruppo Poste Italiane, viene consegnata in automatico agli studenti dalle segreterie scolastiche senza una lettera di accompagnamento ai genitori e senza spiegazione alcuna: l’unica cosa – molto evidente – è che si tratta di uno strumento di pagamento. La sua funzionalità di Carta dello Studente, ossia di carta di riconoscimento da utilizzare per usufruire di gratuità o sconti per l’ingresso ai musei e alle iniziative culturali è – per usare un eufemismo – messa in secondo piano.

Come si è arrivati a tutto questo?
Bisogna tornare al 2013 e al governo Monti: fu l’allora ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, a decidere di vendere i dati degli studenti a un operatore finanziario in cambio dell’emissione delle carte e di una quota delle commissioni da versare a un apposito fondo “per l’accesso al diritto allo studio”. In questo modo il Ministero risparmia i soldi per la stampa dei tesserini che attestano la qualifica di studente in Italia e all’estero e incamera anche qualche “spicciolo”.

L’operatore finanziario in questione – Poste Italiane che si è aggiudicata la “gara di sponsorizzazione gratuita” indetta dal Miur (ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) nel 2013 – guadagna un parco di alcune centinaia di migliaia di potenziali nuovi clienti ogni anno. Ma un’operazione che a prima vista potrebbe parere vantaggiosa per tutti – e che viene addirittura spacciata dal ministero come “una opportunità ulteriore a sostegno della mobilità dello studente ed in linea con i programmi di sensibilizzazione dei giovani cittadini e delle famiglie verso i temi dell’educazione finanziaria e dell’utilizzo responsabile e consapevole della moneta elettronica e dei sistemi digitali di pagamento” – è in realtà solo e soltanto una scandalosa operazione di marketing di Stato a danno dei ragazzi e delle famiglie.
Una “pesca a strascico” che porta moltissime famiglie ad attivare anche su pressione dei figli proprio quella carta, peraltro non richiesta. Come se i comuni distribuissero ai cittadini carte d’identità “sponsorizzate” da questo o quell’altro istituto di credito e utilizzabili come strumento di pagamento e le Regioni facessero altrettanto con le tessere sanitarie (forse, dati i tempi che corrono, ci arriveremo).

Altro che educazione finanziaria e utilizzo responsabile della moneta elettronica: la carta IoStudio Postepay viene rilasciata senza alcuna informativa sui costi (che pure ci sono) e con un esplicito invito agli studenti ad attivarla, caricarla e iniziare a utilizzarla negli esercizi convenzionati, negli store online e anche a contribuire attivamente a estendere la rete degli esercenti segnalandoli all’emittente affinché possa stipulare apposite convenzioni. Delle attività culturali e degli utilizzi a fini di istruzione della Carta dello Studente non si trova traccia nel foglio che viene rilasciato agli studenti con attaccata la loro personale IoStudio Postepay. Per contro, compare una dicitura sinistramente simile a quella del “gioco responsabile” che accompagna tutte le pubblicità di lotterie, gratta e vinci, scommesse e giochi d’azzardo: “Per usare responsabilmente la tua carta IoStudio Postepay visita la sezione IoApprendo>Educazione Finanziaria sul Portale dello Studente”.

Come sottolinea Poste Italiane, “Tutta l’attività di consegna e comunicazione è a cura del Ministero che è il soggetto emittente della carta e che ha predisposto il materiale di comunicazione per gli studenti e le stesse famiglie”, dunque anche i testi del foglio con cui viene consegnata la carta. Poste Italiane, poi, tiene a precisare che “la funzionalità di pagamento è facoltativa e non è attiva al momento della consegna delle Carte. Per le carte emesse fino allo scorso anno la funzionalità di pagamento poteva essere attivata direttamente on line, tramite il sito dello stesso Miur.
A seguito del cambiamento della normativa, in particolare con l’introduzione della IV Direttiva anti riciclaggio, per le carte di nuova emissione sarà possibile procedere all’attivazione delle stesse solo in Ufficio Postale a seguito dell’identificazione dello studente e di un genitore, nel caso di studente minorenne”.

