Assegni privi della clausola “non trasferibile”

Negli ultimi mesi, numerosi lavoratori di banca hanno ricevuto comunicazione con la quale si contestava l’omessa segnalazione di un’operazione di versamento di un assegno d’importo superiore a 1000 euro, al quale non era stata apposta la dicitura “non trasferibile”.

Tali comunicazioni provengono dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, tramite le Ragionerie Territoriali dello Stato competenti dal territorio.

Si tratta di comunicazioni non omogenee: in qualche caso sono state notificate al solo cassiere che ha eseguito l’operazione; in altri casi sono state notificate al cassiere ed al direttore della filiale quale legale rappresentante; in altri casi ancora sono state notificate al cassiere ed alla banca.

Tutte le comunicazioni contengono sempre due indicazioni:

  • La possibilità di estinguere il procedimento con il pagamento di un’oblazione pari a un terzo del massimo oppure al doppio del minimo;
  • La possibilità di inviare entro 30 giorni una memoria difensiva, nella quale è anche possibile richiedere di esporre a voce le proprie difese.

 

Normativa sanzionatoria.

La normativa di riferimento è il cosiddetto “decreto antiriciclaggio” – o meglio, con dizione più precisa – il decreto legislativo n. 231/2007 (art. 49 commi 4 e 5; art. 51 comma 1; art. 63 comma 5), recentemente modificato col decreto legislativo n. 90/2017.

La modifica del maggio 2017 – fra l’altro – ha inasprito pesantemente le sanzioni, che per le mancate segnalazioni di assegni trasferibili d’importo superiore a 1000 euro sono ora pari a un minimo di 3.000 euro e ad un massimo di 15.000 euro.

Prima della modifica del 2017, le sanzioni per tale irregolarità (riportate nel vecchio art. 58) non erano in cifra fissa, ma in percentuale e andavano da un minimo dell’1% ed un massimo del 40% dell’importo dell’assegno.

Facciamo ora l’esempio di un assegno irregolare di 2.000 euro:

  • con le vecchie sanzioni, l’oblazione poteva avvenire con il pagamento di 40 euro (il doppio della sanzione minima, pari al 2%);
  • con le sanzioni introdotte nel 2017, l’oblazione può avvenire con il pagamento di 5000 euro (un terzo della sanzione massima, più favorevole del doppio della sanzione minima);

Questo significa – nell’esempio di cui sopra – che le sanzioni sono aumentate di oltre 100 volte rispetto all’anno passato.

 

La scelta fra oblazione e difesa.

E’ una scelta che spetta esclusivamente al lavoratore; i casi di pagamento dell’oblazione sono stati finora in numero limitato, a causa dell’importo elevato che viene richiesto, come già evidenziato pari a euro 5.000.

La presentazione della memoria difensiva è ovviamente finalizzata ad ottenere l’annullamento della sanzione o almeno una sanzione ridotta rispetto a quella prevista per l’oblazione.

Qualora si scelga di impostare una difesa, il Ministero avvia una procedura amministrativa, che si concluderà con un decreto che stabilirà la sanzione definitiva piuttosto che l’annullamento della sanzione.

Contro tale decreto sarà possibile l’impugnazione davanti al Tribunale civile.

 

Possibili linee difensive.

Occorre fare sin dall’inizio una precisazione di assoluta importanza: ogni contestazione formulata dal Ministero rappresenta un caso a sé ed ogni singolo caso ha le proprie peculiarità.

Ne consegue che le difese scritte piuttosto che orali devono essere impostate caso per caso, non può esistere un modulo standard.

Fatta questa precisazione, nei diversi casi che sono stati esaminati, si possono individuare alcuni elementi che appaiono come elementi di difesa.

Si possono formulare le seguenti difese in fatto.

  • La difesa più semplice, ma anche la prima da prospettare, è legata alle modalità con cui si sono svolti i fatti.

In diversi casi, l’assegno irregolare era inserito in un’operazione di versamento di numerosi assegni – a volte parecchie decine – effettuati da società della più diversa natura.

Il lavoratore pone sempre attenzione nel valutare la correttezza formale degli assegni presentati allo sportello, ma ovviamente l’attenzione è meno sollecitata quando il cliente è una società conosciuta e che si presenta frequentemente allo sportello per effettuare il versamento contemporaneo di molti assegni. Inoltre, in tali casi, è conseguente ritenere che ove vi fossero state irregolarità nell’assegno, lo stesso sarebbe stato bloccato in precedenza.

  • In alcuni casi, l’assegno è stato versato in un bancomat. Usualmente, dopo che il cliente ha digitato l’importo dell’assegno e se il titolo supera la cifra di 1000 euro, il bancomat ricorda al cliente stesso di verificare se vi sia la clausola “non trasferibile”.

La presenza di tutta una serie di controlli che l’apparecchiatura suggerisce al cliente in fase di versamento, ha abbassato la soglia di attenzione dell’addetto che ha poi accreditato l’assegno sul conto corrente.

  • I carnet di assegni stampati dalla generalità delle banche recano da parecchi anni – quanto meno dal 2011 – la clausola “non trasferibile” già prestampata. A distanza di anni gli assegni privi di tale clausola sono ormai estremamente rari ed anche ciò ha contribuito ad abbassare la soglia di attenzione del lavoratore.
  • In alcuni casi, l’assegno recava l’avvertenza stampata dell’obbligo della clausola “non trasferibile”. Questa dicitura è verosimilmente stata fraintesa dal correntista ed anche dal lavoratore, che hanno ritenuto che la stessa potesse essere sufficiente per adempiere agli obblighi di legge.
  • Una circostanza che è emersa in tutti i casi esaminati ed è assolutamente importante sottolineare, è che l’assegno non recava alcuna girata, era indicato solo il beneficiario, il quale a sua volta ha versato il titolo sul proprio conto corrente.

Ne consegue che il titolo non ha mai circolato, l’apposizione o meno della clausola “non trasferibile” è stata irrilevante nel caso concreto e la finalità della legge – impedire la circolazione di assegni d’importo superiore a 1000 euro – è stata rispettata.

Inoltre, si possono formulare alcune difese in diritto.

  • Il procedimento sanzionatorio è quello previsto dalla legge 689/1981, in particolare l’art. 14. In forza di tale norma, gli estremi della violazione debbono essere notificati agli interessati al massimo entro 90 giorni.

La data di versamento dell’assegno è nota ed è verosimile che la banca sulla quale era stato tratto l’assegno abbia comunicato l’irregolarità nel rispetto dei termini di legge, ossia nei termini di 30 giorni come previsto dall’art. 51 del decreto legislativo 231/2007.

