Guida maternità, paternità e adozione

Da oggi è disponibile on line la Guida alla genitorialità, aggiornata alla normativa vigente. Nella guida vengono illustrati i momenti fondamentali previsti per un genitore a partire dal concepimento alla gestione della bimba o bimbo in età scolare.

A CHI SI RIVOLGE

La Guida si rivolge ad ogni genitore dipendente nel nostro settore, assicurativo e del credito.

 

COME È ORGANIZZATA

La guida è suddivisa in capitoli, ciascuno dei quali consultabile in modo indipendente.

 

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Referendum avanti tutta: superate le 500mila firme

In tutto le sottoscrizioni raccolte finora sono 582.244. Giove, Cgil: “Ci ha colpito l’assoluta trasversalità delle adesioni”. La campagna non si ferma


 

Quasi 600mila firme raccolte. Il requisito minimo richiesto per i quesiti sul lavoro presentati dalla Cgil è raggiunto e superato (ne servivano 100mila in meno) dopo poche settimane. In tutto le sottoscrizioni sono 582.244. Il giro di boa arriva a metà percorso. Davanti a noi un altro mese abbondante di banchetti che migreranno verso il mare per continuare a macinare adesioni. Con l’obiettivo dichiarato che il Quadrato rosso non ha mai nascosto, mettere insieme più firme possibili, al di là di quel che richiede la legge, che a questo punto è già al sicuro in cassaforte.

“Vado al massimo, vado a gonfie vele”, potremmo canticchiare, rubando l’immortale ritornello di Vasco, per accompagnare l’impegno generoso dell’organizzazione e delle mille strutture che si diramano sul territorio. Perché nessuno ha mai temuto di non riuscire a prenderle queste 500mila firme, ma non era neanche facile o scontato che in poche settimane l’obiettivo minimo sarebbe stato superato.

 

 

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Fonte: collettiva.it




Congedo straordinario Legge 104: si può andare in vacanza?

Ci sono casi in cui la vacanza è compatibile con le finalità del congedo 104. In tutte le altre ipotesi, il lavoratore commette un reato


La Legge n. 104 del 1992 prevede una serie di agevolazioni per i soggetti disabili e i familiari che li assistono. Tra questi benefici, la normativa riconosce al c.d. caregiver (ossia, il lavoratore che presta assistenza al familiare con disabilità grave) la possibilità di usufruire del congedo straordinario.

Il dipendente può utilizzare il periodo di congedo per una vacanza personale?

Il congedo straordinario è il periodo massimo di due anni nel corso del quale il lavoratore, che assiste un familiare con disabilità grave ai sensi del comma 3 dell’art. 3 della legge 104, può assentarsi dal lavoro al fine di garantire una maggiore assistenza al disabile.

Peraltro, è un periodo di assenza retribuito (ossia, durante il congedo, il dipendente riceve un’indennità economica) e coperto da contribuzione figurativa ai fini della pensione.

In linea generale, l’art. 3, comma 1 della Legge 104 precisa chi può godere delle agevolazioni 104. Si tratta di coloro che hanno una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabile o destinata ad aggravarsi con il tempo. Questa minorazione deve essere causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione sul posto di lavoro e deve determinare emarginazione o svantaggio sociale.

Il successivo comma 3 dell’art. 3 disciplina il caso dei disabili gravi. In particolare, la disabilità acquista un carattere di gravità quando, in relazione all’età del soggetto, la minorazione ha ridotto l’autonomia personale e ha reso necessaria un’assistenza generale, permanente e continuativa.

Dunque, è possibile fare una vacanza durante il congedo 104?

Il dipendente ha l’obbligo di comportarsi in modo tale da non violare quanto previsto dalla normativa e realizzare lo scopo per cui il congedo straordinario viene riconosciuto: ossia, assicurare una maggiore assistenza al familiare disabile grave.

Detto in parole povere, il lavoratore non può utilizzare il congedo straordinario per farsi una vacanza personale perché, semplicemente, ciò vorrebbe dire affidare temporaneamente il disabile a qualcuno o, addirittura, abbandonarlo a se stesso per qualche tempo.