Dal canto suo, il Ministero dell’Istruzione ribadisce che l’attivazione della funzionalità di carta prepagata rappresenta “esclusivamente un servizio aggiuntivo la cui attivazione non è obbligatoria ai fini dell’accesso alle offerte IoStudio” e che l’emissione della carta “è automatica ai soli fini di attestare lo status di studente e accedere a sconti e agevolazioni relativi a beni e servizi di natura culturale, a servizi per la mobilità nazionale e internazionale, ad ausili di natura tecnologica per lo studio e per l’acquisto di materiale scolastico”.

Belle parole, peccato che le cose stiano diversamente come attestano anche le parole dell’allora amministratore delegato di Poste Italiane quando il 10 aprile 2013 presentò l’iniziativa assieme al ministro Profumo: “Con questa Carta dello Studente con la funzione della Postepay ci rivolgiamo agli studenti per consegnare loro uno strumento sicuro e innovativo da usare per depositare i risparmi, le borse di studio scolastiche, le paghette ricevute dai genitori”. Significativa anche la chiosa del ministro Profumo: “È poi di particolare significato che una parte dei proventi ricavati da Poste attraverso l’utilizzo delle funzioni di pagamento della carta contribuiranno all’istituzione del Fondo per il Diritto allo Studio, che sosterrà la realizzazione e la promozione dei progetti nazionali per l’accesso allo studio”.

Insomma, si tratta di un vero e proprio accordo finanziario tra Ministero e Poste che passa sopra la testa di tutti e che elude anche la legge sulla privacy, dato che le famiglie non sono nemmeno chiamate a prestare il loro consenso al trattamento dei dati dei propri figli per finalità commerciali da parte del ministero (quale è a tutti gli effetti l’emissione di una carta-prodotto finanziario), in quanto – come risponde il Miur – i dati acquisiti con l’iscrizione online al sistema scolastico vengono trasmessi in automatico dall’Anagrafe nazionale studenti a Poste Italiane.

Fonte: www.ilfattoquotidiano.it

 




Assegni Familiari: le nuove tabelle dal 1° luglio 2018

Circolare INPS n. 68 dell’11/5/2018

La legge n. 153/88 stabilisce che i livelli di reddito familiare ai fini della corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare siano rivalutati annualmente, con effetto dal 1° luglio di ciascun anno, in misura pari alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, calcolato dall’ISTAT, intervenuta tra l’anno di riferimento dei redditi per la corresponsione dell’assegno e l’anno immediatamente precedente.

La variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo calcolata dall’ISTAT tra l’anno 2016 e l’anno 2017 è pari a +1,1 per cento.

In relazione a quanto sopra, sono stati rivalutati i livelli di reddito delle tabelle contenenti gli importi mensili degli assegni al nucleo familiare, in vigore per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019 con il predetto indice.

Si allegano alla presente circolare le tabelle contenenti i nuovi livelli reddituali, nonché i corrispondenti importi mensili della prestazione, da applicare dal 1° luglio 2018 al 30 giugno 2019, alle diverse tipologie di nuclei familiari.

Gli stessi livelli di reddito avranno validità per la determinazione degli importi giornalieri, settimanali, quattordicinali e quindicinali della prestazione.

Le Strutture territoriali dell’Istituto sono invitate a portare a conoscenza dei datori di lavoro, delle relative associazioni di categoria, dei consulenti del lavoro e degli Enti di Patronato, con ogni possibile sollecitudine, il contenuto della presente circolare.

All. Tabelle

 

 




Contestazioni disciplinari: come comportarsi?

Comportamenti pratici in caso di contestazione disciplinare

Riteniamo opportuno fare qualche precisazione di carattere pratico, in particolare sulla  stesura delle controdeduzioni scritte e sull’ eventuale  colloquio. Si tratta ovviamente di nozioni generali, che devono essere adattate al singolo evento che in ogni caso fa storia a sé.

Contattare subito il proprio sindacalista

A fronte dell’avvio di una contestazione disciplinare emerge l’assoluta opportunità di prendere immediatamente contatto con il proprio rappresentante sindacale, per avere la necessaria assistenza prima di addentrarsi in una realtà che non solo è personalmente sgradevole ma è anche tecnicamente complessa ed incerta.