Occorre accertare se da quel momento e sino al momento in cui sono state chieste informazioni alla Banca che ha accettato il versamento dell’assegno sia trascorso un termine superiore o meno ai 90 giorni concessi per la notifica dell’infrazione.

Se la notifica è avvenuta dopo tale termine, è tardiva, con la conseguente decadenza della facoltà d’imporre sanzioni.

  • Inoltre, occorre eccepire che nell’imposizione della sanzione non si è tenuto in alcun conto della tenuità del fatto oggettivo e dell’elemento soggettivo di colpa lieve.
  • Infine, si può altresì riflettere su quanto sia eccessiva la sanzione ed abnorme rispetto al fatto, tale da sollecitare una verifica della correttezza costituzionale della norma.

Nel caso in cui la comunicazione sia inviata ad un direttore di filiale, le difese in fatto sono molto più semplici.

  • E’ sufficiente evidenziare che il lavoratore svolge l’attività di direttore di filiale; l’operazione è stata effettuata da uno dei dipendenti addetti alla cassa della filiale stessa.

Ne consegue che l’interessato è del tutto estraneo all’operazione, in quanto fra le mansioni di un direttore di filiale non rientra né l’operatività di sportello – comprendente i versamenti di assegni e contanti – né la verifica delle singole operazioni eseguite allo sportello.

Per quanto ovvio, la lettera con le deduzioni difensive deve essere sempre firmata dal lavoratore interessato e non dal sindacato.

 

Questioni sindacali.

  • Spesso il lavoratore interessato e la banca sono obbligati in solido nel pagamento della sanzione.

E necessario stabilire un contatto sindacale con la banca per cercare di capire quali siano le intenzioni della stessa in ordine al pagamento dell’oblazione piuttosto che all’invio di una memoria difensiva; alla possibilità per il lavoratore di unirsi alle difese della banca; all’intenzione di avviare un procedimento disciplinare contro il lavoratore; all’intenzione di rivalersi sul lavoratore per la somma pagata a titolo di oblazione.

  • Il colloquio presso gli uffici ministeriali avviene nell’ambito di un procedimento amministrativo, non ha alcuna attinenza con il procedimento disciplinare previsto dalla legge n. 300/1970.

Ne consegue, che il sindacalista non ha diritto di presenziare al colloquio.

  • In alcuni casi, il funzionario ministeriale ha concesso al sindacalista di affiancare il lavoratore durante il colloquio. E’ necessario valutare con la massima attenzione le eventuali affermazioni del sindacalista durante il colloquio e che verranno verbalizzate. Si tratta di un colloquio con un funzionario di un’Amministrazione dello Stato, che ha una posizione assai diversa rispetto a quella di un dirigente di un’azienda privata, come sono le banche.  E le affermazioni del sindacalista entrano nell’ambito di un procedimento amministrativo.

 

Alberto Massaia e Corinna Mangogna

 

Come FISAC L’Aquila ci eravamo già occupati di questo argomento. 

https://www.fisaccgilaq.it/banche/assegni-occhio-alla-clausola.html

 




Esonero visita fiscale senza rivelare la malattia. Quando si può?

La visita fiscale INPS è un controllo medico finalizzato ad attestare la patologia di cui soffre il lavoratore e che gli impedisce di tornare al lavoro. Essendo una visita medica di controllo è garantita la riservatezza: se il lavoratore malato soffre di un disturbo la cui rivelazione può provocargli disagio o imbarazzo non deve avere timore, in quanto esiste il divieto di diffondere notizie relative alla malattia. E’ quanto stabilisce una sentenza della Corte di Cassazione depositata il 31 gennaio di quest’anno.

In caso di disturbi psicologici o depressivi si potrà tranquillamente richiedere l’esonero dalla visita fiscale INPS e uscire all’aria aperta anziché stare al chiuso tra le quattro mura di casa, senza avere timore che il proprio disturbo venga rivelato.
Per l’esonero si ricorda che sul certificato medico da inoltrare all’INPS il medico dovrà inserire il Codice E.
Si tratta di un codice che esprime la sua opinione di medico nel testimoniare la necessità di esonero dalla visita fiscale per quel soggetto in considerazione della patologia da cui è affetto; questo parere sarà poi ulteriormente sondato dall’Istituto stesso.

Non dovrebbe esserci nessun timore che il proprio datore di lavoro venga a conoscenza di una malattia della quale il lavoratore vuole tenerlo all’oscuro per motivi di riservatezza. Il datore non può infatti venire a conoscenza della patologia, ma solo dell’esito della prognosi.
Qualora il datore di lavoro venga a conoscenza della malattia, ed in conseguenza di ciò provochi disagio al lavoratore malato (ad esempio rivelandola agli altri dipendenti) può essere denunciato.
In questo caso il lavoratore potrà chiedere il risarcimento per i danni morali.

Con la sentenza n. 2367 del 31/01/2018 la Corte di Cassazione ha ribadito il divieto di svelare la malattia del lavoratore dipendente. Lo stato di salute di quest’ultimo rientra infatti tra i dati personalissimi che necessitano di una protezione maggiore.
Qualora il datore di lavoro venga a conoscenza della patologia del lavoratore perché il medico INPS lo ha scritto sulla relazione, non sarà il medico o l’istituto a pagarne le conseguenze, ma lo stesso datore di lavoro nell’eventualità in cui utilizzi quella notizia per provocare al dipendente maggior disagio.

Secondo quanto prevede il Decreto Ministeriale del 15 luglio 1986, il datore di lavoro o l’INPS – qualora richiedesse la visita di controllo – potranno ricevere esclusivamente una copia del referto senza indicazioni diagnostiche, ma con la sola prognosi.

Il certificato di malattia resta dunque totalmente protetto da privacy.

 

Fonte: www.termometropolitico.it

 

Sullo stesso argomento

https://www.fisaccgilaq.it/normativa/malattie-e-certificati.html




Registrazioni di conversazioni con datore di lavoro: sono utilizzabili in giudizio?

Spesso, nell’ambito delle controversie di lavoro, viene avvertita l’esigenza, da parte dei dipendenti, di effettuare registrazioni di colloqui con il proprio datore di lavoro, all’insaputa di quest’ultimo, tramite appositi supporti (telefoni, registratori ambientali, microspie) al fine di ottenere l’assunzione di determinati mezzi di prova. Si pensi al caso del lavoratore assunto “in nero” che intende premunirsi di documenti finalizzati alla dimostrazione dell’effettiva esistenza del rapporto di lavoro subordinato, o ancora al dipendente che intende documentare atti discriminatori effettuati dal principale.
Ma sono sempre utilizzabili tali registrazioni?
Quali sono i limiti che impediscono l’acquisizione di certe riproduzioni?