Questo comportamento non solo non è compatibile con le finalità dei benefici 104, ma può anche esporre al pericolo di una denuncia per la commissione di un reato.

Cosa si rischia a fare un viaggio di piacere mentre si usufruisce del congedo 104?

È chiaro che un discorso diverso va fatto quando il lavoratore deve accompagnare il disabile in vacanza per bisogni propri di quest’ultimo (ad esempio, esigenze di salute o su consiglio del medico). Qui, la situazione cambia completamente.

Infatti, la normativa non vieta al lavoratore di muoversi con il disabile. Quindi, in questo caso, è legittimo usare il congedo straordinario per accudire il familiare con disabilità durante il soggiorno, ma sempre a condizione che l’assistenza sia costante ed effettiva e non venga delegata ad altri soggetti.

Peraltro, garantire un’assistenza sistematica non determina, per il lavoratore, l’obbligo di assistere il disabile in modo continuativo, 24 ore su 24. Come precisato dalla Corte di Cassazione, la legge richiede, piuttosto, un’assistenza che venga prestata in modo costante e con la flessibilità dovuta anche ai bisogni del lavoratore.

Di conseguenza, mentre usufruisce dei periodi di congedo straordinario, il lavoratore può prendersi dei momenti di riposo per riprendersi dallo sforzo che l’assistenza ad un disabile grave può portare. Tuttavia, deve trattarsi di un’assenza temporanea. D’altra parte, un’assenza, che si estende per molto tempo, non può certamente essere conciliabile con un’attività di assistenza costante.

Quale reato si commette se si sfrutta il congedo 104 per farsi una vacanza?

Quando il lavoratore utilizza il periodo di congedo straordinario per farsi un viaggio personale e non presta alcuna assistenza al disabile, corre un bel rischio poiché sta commettendo un reato. Il pericolo è quello di essere denunciato per il reato di truffa aggravata.

In conclusione, l’importante è avere comportanti che siano compatibili con le finalità che la Legge 104 si è prefissata con la misura del congedo straordinario: cioè, facilitare il lavoratore al fine di garantire un’assistenza costante ed effettiva al disabile grave.

 

Fonte: www.brocardi.it




No, il Jobs Act non ha fatto aumentare l’occupazione

Il referendum Cgil ha risvegliato i fan della riforma: rimettiamo in fila i numeri (Istat) che ne mostrano il fallimento


È almeno dal 2018 che i fan più accaniti della stagione renziana sostengono una teoria fantasiosa: il Jobs Act – dicono – ha “creato” un milione di posti di lavoro in tre anni e la gran parte di questi a tempo indeterminato. Se qualcuno chiede loro la fonte, la risposta è pronta: l’Istat. Ecco, in realtà proprio dalla banca dati dell’Istituto nazionale di statistica emerge una verità opposta: due terzi dell’occupazione dipendente creata nel triennio tra il 2015 e il 2018 – quello di massima operatività del Jobs Act, prima che Corte costituzionale e primo governo Conte avviassero una leggera controriforma – è precaria, a tempo determinato: solo il 35% della nuova occupazione creata era invece a tempo indeterminato. Più del Jobs Act del 2015 poté il decreto Poletti del 2014, che aveva “liberalizzato” il ricorso al lavoro a termine.

Pareva un dibattito chiuso, ma ora che la Cgil propone un referendum per abrogare il decreto attuativo del Jobs Act che ha cancellato il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (il vecchio articolo 18), i fan della riforma renziana – che in realtà fu dettata da Confindustria parola per parola – tornano a scatenarsi e si dicono ancora convinti, malgrado le evidenze statistiche e scientifiche, del bengodi occupazionale seguito alla maggior libertà di licenziare decisa da Renzi (in realtà era uno dei “consigli” all’Italia contenuti nella lettera della Bce del 2011).

Qui cercheremo di fare il punto usando un po’ di numeri, ma prima dobbiamo intenderci sul significato del verbo “creare” in relazione ai posti di lavoro. È bizzarro che qualcuno possa essere convinto che i posti di lavoro si “creino” con una semplice riforma dei licenziamenti. In realtà la salita dell’occupazione di quegli anni, che c’è stata, deriva da una serie di fattori economici, il primo dei quali è la (lenta e frammentata) fuoriuscita dalla doppia crisi del 2008 e del 2011/12.