La trasparenza tra lavoratore e sindacato

In ogni caso ed in via del tutto preliminare, è necessario che il rapporto fra il rappresentante sindacale e  l’iscritto sia improntato alla massima trasparenza reciproca: il lavoratore deve esporre i fatti in modo veritiero e completo, in modo tale che anche il proprio rappresentante sindacale non incorra in errori di valutazione.

La difesa da parte del lavoratore

Il  lavoratore  ha  diritto –  entro 5 giorni  di  calendario dal ricevimento della lettera di contestazione, che  salgono a 15 giorni nel settore delle Assicurazioni – a formulare le proprie difese per iscritto o richiedendo un colloquio.
E’ opportuno che la lettera di controdeduzione sia redatta in maniera lineare e sintetica, senza polemiche; non serve tentare di smentire fatti oggettivi ed accertati, mentre potrà essere utile sottolineare problematiche che riguardano carenze organizzative/procedurali aziendali ed altresì eventuali lacune nella propria formazione.
Qualora siano già state fornite al proprio responsabile o alle funzioni ispettive alcune  spiegazioni sui fatti contestati, sarà opportuno tenerne conto nella stesura della lettera.
Inoltre è sempre da valutare con la  massima cautela il coinvolgimento di altri colleghi nelle proprie controdeduzioni.

Il colloquio  può dare una personalità fisica a quella che potrebbe altrimenti  apparire come una mera pratica burocratica dell’ufficio del personale, ma può anche essere per alcuni una situazione di stress.
La richiesta di colloquio permette però di avere qualche giorno in più per approfondire meglio la contestazione e preparare le proprie difese. Nel colloquio non esiste contraddittorio, e  l’azienda deve solamente verbalizzare le spiegazioni del lavoratore: è quindi sempre consigliabile arrivare al colloquio con  una traccia scritta delle proprie difese.
E’ possibile formulare le proprie difese in una lettera ed in più richiedere anche il colloquio. Tuttavia è importante che la richiesta del colloquio sia esplicita: inserire nella lettera di controdeduzioni frasi del genere “il sottoscritto è a disposizione per ogni ulteriore chiarimento” è da evitare, perché crea incertezza su quali  siano le concrete intenzioni del lavoratore.

Per approfondimenti rinviamo alla lettura della Guida alle responsabilità patrimoniali e disciplinari

Fonte: Gli Azzeccagarbugli, periodico informativo della FISAC Treviso




L’azienda può ridurre lo stipendio ai lavoratori?

Riceviamo periodicamente segnalazioni dai lavoratori, che riferiscono di discorsi minacciosi da parte dei rispettivi “capi”, secondo i quali sarebbero imminenti significativi tagli alle buste paga per introdurre una parte di retribuzione variabile legata ai risultati.

Cosa può esserci di vero in un simile annuncio?

Per rispondere alla domanda esaminiamo le regole che disciplinano la materia.

I DIRITTI ACQUISITI SONO INDISPONIBILI

Non tutte le norme che regolamentano il rapporto di lavoro possono essere oggetto di trattativa. In particolare, i diritti acquisiti e consolidati, di norma coincidenti con fondamentali valori umani e sociali garantiti dalla Costituzione, sono indisponibili: questo significa che non possono essere oggetto di trattativa in quanto né le aziende, né le organizzazioni sindacali possono rimetterli in discussione, trattandosi di qualcosa che si trova ad un livello superiore alle parti e della quale non possono disporre.

Tra i diritti indisponibili c’è quello relativo ai livelli retributivi, tutelati peraltro dall’Art. 36 della Costituzione:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

I contratti collettivi prevedono tabelle che stabiliscono i livelli retributivi minimi per ciascun inquadramento (ad esempio, questa è quella relativa al contratto ABI)


I livelli indicati in tabella costituiranno la base da cui partire in occasione dei futuri rinnovi contrattuali: possono al limite restare invariati, ma non possono diminuire.

Eventuali variazioni alla struttura retributiva possono valere solo per chi comincerà a lavorare dalla stipula del contratto in poi, non avendo ancora diritti precedentemente acquisiti.
Un esempio è rappresentato dall’art. 46 del CCNL ABI del 2015, che prevede per i nuovi assunti una deroga ai livelli retributivi per quattro anni, ma lascia ovviamente immutata la retribuzione dei lavoratori in servizio alla data di stipula.