Al fine di rispondere a tali quesiti, è opportuno avanzare un’analisi, prima del prevalente orientamento giurisprudenziale attinente all’argomento, di quelle che sono le condizioni che consentono effettivamente l’utilizzabilità, in sede processuale, delle riproduzioni in esame.

LA CASSAZIONE SULLE REGISTRAZIONI OCCULTE

Al riguardo, l’orientamento prevalente della Corte di Cassazione, intervenuta più volte sul tema, si mostra favorevole all’utilizzabilità delle registrazioni, anche telefoniche, prevedendo, come requisito essenziale, che la registrazione venga realizzata da un soggetto che partecipi effettivamente alla relativa conversazione, senza la necessità di una preventiva autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, in quanto tali riproduzioni non vengono ritenute contrastanti con la libertà di comunicazione della persona.
Nel caso, perciò, in cui la registrazione venga effettuata da un terzo, risulteranno integrati gli estremi di una vera e propria intercettazione (caratterizzata dall’estraneità al dialogo del captante), pertanto utilizzabile come mezzo di prova soltanto qualora realizzata da un’autorità inquirente, nel rispetto delle relative disposizioni del codice di procedura penale.

I giudici di legittimità hanno inoltre chiarito che, nel caso in cui il datore di lavoro disconosca la conformità ai fatti o alle cose delle registrazioni, quest’ultime risulteranno degradate, da piene prove, a mere presunzioni semplici, con la conseguente necessità di essere avvalorate da ulteriori elementi, anche indiziari. Il disconoscimento, inoltre, dovrà essere “chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta)” e dovrà avvenire nella prima udienza, o nella prima risposta successiva all’acquisizione delle registrazioni (Cass. n. 9526/2010).

Tra le sentenze della Cassazione si propongono:

Cass., SS.UU., n. 36747/2003:
“La registrazione costituisce forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità della persona che vi partecipa”.

Cass., Sezione lavoro, n. 27424/2014:
“La registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo”.

LE CONDIZIONI NECESSARIE PER L’UTILIZZABILITA’ DELLE REGISTRAZIONI OCCULTE NEL PROCESSO 

La Suprema Corte si è inoltre espressa circa le condizioni che legittimano la produzione, in giudizio, delle registrazioni effettuate all’insaputa dell’interlocutore, rinvenendo tali condizioni in:

  • esigenza di tutela o riconoscimento di un diritto;
  • utilizzo delle riproduzioni esclusivamente per esigenze di difesa e durante il periodo necessario a dette esigenze.

Relativamente al primo requisito è opportuno specificare che la diffusione di una conversazione registrata, per necessità differenti dalla tutela di un proprio diritto o un diritto altrui, risulti idonea ad integrare la fattispecie di trattamento illecito dei dati personali, ai sensi dell’art. 167, D.Lgs. 196/2003 (conformemente, Cass. n. 18908/2011).

Con riferimento alla seconda condizione, invece, emerge chiaramente la fattispecie di cui all’art. 24, lettera f) del codice della privacy, la quale esclude l’esigenza del consenso dell’interessato, qualora le registrazioni vengano utilizzate al fine di “far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale”.

 

IL CASO CONCRETO: LA SENTENZA N. 27424/2014

Emblematico è un caso giunto al vaglio dei giudici di legittimità, nel quale si discuteva circa l’utilizzabilità in giudizio della registrazione di una telefonata, da parte di un lavoratore, con il proprio datore. Con tale sentenza del 2014, la Corte ha chiarito la validità della riproduzione come elemento probatorio, in quanto realizzato da uno dei soggetti coinvolti nella conversazione. La pronuncia, inoltre, ha confermato il rigetto delle richieste della società ricorrente, escludendo la rilevanza della condotta del lavoratore dal punto di vista disciplinare, perché finalizzata alla produzione dei dati registrati nel processo.
Nella fattispecie, la Suprema Corte ha inoltre ribadito come il dipendente non abbia violato il vincolo di fiducia con il datore di lavoro, in quanto l’affidamento del capo sul proprio dipendente ha ad oggetto esclusivamente la capacità di quest’ultimo di adempiere alle proprie mansioni lavorative, e non anche la “condivisione di segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa” .
Dato, perciò, l’intento del dipendente di registrare la conversazione al fine di acquisire prove a suo favore, la Cassazione ha confermato le posizioni dei giudici di merito inerentemente all’applicabilità della scriminante dell’esercizio del diritto alla difesa, di cui all’art. 51 c.p.

 

I PRINCIPI FISSATI DALLE SENTENZE DELLA CASSAZIONE

Gli elementi essenziali, che emergono dalle principali pronunce della Suprema Corte, hanno perciò consentito di stabilire la sussistenza dei seguenti principi:

  • l’inserimento delle registrazioni delle conversazioni tra presenti nella disciplina della fattispecie di cui all’art. 2712 c.c., disciplinante la valenza probatoria delle riproduzioni meccaniche;
  • l’estensione del diritto alla difesa ad una fase prodromica a quella specificatamente processuale, finalizzata all’acquisizione dei mezzi di prova in essa utilizzabili;
  • l’esclusione dell’applicabilità di sanzioni disciplinari nei confronti dei soggetti che registrano conversazioni tra presenti, essendo tale condotta esercitata al fine del legittimo esercizio di un diritto (con la conseguente applicabilità della scriminante di cui all’art. 51 c.p.);
  • la sanzionabilità delle registrazioni di conversazioni tra presenti per finalità illecite.

È opportuno specificare, per completezza, la differente disciplina applicabile nei confronti del datore di lavoro, il quale effettui registrazioni fonografiche o audiovisive al fine di controllare l’attività dei propri dipendenti. Fattispecie disciplinata dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori, così come modificato dal D.Lgs. 151/2015.

 

UN ORIENTAMENTO DISCORDANTE: LA SENTENZA N. 16629/2016

Avanzando un approccio interpretativo parzialmente differente dai precedenti orientamenti, la Cassazione, nel 2016, sembra porsi in una posizione maggiormente sfavorevole nei confronti dell’utilizzo in giudizio delle registrazioni effettuate dai dipendenti all’insaputa del datore di lavoro.
Nella fattispecie in esame, la Corte, pur ribadendo il principio della legittima produzione in giudizio, da parte del lavoratore, di copia di atti aziendali attinenti alla propria posizione lavorativa, ha specificato la necessità di valutare le modalità di acquisizione di tale documentazione al fine di constatare l’eventuale sussistenza di una giusta causa di licenziamento “per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.”
Emerge il rischio, infatti, che certe “modalità di apprensione ed impossessamento dei documenti potrebbero di per sé concretare ipotesi delittuose, o comunque integrare la giusta causa di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.” . Nel caso in questione, la diffusione di atti aziendali, ad opera del dipendente, venne ritenuta dai giudici di legittimità “in contrasto con gli standard di comportamento imposti dal dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. e da una condotta improntata a buona fede e correttezza e tali da minare irreparabilmente il rapporto fiduciario”.