E allora ecco i numeri. A marzo 2015 gli occupati dipendenti in Italia erano 16,6 milioni, così suddivisi: 14,3 milioni a tempo indeterminato e 2,3 milioni a tempo determinato (dato che, peraltro, segnava già una crescita rispetto al 2014). Il Jobs Act è entrato in vigore il 7 marzo 2015 e, nel frattempo, erano già stati previsti ricchi incentivi alle assunzioni stabili. Queste scelte di politica economica si sono inserite in un contesto già di per sé favorevole: la doppia crisi era alle spalle, si tornava a intravvedere il segno “più” in diversi indicatori e soprattutto la Bce aveva avviato una politica monetaria espansiva (il quantitative easing).

Questo ha ovviamente comportato un aumento dell’occupazione sostanzioso e dopo un triennio, a novembre 2018, i posti di lavoro dipendenti in Italia risultavano cresciuti di poco più di un milione. Una dinamica simile a quella del resto degli altri Paesi europei (Grecia esclusa), che pure non avevano certo approvato il Jobs Act renziano.

A questo punto possiamo tornare a guardare alla qualità dell’occupazione creata in quel periodo. Partiamo dal perché abbiamo scelto come riferimento per confrontare i dati il novembre del 2018: in quel mese entrarono in vigore le prime norme del cosiddetto “decreto Dignità”, che modificavano alcune parti del Jobs Act e del decreto Poletti, aumentando gli indennizzi per i lavoratori licenziati e riducendo le possibilità di stipulare contratti precari. Non solo: a fine settembre 2018 la Consulta aveva bocciato il contratto a tutele crescenti, principale creatura del Jobs Act, laddove prevedeva indennizzi fissi e legati alla sola anzianità di servizio per i licenziamenti illegittimi. Tradotto: a partire dall’autunno del 2018 la riforma renziana iniziava a perdere pezzi, abitudine che in seguito non ha mai perso.

Ecco allora com’era messa l’occupazione a novembre 2018: 14,67 milioni di occupati stabili e quasi 3 milioni precari. Rispetto all’entrata in vigore del Jobs Act, insomma, due terzi dei nuovi posti di lavoro era a tempo determinato e poco più di un terzo permanente. Ne consegue che la ragione con cui si giustificò il Jobs Act – le imprese assumeranno a tempo indeterminato perché possono licenziare – è stata smentita dai numeri e chi la ripete oggi è disinformato o un mentitore.

In realtà, gli effetti degli interventi di Renzi e soci sul lavoro sono anche peggiori di così. Scomponendo i dati si nota che, nel corso del 2015, i contratti a tempo indeterminato avevano compiuto una netta avanzata: quell’anno le assunzioni stabili hanno superato i due milioni. Il motivo è semplice: nel 2015 gli incentivi alle assunzioni hanno coperto il 100% dei contributi a carico dell’azienda. Quando però, nel 2016, lo sgravio è sceso al 40%, il rallentamento è stato netto: meno di 1,3 milioni di assunzioni stabili.

In sostanza, il governo ha sovvenzionato con 10 miliardi di euro assunzioni che ci sarebbero state comunque, mentre nel medio periodo il mercato del lavoro ha sfornato per la gran parte precariato. Dal 2019 (anno in cui, peraltro, l’aumento dei lavoratori dipendenti è stato minimo) non ha alcun senso analizzare il mercato del lavoro sotto la lente del Jobs Act: i molti pezzi persi per strada dalla legge renziana e le mille cose successe al mondo (Covid, guerre, sospensione del Patto di stabilità Ue, Pnrr, eccetera) lo rende un esercizio inutile a livello intellettuale, ancorché non si possa impedire a nessuno di fare propaganda di bassa lega.