L’unico caso in cui un accordo può derogare in peggio rispetto ai livelli retributivi si ha nel caso di gravi crisi aziendali. In situazioni in cui l’esistenza stessa dell’azienda è posta in serio pericolo, si possono eccezionalmente rimettere in discussione anche diritti indisponibili, al solo scopo di salvare i posti di lavoro.
Un accordo del genere, per essere valido, deve necessariamente essere approvato da ogni singolo lavoratore tramite conciliazione individuale con l’azienda.
Purtroppo abbiamo già esperienza di accordi fatti in aziende bancarie nelle quali il taglio delle retribuzioni si è rivelata l’unica strada percorribile per scongiurare la liquidazione.

Possono invece essere oggetto di revisione i trattamenti “ad personam“, qualora siano frutto di accordi tra Azienda e lavoratori. Un successivo accordo tra le medesime parti può modificare o eliminare l’ad personam.

LA RETRIBUZIONE E’ LEGATA ALLE MANSIONI SVOLTE

Il concetto per cui la retribuzione non può essere ridotta viene ribadito dal Codice Civile:
l’art. 2103 stabilisce che anche in caso di demansionamento il lavoratore ha il diritto al mantenimento della retribuzione percepita.
L’art. 2113 prevede che il lavoratore non possa in alcun modo derogare a disposizioni irrinunciabili della legge o dei contratti collettivi.
Per essere chiari: se un’azienda “convincesse” un lavoratore a firmare un accordo nel quale accetti di ridursi la retribuzione a parità di mansioni, quell’accordo sarebbe nullo.

Diverso invece è il caso in cui tra azienda e lavoratore venga sottoscritto un accordo che preveda la variazione di mansioni: in quel caso la riduzione di retribuzione può essere legittima se giustificata dallo svolgimento di mansioni inferiori.
Dell’argomento ci eravamo già occupati in un precedente post, al quale rimandiamo per approfondimenti

https://www.fisaccgilaq.it/normativa/come-e-quando-si-puo-essere-demansionati.html

LA RETRIBUZIONE VARIABILE

Prima di tutto ribadiamo un concetto: tutte le forme di retribuzione variabile (premi di risultato, sistemi incentivanti, MBO….) non possono mai essere sostitutive degli importi tabellari, ma possono solo aggiungersi ad essi.

Non possiamo escludere che in sede di rinnovo del CCNL ABI, in scadenza alla fine del 2018, le Aziende cerchino di inserire nuove forme di contratti misti (con una parte di retribuzione fissa ed una legata ai risultati), sulla scia di quanto avvenuto con l’ accordo stipulato il 21-12-2017 nel Gruppo Intesa; se anche questa modalità retributiva dovesse venire introdotta nel prossimo contratto, varrebbe comunque solo per gli assunti dopo la data di stipula.

Nelle aziende esistono varie forme di accordi che disciplinano la parte variabile della retribuzione, essendo una materia di norma demandata ai contratti di secondo livello.
Esistono tuttavia dei paletti volti ad evitare che i premi siano legati al raggiungimento di obiettivi individuali.
Sia il CCNL ABI (art. 51) che il CCNL Federcasse (art. 50) stabiliscono che i premi debbano essere assegnati “per gruppi omogenei di posizioni lavorative”. 
Il concetto è stato ribadito nell’ Accordo Nazionale sulle politiche Commerciali sottoscritto l’8 febbraio 2017 presso l’ABI che all’art. 8 prevede l’assegnazione di obiettivi volti a valorizzare il lavoro di squadra.

 

POSSIAMO ORA RISPONDERE ALLA DOMANDA INIZIALE: la riduzione dello stipendio e la sua sostituzione con una quota variabile legata a risultati individuali, non sono possibili in quanto comporterebbero la violazione di contratti, leggi e principi generali del diritto.

Chi minaccia i lavoratori affermando possibili variazioni in tal senso pone in essere una forma particolarmente scorretta di pressioni commerciali illegittime, che mira a spaventarli e privarli delle loro certezze.

Ancora una volta ribadiamo l’invito ai lavoratori a segnalare tutti i comportamenti scorretti ai propri rappresentanti sindacali, affinché si attivino per farli cessare immediatamente.