 

Fonte: www.altalex.com




Insulti il capo in chat? Non puoi essere licenziato

Non si può licenziare nessuno perché su una chat, o su una mailing list, ha scritto parole anche molto pesanti sul suo capo, compreso il caso in cui gli epiteti siano rivolti all’amministratore delegato dell’azienda per cui lavora chi ha espresso l’opinione un po’ ‘tranchant’ servendosi dei social. Lo ha stabilito la Cassazione dando tutela alla segretezza degli scambi di opinioni tra followers di una stessa catena di contatti a circuito chiuso che è “inviolabile”.

Dunque nel caso in cui in qualche modo, ad esempio tramite la manina di una spia, pervenga al datore di lavoro copia di una schermata di insulti a lui diretti, è da “escludere” ogni forma di “utilizzabilità” del contenuto di tale conversazione, afferma la Suprema Corte. Così ha conservato il suo posto, di guardia giurata a Taranto, un dipendente della ‘Cosmopol’ che nel gruppo Facebook Messenger del sindacato di base Flaica Uniti Cub aveva definito “faccia di m…” e “co…” l’amministratore delegato della società.

In primo grado, il Tribunale di Taranto aveva confermato il licenziamento di Gianpiero A. ma poi la Corte di Appello di Lecce, nel 2016, lo aveva dichiarato illegittimo ordinando la reintegra della guardia giurata oltre al pagamento di dodici mensilità di stipendio, e ai contributi. Contro il verdetto la ‘Cosmopol’ ha fatto infruttuosamente ricorso in Cassazione.

Fonte: www.ansa.it

 

Facciamo chiarezza a scanso di pericolosi equivoci. Whatsapp, una chat tra amici, una mailing list rappresentano sistemi chiusi, in cui le comunicazioni sono destinate esclusivamente ai componenti del gruppo.
Per questo vengono equiparate a lettere spedite in busta chiusa, per le quali non è consentita la diffusione a terzi; anzi, colui che violasse la riservatezza diffondendo all’esterno il contenuto dei messaggi all’insaputa dell’autore, si renderebbe responsabile di un vero e proprio reato, penalmente perseguibile.

Ben diversa è la situazione di chi pubblica frasi offensive sui social network, in quanto si tratta di mezzi destinati a comunicare pubblicamente, i cui messaggi sono accessibili da chiunque.
Dell’argomento ci siamo occupati in diversi post, che invitiamo a rileggere:

https://www.fisaccgilaq.it/banche/occhio-al-web-social-network-e-sanzioni-disciplinari.html

https://www.fisaccgilaq.it/banche/licenziati-per-un-commento-sui-social.html




Trasferimento, trasferta, distacco

Il datore di lavoro può spostare il lavoratore dal luogo di lavoro originario solo in presenza di precise condizioni di legge; ecco tutta la disciplina prevista dalla legge in questi casi.

Il luogo in cui il dipendente deve eseguire la propria prestazione lavorativa viene stabilito all’atto dell’assunzione e può essere individuato in un punto fisso (come la sede dell’azienda o dell’unità produttiva cui il lavoratore è assegnato) oppure essere identificato con un ambito territoriale (come la zona assegnata nel caso del venditore o piazzista) o ancora non essere predeterminabile per particolari tipi di attività (come nel caso dei trasfertisti tenuti per contratto ad espletare la propria attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi).

Durante lo svolgimento del rapporto, il luogo di lavoro inizialmente stabilito può essere variato dal datore di lavoro, con le limitazioni stabilite dalla legge e dai contratti collettivi.
Ciò avviene in caso di:

  • trasferimento
  • trasferta
  • distacco.

Vediamo singolarmente tali ipotesi.


IL TRASFERIMENTO INDIVIDUALE

La legge stabilisce che il lavoratore non può essere trasferito da una unità produttiva a un’altra se non per comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive.
Si deve trattare di un trasferimento tra unità produttive della stessa azienda.

Pertanto, i trasferimenti all’interno della medesima unità produttiva non dovrebbero necessariamente essere giustificati da esigenze tecniche, organizzative e produttive. Ma, in alcune sentenze, la giurisprudenza ha sottolineato che, per tutelare il lavoratore dai disagi personali e professionali conseguenti a modifiche del luogo di lavoro senza ragioni valide, la tutela predetta si applica anche nel caso di spostamento della sede di lavoro all’interno della stessa unità produttiva.

Forma e motivazione

Il trasferimento potrebbe essere disposto anche oralmente, ma i contratti collettivi prevedono di norma la forma scritta (proprio per provare le ragioni tecniche, organizzative e produttive sottese al trasferimento e alla scelta del lavoratore da trasferire).

Ad ogni buon conto, salva diversa indicazione del contratto collettivo, il datore di lavoro non deve necessariamente indicare, nell’atto di trasferimento, le ragioni tecniche, organizzative e produttive poste a fondamento del trasferimento stesso.

L’obbligo di indicare tali ragioni, infatti, scatta solo se il lavoratore ne faccia richiesta. Il datore, in tal caso, deve fornire tali chiarimenti entro 5 giorni dalla richiesta: se non lo fa, il trasferimento diventa inefficace.
La mancata richiesta dei motivi da parte del lavoratore, peraltro, non equivale ad acquiescenza al trasferimento e non impedisce, dunque, a questi di contestare in giudizio l’illegittimità del trasferimento stesso, fermo restando che nell’un caso come nell’altro, spetterà al datore di lavoro l’onere di provare in giudizio le ragioni giustificatrici del trasferimento.

Limiti previsti dalla legge

La legge prevede dei limiti al potere del datore di trasferimento:

  1. Il lavoratore handicappato maggiorenne ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di sevizio più vicina al proprio domicilio.
  2. Il lavoratore che assiste un soggetto handicappato in situazione di gravità non ricoverato a tempo pieno (coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti) ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere.
    In entrambi i casi i lavoratori in questione non possono essere trasferiti ad altra sede senza il loro consenso.
  3. Il trasferimento dei dirigenti delle Rappresentanze sindacali aziendali da un’unità produttiva a un’altra non può essere disposto senza il preventivo nulla osta delle organizzazioni sindacali di appartenenza. Il divieto perdura sino alla fine dell’anno in cui è cessato il mandato.
    L’intento del legislatore è evidentemente quello di tutelare il rappresentante sindacale dalla eventualità che il datore di lavoro possa, a scopo discriminatorio, allontanarlo dalla unità produttiva che lo ha espresso.
  4. Il lavoratore eletto amministratore di un ente locale non può essere trasferito se non con il suo consenso.
    Il lavoratore può chiedere di essere avvicinato al luogo in cui il mandato viene svolto: in tal caso il datore di lavoro deve esaminare la domanda di trasferimento con criteri di priorità.