Parlando più in generale, in letteratura è un fatto ormai scontato che la precarizzazione non migliori la qualità del mercato del lavoro e finisca per peggiorare anche la produttività. L’economista Andrea Roventini qualche giorno fa ha ricordato una serie di studi sul tema: una pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, ha mostrato come questo tipo di riforme abbiano aumentato la volatilità e la disuguaglianza delle retribuzione, rallentando l’accumulo di capitale umano e contribuendo al rallentamento della produttività. Uno studio della Banca d’Italia ha analizzato la riforma dei contratti a termine approvata nel 2001 dal governo Berlusconi, concludendo che ha aumentato i rapporti precari senza far crescere l’occupazione, sfavorendo i giovani e facendo salire i profitti delle imprese.

Cambiare il mercato del lavoro, peraltro, ha conseguenze sulla vita tutta. Nel 2020 uno studio condotto da tre ricercatori ha mostrato come la maggiore incertezza del lavoro si sia tradotta in minore propensione delle donne ad avere figli: dall’indagine è emerso, in particolare, che le donne assunte dopo il Jobs Act, quindi senza il paracadute dell’articolo 18 in caso di licenziamento, prendevano i congedi di maternità con frequenza ben minore rispetto a quelle assunte prima di marzo 2015.

Riassumendo, e non prima di aver ribadito l’impossibilità di legare l’andamento del mercato del lavoro a una riforma dei contratti, non risulta che il Jobs Act abbia favorito una crescita dei posti stabili, mentre è oggettivo che abbia ridotto le tutele dei lavoratori fino a farle diventare del tutto insufficienti a proteggerne i diritti. Ecco perché, negli scorsi anni, è stato spesso e volentieri censurato nei tribunali, a partire dalla Corte costituzionale, e da altri organi di diritto internazionale come il Comitato europeo per i diritti sociali.

 

Articolo di Roberto Rotunno sul Fatto Quotidiano del 27 maggio 2024

 




Guide Fisac Cgil: responsabilità disciplinari e patrimoniali

Pubblichiamo la versione 2024 della guida, a cura di Alberto Massaia ed Enrica Crimi .

Ricordiamo che tutte le guide sono scaricabili dalla nostra sezione Guide e manuali

Scarica la guida 2024

Archivio giurisprudenza

ARTICOLI PUBBLICATI AD INTEGRAZIONE:




Come si va in pensione nel 2024

L’Inca Cgil ti accompagna nel tuo percorso di tutela, nel riconoscimento dei tuoi diritti.
Di seguito vengono riassunte le principali misure previdenziali previste dalla normativa vigente.



Pensione di vecchiaia

Sistema misto

Lavoratrici e lavoratori in possesso di contribuzione al 31.12.1995

  • Pensione di vecchiaia per le lavoratrici e per i lavoratori dipendenti privati, pubblici, autonomi e parasubordinati
    • Età pensionabile con aumento speranza di vita: 67 anni
    • Anzianità contributiva: 20 anni.

Sistema contributivo

Lavoratrici e lavoratori con contribuzione esclusivamente dall’1.1.1996

  • Pensione di vecchiaia per le lavoratrici e per i lavoratori dipendenti privati, pubblici, autonomi e parasubordinati
    • Età pensionabile con aumento speranza di vita: 67 anni
    • Anzianità contributiva: 20 anni
    • Importo minimo di pensione dall’1.1.2024 non inferiore a importo dell’assegno sociale (per il 2024 pari a € 534,41 mensile)
  • Pensione di vecchiaia per le lavoratrici e per i lavoratori dipendenti privati, pubblici, autonomi e parasubordinati assicurati dall’1.1.1996 senza requisito di importo minimo
    • Età pensionabile con aumento speranza di vita: 71 anni
    • Anzianità contributiva effettiva minima: 5 anni
    • Importo minimo di pensione: non richiesto.

 

Pensione anticipata

Pensione anticipata ordinaria nel sistema misto

Lavoratrici e lavoratori in possesso di contribuzione al 31.12.1995

  • Pensione anticipata per le lavoratrici e per i lavoratori dipendenti privati, pubblici e autonomi
    • Anzianità contributiva: donne 41 anni e 10 mesi
      uomini 42 anni e 10 mesi
    • Decorrenza: decorsi 3 mesi dalla maturazione del requisito contributivo.