Decadenza per l’impugnazione del trasferimento

Per quanto riguarda la decadenza per l’impugnazione del trasferimento, si applicano le  stesse norme previste per l’impugnazione del licenziamento.

Trasferimento collettivo

Il trasferimento collettivo coinvolge interessi più generali rispetto a quelli implicati in un trasferimento individuale. In particolare il trasferimento collettivo si distingue da quello individuale in quanto esso riguarda una collettività di lavoratori considerati non in modo individuale, ma quali componenti di una unità produttiva o di una parte di essa.
Per i singoli lavoratori trasferiti resta ferma la possibilità, anche dopo l’effettuazione dell’esame in sede sindacale in ordine alla ricorrenza delle ragioni giustificatrici del trasferimento, di impugnare il provvedimento di trasferimento al fine di ottenere una verifica giudiziale circa la sussistenza delle esigenze tecniche, organizzative e produttive richieste dalla legge.


TRASFERTA E “TRASFERTISTI”

Anche la trasferta implica un mutamento del luogo in cui il lavoratore è tenuto a prestare l’attività dedotta nel contratto di lavoro.
Tuttavia, mentre nel caso di trasferimento il mutamento del luogo di lavoro è definitivo, nel caso della trasferta tale mutamento è provvisorio.
In sostanza il datore di lavoro, nell’ambito dei poteri di organizzazione dei fattori della produzione che gli competono, a fronte di sopravvenute esigenze di carattere transitorio e contingente, può modificare temporaneamente e provvisoriamente il luogo di lavoro.
Venute meno le esigenze che avevano determinato l’invio in trasferta del lavoratore questi rientrerà al precedente luogo di lavoro.

Lavoratori “trasfertisti”

I cosiddetti “trasfertisti” sono invece quei lavoratori tenuti per contratto all’espletamento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi.
Le indennità e le maggiorazioni retributive spettanti a questi lavoratori concorrono a formare il reddito nella misura del 50%, anche se vengono corrisposte con carattere di continuità.
Per la qualificazione della fattispecie è necessario che la normale attività lavorativa si svolga contrattualmente al di fuori di una sede di lavoro.

IL DISTACCO

Nel caso di distacco (o comando), invece, non si ha un mutamento del luogo di lavoro, ma piuttosto si ha che il titolare del rapporto distacca il suo dipendente presso un’altra azienda che lo inserisce nella propria organizzazione e ne utilizza le prestazioni lavorative.
Si ha quindi distacco quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone in via temporanea uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa (il distacco può riguardare anche dipendenti assunti a termine).
L’originario datore di lavoro rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore e a suo carico permangono gli obblighi relativi alle assicurazioni sociali.
Il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore.
Quando il distacco comporti un trasferimento a un’unità produttiva sita a più di 50 Km di distanza da quella cui il lavoratore è adibito, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.
L’interesse alla base del distacco può coincidere con qualsiasi interesse produttivo dell’imprenditore distaccante diverso, ovviamente, da quello della mera somministrazione di manodopera.

Distacco in situazione di crisi aziendale

Al fine di evitare riduzioni di personale in situazioni di crisi aziendale, gli accordi sindacali possono regolamentare il comando o il distacco di uno o più lavoratori dall’impresa in crisi a un’altra per una durata temporanea.
Secondo il Ministero del lavoro, il distacco può essere applicato al fine di evitare il ricorso sia alla cassa integrazione straordinaria che a licenziamenti collettivi.

 

Fonte: La legge per tutti

 

 

 

 




Il welfare aziendale è una iattura

Riceviamo spesso dai lavoratori richieste di consigli in merito all’opportunità di destinare al welfare aziendale le somme derivanti dai premi di produttività.

A questa domanda risponde Alberto Perfumo con il volume “Il welfare aziendale è una iattura” (dal quale abbiamo tratto il titolo del post).
L’autore è responsabile di un’azienda che si occupa di consulenza in materia di welfare aziendale; tuttavia, invece di sostenere a spada tratta i vantaggi del welfare, riferisce correttamente anche dati e informazioni negative. Che la sua opinione sia controcorrente si comprende sin dall’introduzione, della quale riportiamo un estratto:

“Il welfare aziendale è una iattura”, mi ha detto un candidato durante un colloquio, riportando la frase di un amico impiegato presso una grande azienda. Ma come? Durante la selezione per una società che offre servizi e consulenza in ambito welfare aziendale e mentre in giro non si parla d’altro, un lavoratore dice che si tratta di “una iattura”?
In realtà, l’affermazione non mi ha sorpreso: da mesi rifletto sul boom del fenomeno welfare aziendale. Con i miei 16 anni di esperienza nel settore ho sentito la necessità di una riflessione seria sull’argomento. E mi piace pensare che questa riflessione possa essere utile ad altri.

Si è ormai affermata, da più parti, la convinzione che il welfare aziendale sia la soluzione ideale per tutti e che convenga ad aziende e dipendenti.
In realtà il welfare aziendale è ingannevole: vengono sbandierati vantaggi fiscali e contributivi, ma nel complesso la scelta è economicamente in perdita.

Nel settore privato le aziende premono affinché i lavoratori destinino al welfare i premi variabili di risultato anziché riceverli in busta paga. Apparentemente, per chi fa questa scelta ci sono vantaggi tangibili.
Incassare i premi direttamente in busta paga significa pagare il 9,19% di contributi previdenziali e il 10% d’imposta (comunque ridotta rispetto all’aliquota ordinaria Irpef che va dal 23% al 43%.)
Destinarli al welfare significa evitare ogni contributo o imposta. Ecco perché questa seconda opzione è apparentemente quella più conveniente.

C’è però un aspetto che può sfuggire al lavoratore. Versando il premio di produzione nel welfare, anche il datore di lavoro è esentato dal versare la sua quota di contributi previdenziali, pari all’incirca al 24% della retribuzione.

Ricapitolando: destinando i premi di risultato al Welfare il lavoratore si trova una maggiorazione immediata del 19% (subito vanificata nel caso la somma venga utilizzata per spese mediche o per altre spese potenzialmente detraibili, che a quel punto non possono essere detratte perdendo il beneficio fiscale che ammonta esattamente al 19%).
Così facendo però perde contributi INPS nella misura complessiva del 33%. 
Per invogliare i lavoratori a scegliere di utilizzare comunque il welfare, le aziende tendono ad offrire maggiorazioni a chi sceglie questa opzione, che possono arrivare al 10-15%: comunque inferiori al risparmio ottenuto dal mancato versamento dei contributi.

E’ bene ricordare che i contributi previdenziali non sono soldi persi: più contributi versati comportano una pensione più alta.
Perfumo cita uno studio secondo cui mille euro l’anno in welfare per 37 anni causano una decurtazione della pensione di 873 euro l’anno.

Quindi qual è la scelta migliore?

Se si riesce ad utilizzare il welfare per sostenere spese che non beneficerebbero di detrazione fiscale (es. acquisto di libri scolastici) ed in presenza di incentivi aziendali, la scelta tra welfare e incasso in busta paga è pressoché equivalente se il bonus per chi opta per il welfare arriva al 15%.

Ragionando con un’ottica di lungo periodo, e comunque in tutti i casi in cui le somme accantonate dovrebbero essere destinate a spese potenzialmente detraibili, appare preferibile incassare il premio in busta paga.
Al momento della scelta va tenuto conto anche del fatto che i soldi destinati a welfare non si recuperano subito, e può non essere semplicissimo utilizzarli tutti.

 

In passato avevamo sviluppato l’analisi dell’argomento welfare giungendo alle medesime conclusioni. Anche se riferito in parte ad uno specifico Istituto Bancario, invitiamo tutti coloro che volessero approfondire la questione a rileggere il post .

https://www.fisaccgilaq.it/banche/bper-welfare-aziendale-2017.html




Donare le ferie ad un collega: un atto di solidarietà

Il caso di Mathys Germain, il bimbo francese morto a causa di un tumore al fegato nel 2012, insegna quanto può essere importante un gesto di solidarietà, al di là di una legge, prima di una legge. Christophe, il papà di Mathys si era visto donare dai colleghi giorni di vacanze per assistere il piccolo, un atto meraviglioso che solo successivamente si è trasformato in legge: la legge 2014/459 (cosiddetta legge Mathys) grazie alla quale i colleghi di lavoro possono donare le proprie ferie per aiutare chi ha bisogno di tempo per curare figli minorenni gravemente malati.

Con l’articolo 24 del Dlgs 151/2015 la cessione delle ferie è stata introdotta e regolamentata anche in Italia; la norma prevede che i lavoratori possano cedere, a titolo gratuito, le proprie ferie maturate ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro, per consentire l’assistenza ai figli minori che necessitano di cure costanti per le particolari condizioni di salute.

La norma non contrasta con il principio di irrinunciabilità delle ferie stesse e con quanto disposto dal decreto sull’orario di lavoro che prevede il diritto, per il dipendente, ad un periodo annuale di ferie retribuite di almeno 4 settimane, per reintegrare le energie psicofisiche e parteciparealla vitafamiliare e sociale. In parole semplici, è possibile cedere soltanto le cosiddette “ferie monetizzabili”, ossia quelle ulteriori rispetto al minimo annuale irrinunciabile di 4 settimane, oppure i riposi previsti dai contratti collettivi in aggiunta ai normali riposigiornalieri e settimanali.

La cessione delle ferie è dunque gratuita ed ha una finalità solidale, perché volta a consentire l’assistenza di uno o più figli minori del lavoratore (non di altri suoi familiari) bisognosi di cure continuative (è dunque implicito che lo stato di malattia o la disabilità del minore debbano essere certificate), nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicabili al rapporto dilavoro. Ad oggi, purtroppo, sono ancora pochi i contratti collettivi che hanno regolamentato leferie solidali In assenza del contratto collettivo nazionale, diverse realtà hanno regolamentato le ferie solidali del proprio personale con accordi collettivi di secondo livello o con singoli accordi.

Nel nostro settore alcuni istituti hanno dato applicazione a questo decreto, attraverso l’introduzionedellaBanca del tempo.

Nella fattispecie Intesa San Paolo ed Unicredit declinano questo istituto con una serie di iniziative, tra le quali ora ci interessa porre l’accento sulla costruzione di un “contenitore” di permessi retribuiti a disposizione dei colleghi che, per gravi ed accertate situazioni personali e/o familiari, hanno bisogno di permessi aggiuntivi. Questo contenitore viene alimentato sia dall’azienda che dai colleghi che volontariamente vi aderiscono. Nel Gruppo Ubi sta iniziando solo adesso l’elaborazione di una una proposta su quest’argomento.

Oggi il temine solidarietà sembra stia scomparendo dal nostro vocabolario; la realtà ci dimostra però che esistono molte persone disposte a donare il proprio tempo e le proprie energie a favore di chi ne habisogno. Queste buone prassi si stanno diffondendo anche nel nostro settore, non solo nell’ambito delle ferie solidali.

 