Ulteriore pensione anticipata nel sistema contributivo

Lavoratrici e lavoratori con contribuzione esclusivamente dall’1.1.1996

  • Ulteriore pensione anticipata dall’1.1.1996 per le lavoratrici e per i lavoratori dipendenti privati, pubblici, autonomi
    • Età pensionabile: 64 anni
    • Anzianità contributiva effettiva minima: 20 anni
    • Importo minimo di pensione non inferiore a 3 volte l’importo mensile dell’assegno sociale (per il 2024 € 1.603,23) ridotto a 2,8 volte per le donne con 1 figlio (per il 2024 pari a € 1.496,35) e a 2,6 volte per le donne con almeno 2 figli (per il 2024 pari a € 1.389,46)
    • Importo massimo di pensione erogabile per il 2024 pari a € 2.993,05 lordi mensili fino al requisito anagrafico della pensione di vecchiaia
    • Decorrenza: finestra mobile di 3 mesi dalla maturazione dei requisiti.

Le lavoratrici e i lavoratori che hanno maturato i previgenti requisiti (64 anni d’età, 20 anni di contribuzione “effettiva” e importo soglia pari a 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale), entro il 31.12.2023, potranno accedere alla pensione anticipata anche successivamente al 31.12.2023. Verrà comunque applicato, alle pensioni liquidate con decorrenza dal 2.1.2024 l’importo massimo erogabile (per il 2024 € 2.993,05 lordi mensili) fino alla maturazione dei requisiti per la vecchiaia.

Pensione anticipata per lavoratori e lavoratrici precoci

Disoccupati, invalidi, caregiver, mansioni gravose, mansioni usuranti

  • Requisito contributivo: 41 anni (almeno 12 mesi di contributi per lavoro effettivo prima del 19° anno di età)
  • Decorrenza: 3 mesi dalla maturazione dei requisiti.

Pensione anticipata “Quota 100”

Requisiti perfezionati entro il 31.12.2021

Chi ha raggiunto i previsti requisiti anagrafici e contributivi entro il 31.12.2021 può accedere alla pensione Quota 100 anche successivamente al 31.12.2021.

Pensione anticipata “Quota 102”

Requisiti perfezionati entro il 31.12.2022

Chi ha raggiunto i previsti requisiti anagrafici e contributivi entro il 31.12.2022 può accedere alla pensione Quota 102 anche successivamente al 31.12.2022.

Pensione anticipata “Quota 103”

Requisiti perfezionati entro il 31.12.2023

  • Lavoratori e lavoratrici dipendenti, autonomi, Gestione separata
    • Requisiti: 62 anni di età e 41 anni di contributi
    • Importo massimo di pensione: per il 2023 € 2.839,70 lordi mensili fino al requisito anagrafico della pensione di vecchiaia
    • Decorrenza: finestra mobile di 3 mesi dalla maturazione dei requisiti.
  • Lavoratori e lavoratrici del pubblico impiego
    • Requisiti: 62 anni di età e 41 anni di contributi
    • Importo massimo di pensione: per il 2023 € 2.839,70 lordi mensili fino al requisito anagrafico della pensione di vecchiaia
    • Decorrenza: finestra mobile di 6 mesi dalla maturazione dei requisiti.

Chi ha raggiunto i previsti requisiti anagrafici e contributivi entro il 31.12.2023 può accedere alla pensione quota 103 anche successivamente al 31.12.2023.

“Quota 103” – Requisiti da perfezionare nell’anno 2024

  • Lavoratori e lavoratrici dipendenti, autonomi, Gestione separata
    • Requisiti: 62 anni di età e 41 anni di contributi
    • Importo massimo di pensione: per il 2024 € 2.394,44 lordi mensili fino al requisito anagrafico della pensione di vecchiaia
    • Decorrenza: finestra mobile di 7 mesi dalla maturazione dei requisiti.
    • Metodo di calcolo: contributivo
  • Lavoratori e lavoratrici del pubblico impiego
    • Requisiti: 62 anni di età e 41 anni di contributi
    • Importo massimo di pensione: per il 2024 € 2.394,44 lordi mensili fino al requisito anagrafico della pensione di vecchiaia
    • Decorrenza: finestra mobile di 9 mesi dalla maturazione dei requisiti.
    • Metodo di calcolo: contributivo

Chi ha raggiunto i previsti requisiti anagrafici e contributivi nell’anno 2024 può accedere alla pensione quota 103 anche
successivamente al 31.12.2024.