Fonte: “Banconote” mensile del coordinamento donne Fisac Brescia




Assegni per il Nucleo Familiare 2018: è il momento della domanda annuale

Con la Circolare numero n. 68 dell’ 11 maggio 2018, che riportiamo in calce, l’INPS ha pubblicato le tabelle delle fasce di reddito per l’erogazione degli assegni familiari valide per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019
Dalla circolare INPS stessa si evince che, essendo la variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo calcolata dall’ISTAT tra l’anno 2016 e l’anno 2017 pari a +1,1 per cento, sono stati rivalutati i livelli di reddito delle tabelle contenenti gli importi mensili degli assegni al nucleo familiare, in vigore per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019 con il predetto indice.
Di cosa si tratta
L’ANF è un sostegno economico per le famiglie dei lavoratori dipendenti ed i pensionati che viene erogato su richiesta annuale del lavoratore alla propria azienda utilizzando il modello INPS ANF/DIP SR16 (allegato alla presente o scaricabile dal sito www.inps.it).
Chi ha diritto alla corresponsione dell’assegno ed in quale misura
NB:  si raccomanda di verificare sempre la propria situazione familiare rispetto alle tabelle e non dare per scontato che non si ha diritto alla corresponsione dell’ANF
Il diritto e la misura dell’assegno dipendono dal numero dei componenti, dalle caratteristiche e dal reddito del nucleo familiare.
Per avere diritto alla corresponsione occorre che almeno il 70% del reddito familiare derivi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente.
Il reddito da prendere a riferimento è cumulativamente quello del richiedente e quelli di tutti gli altri componenti del nucleo familiare validi ai fini IRPEF dell’anno precedente.
Alla formazione del reddito concorrono i redditi di qualsiasi natura, compresi quelli esenti da imposte e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva se superiori ad € 1.032,92 (ad esempio gli interessi maturati su depositi, titoli ecc.).
Non si computano nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati e le anticipazioni sui trattamenti stessi, nonché l’assegno del nucleo familiare stesso.
L’attestazione del reddito del nucleo familiare è effettuata con autocertificazione (all’interno del modello di domanda)
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A partire dall’1/7/2018, per l’erogazione dell’assegno, in presenza ovviamente dei prescritti requisiti, si dovrà fare riferimento al reddito familiare complessivo dell’anno 2017 ed alle relative tabelle INPS.
Composizione del nucleo familiare ai fini dell’ANF
  • il richiedente lavoratore o il titolare della pensione;
  • il coniuge che non sia legalmente ed effettivamente separato, anche se non convivente, o che non abbia abbandonato la famiglia. Gli stranieri residenti in Italia, poligami nel loro paese, possono includere nel proprio nucleo familiare solo la prima moglie, se residente in Italia;
  • i figli ed equiparati di età inferiore a 18 anni, conviventi o meno;
  • i figli ed equiparati maggiorenni inabili, purché non coniugati, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i figli ed equiparati, studenti o apprendisti, di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i fratelli, le sorelle del richiedente e i nipoti (collaterali o in linea retta non a carico dell’ascendente), minori o maggiorenni inabili, solo se sono orfani di entrambi i genitori, non hanno conseguito il diritto alla pensione ai superstiti e non sono coniugati, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i nipoti in linea retta di età inferiore a 18 anni e viventi a carico dell’ascendente, previa autorizzazione da parte dell’INPS.
Termini di presentazione della domanda
Dal 1° luglio di ogni anno su apposito modello Inps SR16  a valere per il periodo 1° luglio dell’anno corrente fino al 30 giugno dell’anno successivo.
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Nel caso in cui negli anni passati non si sia presentata domanda per l’ANF e se ne aveva diritto, è possibile recuperare fino a 5 anni di arretrati presentando all’attuale datore di lavoro, un modello SR16 per ogni anno; questo deve essere debitamente compilato con i dati relativi al nucleo familiare ed ai redditi conseguiti nell’anno solare precedente il 1° luglio di ogni anno di riferimento.
Chi paga l’ANF
L’assegno viene erogato in busta paga.
E’ tuttavia possibile richiederne il pagamento in favore del coniuge che non ha un rapporto di lavoro o non è titolare di pensione compilando un apposito quadro del modulo INPS che prevede anche l’indicazione delle relative modalità di pagamento al coniuge.
Casi particolari
  • In caso di variazione del nucleo familiare cambiano i parametri di riferimento per il calcolo e l’erogazione dell’assegno ed è necessario quindi segnalare la variazione all’azienda
  • Per il personale a part time l’assegno spetta in misura intera se l’orario di lavoro non è inferiore alle 24 ore settimanali; in caso contrario, vengono riconosciuti tanti assegni quante sono le giornate di lavoro svolte, indipendentemente dal numero delle ore di lavoro nella giornata

Consulta i rappresentanti della FISAC CGIL in azienda, o contatta gli uffici del Patronato INCA CGIL della propria città per verificare la tua specifica situazione e ricevere consulenza e supporto per l’eventuale compilazione della modulistica prevista per la richiesta degli assegni in questione, con particolare riferimento alle domande che richiedono preventiva autorizzazione da parte dell’INPS.

FISAC CGIL Coordinamento Nazionale Credito Cooperativo
Allegati:



Licenziati per un commento sui social

Si moltiplicano le sentenze sui lavoratori per i post contro le proprie aziende: “Rompono la fiducia col datore”.

Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione: licenziamento per giusta causa nei confronti di una impiegata di Forlì che sul suo profilo Facebook si era lasciata andare a uno sfogo contro la sua azienda:

“Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”

è il post riportato sulla sentenza. Secondo i giudici, di carattere diffamatorio e tale da aver definitivamente incrinato il rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro. Non è però la prima volta né l’unico caso di licenziamenti e sanzioni disciplinari dovuti ai social network. Basta una breve ricerca per rintracciare una esplicativa casistica, come quella riportata dal sito Workengo, che si occupa di reputazione online. Ma partiamo da Forlì.

La vicenda risale al 2012. La donna pubblica sul suo profilo Facebook un post che nella sentenza della Cassazione viene riportato tra virgolette: “Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”. Tra i suoi amici virtuali, però, c’è anche un collega nonché il legale della società. La donna cancella il post ma viene licenziata e la sanzione viene confermata in primo e in secondo grado.
“La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone – scrivono i giudici della Suprema Corte – pertanto la condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo”. Giusta causa, dunque. La difesa ha provato a spiegare che la donna, 43 anni e invalida al 67%, non era consapevole della eco che avrebbe avuto il suo sfogo, che credeva corrispondesse a una chiacchierata con un gruppetto di amici. La fine del rapporto di fiducia, spiegano i giudici, c’è indipendentemente dalla natura colposa della diffamazione. E anche se l’azienda non era citata direttamente, il destinatario era facilmente identificabile.

 

A Nichelino (Torino) nel 2015, una dipendente di una mensa scolastica condivide sul proprio profilo Facebook il post di un politico che denuncia il ritrovamento di insetti nella purea servita agli alunni. Si limita a commentare:

“Mah… io una polenta con aggiunta di scarafaggi non la mangerei volentieri”.

L’azienda se ne accorge e la licenzia (guadagnava 370 euro al mese) nonostante non avesse nominato la mensa in cui lavorava direttamente e nonostante avesse condiviso il post in un profilo con impostazioni di privacy private.

 

Nel 2014 era toccato invece a una dipendente della Perugina, licenziata per aver criticato un capo-reparto con un post su Facebook. Nel messaggio raccontava di aver sentito che diceva a un collega che per lui era necessario il collare. Nonostante le proteste sindacali, l’azienda non si era scomposta e, contro la dipendente (che era oltretutto una sindacalista) aveva sostenuto che il caporeparto stesse riprendendo il dipendente per la scarsa osservazione delle norme di sicurezza e igiene. “Da un esponente sindacale – aveva spiegato la Nestlé – che ha la responsabilità di rappresentare centinaia di persone che lavorano nel più grande stabilimento del Gruppo Nestlé in Italia, ci si attendeva il sostegno e non la critica agli sforzi rivolti a salvaguardare la sicurezza sul posto di lavoro, l’igiene e la qualità del prodotto”.

 

E ancora. Nel 2012 un operaio abruzzese era stato adescato su Facebook dal proprio capo “sotto mentite spoglie”. Il titolare aveva creato un falso profilo femminile sulla piattaforma e si era accorto che il dipendente aveva preferito chattare invece di occuparsi di una lamiera incastrata sotto una pressa. La Cassazione aveva riconosciuto legittimo lo strumento di “investigazione” anche perché il lavoratore avrebbe avuto anche in precedenza atteggiamenti d’allarme: “Il lavoratore – si legge nella sentenza – era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositivo elettronico utile per conversazioni via Internet”.

 

I motivi dei licenziamenti a causa dei social sono, comunque, molti. “Attenzione anche a usare troppo i social durante l’orario di lavoro, non è una grande idea”, si legge su Workengo.

L’esempio è una sentenza del 2016 del Tribunale di Brescia in cui il datore di lavoro aveva calcolato che la sua dipendente ogni tre ore effettuava circa 16 accessi a Facebook sottraendo, secondo il giudice, tempo all’attività lavorativa e incrinando così il rapporto di fiducia tra lei e il suo datore di lavoro.
“Se poi siete assenti dal lavoro e pubblicate foto mentre fate aperitivo o siete al mare invece di essere sotto le coperte e stravolti dalla febbre come avevate assicurato – spiegano ancora gli esperti di Workengo – beh… non si può dire che il vostro licenziamento sia immotivato da molteplici punti di vista”.
E ricordano il caso del dipendente di Veneto Banca licenziato perché, dopo aver richiesto un permesso per stress psicofisico, era poi andato al concerto di Madonna.

Articolo di Virginia Della Sala su “Il Fatto Quotidiano” dell’8/6/2018

 

Sullo stesso argomento leggi anche

https://www.fisaccgilaq.it/banche/occhio-al-web-social-network-e-sanzioni-disciplinari.html

 

 

 




Pensione anticipata di 5 anni grazie alla RITA

Nel 2018 ci sono diverse misure per andare in pensione in anticipo: una di queste è la RITA, la Rendita Integrativa Temporanea Agevolata con la quale si può anticipare la pensione di ben 5 anni.

La RITA è un anticipo pensionistico simile all’APe, dal quale si differenzia per determinati aspetti; infatti, mentre l’assegno dell’Ape Sociale e Volontaria è finanziato tramite un anticipo bancario, per la RITA si attinge dal fondo di previdenza complementare o eventualmente dal TFR (Trattamento di Fine Rapporto).

Quindi, coloro che negli anni scorsi hanno aperto un fondo di previdenza complementare con l’obiettivo di aumentare l’importo dell’assegno pensionistico futuro potrebbero decidere di utilizzarlo per un altro scopo, ossia per anticipare il ritiro dal lavoro.

Anche la RITA è stata introdotta con la Legge di Bilancio 2017 – così come l’APe – con l’obiettivo di rendere più flessibile la riforma Fornero; come anticipato, infatti, grazie alla rendita integrativa agevolata si può andare in pensione con 5 anni di anticipo rispetto all’attuale requisito anagrafico (66 e 7 mesi, 67 anni dal 2019). E in alcuni casi la pensione può essere goduta con ben 10 anni di anticipo.

Se siete iscritti ad un fondo di previdenza complementare – o anche se non lo avete – e siete interessati ad andare in pensione con largo anticipo vi consigliamo di informarvi in maniera approfondita su come utilizzare la RITA per le vostre esigenze; potete farlo di seguito, in questa guida dedicata alla rendita integrativa temporanea anticipata.
Requisiti

La RITA – acronimo di Rendita Integrativa Temporanea Anticipata – garantisce ai beneficiari di percepire un assegno ponte per smettere prima di lavorare. Il costo della pensione integrativa viene scaricato sui fondi di previdenza complementare, che possono essere sfruttati totalmente o in parte.

A chi si chiede come funziona la RITA è necessario indicare come esistano dei requisiti definiti per richiederla. Nel dettaglio, possono ricorrere alla RITA tutti i lavoratori dipendenti – sia pubblici che privati – che soddisfano i seguenti requisiti:

  • 61 anni e 7 mesi di età (5 anni al pensionamento) e 20 anni di contributi. Dal 2019 – qualora la RITA venisse confermata – vi si potrà ricorrere al compimento dei 62 anni, poiché a causa dell’adeguamento con le aspettative di vita l’età pensionabile è stata aumentata a 67 anni.
  • Se inoccupati da almeno 2 anni sono sufficienti 56 e 7 mesi di età (10 anni dalla pensione), più almeno 5 anni di partecipazione al fondo di previdenza complementare. Dal 2019 l’età anagrafica per gli inoccupati sarà aumentata a 57 anni.

Dai requisiti per RITA sono esclusi gli appartenenti alle casse professionali. A seconda della volontà del richiedente inoltre sarà data la possibilità di utilizzare i suddetti fondi pensione solo in parte o in misura integrale.

 

COME FUNZIONA?

L’assegno pensionistico percepito negli anni precedenti alla pensione grazie alla RITA è finanziato dal fondo di previdenza complementare al quale è iscritto il lavoratore. A differenza dell’Ape Volontario, quindi, andare in pensione con la RITA è più conveniente dal momento che non bisogna restituire il prestito ottenuto da un istituto di credito.
Inoltre la RITA gode di un regime fiscale agevolato; chi la richiede, infatti, subisce una ritenuta del 15% oltre alla riduzione dello 0,30% per ogni anno successivo al quindicesimo di partecipazione al fondo. L’aliquota minima comunque non può scendere al di sotto del 9%.

 

DA QUANTO BISOGNA ESSERE ISCRITTI AL FONDO PREVIDENZIALE COMPLEMENTARE?

Apparentemente quindi la RITA può sembrare una misura molto conveniente per anticipare l’accesso alla pensione di qualche anno, ed effettivamente lo è. Tuttavia questo strumento ha un limite: solo pochi lavoratori possono avere la possibilità di ricorrere al loro fondo previdenziale complementare per finanziare la rendita integrativa.

Secondo quanto stimato dalla fondazione dei consulenti del lavoro e dal MEFOP, infatti, per ricorrere alla RITA sarà necessario un montante contributivo di almeno 100mila euro. Quindi solamente chi per anni ha avuto un lavoro sicuro e ben pagato – così da avere abbastanza liquidità per iscriversi ad un fondo previdenziale integrativo – potrà ricorrere a questa misura.

Tuttavia c’è una possibilità anche per coloro che in questi anni hanno deciso di non iscriversi ad un fondo previdenziale per integrare il futuro assegno pensionistico; infatti non è mai troppo tardi dal momento che potete farlo anche oggi destinando al fondo l’intero importo del TFR accantonato in questi anni, aumentando così il montante contributivo ed utilizzando la cosiddetta liquidazione (trattamento di fine rapporto) per anticipare la vostra uscita dal lavoro.

Fonte: www.money.it