Pensione anticipata: “Opzione donna”

Requisiti perfezionati entro il 31.12.2021

Chi ha raggiunto i previsti requisiti anagrafici e contributivi entro iI 31.12.2021 può accedere alla pensione Opzione donna anche successivamente al 31.12.2021.

Pensione anticipata: “Opzione donna 2023”

Requisiti perfezionati entro il 31.12.2022

  • Lavoratrici dipendenti del settore privato e pubblico, lavoratrici autonome che si trovino in una delle seguenti condizioni:
    • a) Convivente e assistente di un parente portatore di handicap con connotazione di gravità
      • Requisito: 35 anni di contributi
      • Età anagrafica diversificata: 60 anni se senza figli – 59 anni se con 1 figlio – 58 anni se con almeno 2 figli
    • b) Riduzione della capacità lavorativa per invalidità civile pari o superiore al 74%
      • Requisito: 35 anni di contributi
      • Età anagrafica diversificata: 60 anni se senza figli – 59 anni se con 1 figlio – 58 anni se con almeno 2 figli
    • c) Licenziate o dipendenti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale presso la struttura per la crisi d’impresa
      • Requisito: 35 anni di contributi
      • Età anagrafica: 58 anni di età indipendentemente dal numero dei figli
      • Decorrenza: 12 mesi dalla maturazione dei requisiti per le dipendenti
      • 18 mesi per le lavoratrici che accedono al trattamento in una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi.

Chi ha maturato i previsti requisiti anagrafici e contributivi al 31/12/2022, al permanere delle condizioni, può accedere al trattamento pensionistico anche dopo l’apertura della finestra.

Pensione anticipata: “Opzione donna 2024”

Requisiti perfezionati entro il 31.12.2023

  • Lavoratrici dipendenti del settore privato e pubblico, lavoratrici autonome che si trovino in una delle seguenti condizioni:
    • a) Convivente e assistente di un parente portatore di handicap con connotazione di gravità
      • Requisito: 35 anni di contributi
      • Età anagrafica diversificata: 61 anni se senza figli – 60
        anni se con 1 figlio – 59 anni se con almeno 2 figli
    • b) Riduzione della capacità lavorativa per invalidità civile pari o superiore al 74%
      • Requisito: 35 anni di contributi
      • Età anagrafica diversificata: 61 anni se senza figli – 60 anni se con 1 figlio – 59 anni se con almeno 2 figli
    • c) Licenziate o dipendenti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale presso la struttura per la crisi d’impresa
      • Requisito: 35 anni di contributi
      • Età anagrafica: 59 anni di età indipendentemente dal numero dei figli
      • Decorrenza:
        – 12 mesi dalla maturazione dei requisiti per le dipendenti
        – 18 mesi per le lavoratrici che accedono al trattamento in
        una delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi.

Chi ha maturato i previsti requisiti anagrafici e contributivi al 31.12.2023, al permanere delle condizioni, può accedere al trattamento pensionistico anche dopo l’apertura della finestra.

La pensione dei lavoratori che svolgono attività usuranti

I lavoratori e le lavoratrici che svolgono attività usuranti hanno diritto ad accedere al pensionamento anticipatamente con requisiti agevolati rispetto alla generalità dei lavoratori

  • Requisito contributivo minimo: 35 anni
  • Lavori particolarmente usuranti (*)
  • Età: 61 anni e 7 mesi – quota: 97,6
  • Turnisti con 72/77 notti annue
  • Età: 62 anni e 7 mesi – quota: 98,6
  • Turnisti con 64/71 notti annue
  • Età: 63 anni e 7 mesi – quota: 99,6
  • (*) Lavori in galleria, in miniere, nelle cave, in cassoni ad aria compressa, dai palombari; ad alte temperature: del vetro cavo: in spazi ristretti (in particolare per attività di costruzione, riparazione e manutenzione navale) o all‘interno di intercapedini, pozzetti o doppi fondi; di asportazione amianto, il lavoro notturno per tutto l’anno, i turnisti con almeno 78 notti annue, gli addetti alla c.d. «linea catena», i conducenti dei veicoli pesanti adibiti a servizio pubblico di trasporto collettivo.

 

Anticipo pensionistico

Ape sociale – Beneficio riconosciuto fino al 31.12.2024

Lavoratori dipendenti, autonomi e parasubordinati

  • Tipologia di lavoratori: disoccupati, invalidi, caregiver
  • Requisito contributivo: 30 anni
  • Requisito anagrafico: 63 anni 5 mesi

Lavoratori dipendenti

  • Tipologia di lavoratori: mansioni gravose
  • Requisito contributivo: 36 anni (32 anni per gli operai edili/ceramisti)
  • Requisito anagrafico: 63 anni 5 mesi.

Le donne possono usufruire di una riduzione del requisito contributivo richiesto per il trattamento richiesto pari ad un anno per ogni figlio, sino ad un massimo di due




Guida Fisac ai bonus 2024

Pubblichiamo il link alla guida pubblicata dalla Fisac Cgil Nazionale relativa a tutte le tipologie  di bonus attualmente in vigore. Per ognuno è spiegato in cosa consiste, a chi spetta, come si richiede.

Ricordiamo che anche questa guida è accessibile dalla sezione Guide e manuali del sito

 

Fisac Cgil – Guida ai Bonus 2024




Cassazione: giusto licenziare chi deride un collega per il suo orientamento sessuale

Ma perché sei uscita incinta pure tu? E come non sei lesbica?

La frase in dialetto detta con tono irrisorio ad una collega davanti a terze persone, è costata il posto di lavoro al dipendente di una società pubblica di trasporti. La Cassazione ha accolto il ricorso della Tper Spa, società emiliana, che voleva licenziare in tronco, per “giusta causa” e senza alcun diritto ad indennità, uno degli autisti che, alla fermata dei pullman, ed in divisa, aveva rivolto alla collega, che aveva da poco partorito due gemelli, le frasi “incriminate”.

Il licenziamento in tronco

La donna, autista anche lei, aveva subito presentato un esposto all’azienda datrice di lavoro che, a sua volta, aveva contestato al lavoratore il comportamento «gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza» licenziandolo in tronco per giusta causa. La massima sanzione era stata però considerata troppo severa dai giudici della Corte d’Appello. Per la Corte territoriale il licenziamento era una sanzione “eccessiva per un comportamento considerato solo “ inurbano”. Per i giudici di secondo grado la decisione dell’azienda andava considerata un recesso unilaterale per cui la Tper era stata condannata a versare all’autista venti mensilità.

Frase discriminatoria

Una decisione dalla quale la Cassazione prende le distanze. Per la Suprema corte bollare semplicemente come inurbano il comportamento del lavoratore «non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento». L’espressione inurbano «rimanda infatti – si legge nell’ordinanza – ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate, e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato, si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento».

I giudici di legittimità ricordano che il Codice delle Pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs n. 198/2006) considera “discriminazioni” anche le “molestie”, ovvero «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». Soprattutto con riguardo alla posizione «di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso». La Cassazione ha dunque annullato con rinvio il verdetto della Corte d’Appello, che è ora chiamata a riesaminare la sua decisione per valutare «la sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento».

L’evoluzione sociale

E la Suprema corte chiude con un invito a tenere nella giusta considerazione i cambiamenti di costume «Costituisce innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni – scrivono i giudici – la acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona». Per questa ragioni l’intrusione in tale sfera «effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone non può essere considerata secondo il modesto standard della violazione di regole formali di buona educazione». La condotta va valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale, assumono i diritti inviolabili dell’uomo, il riconoscimento della pari dignità sociale “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana e il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell’individuo, oggetto di particolare tutela «in tutte le sue forme e applicazioni». E dunque alla luce del divieto di ogni discriminazione.

Fonte: “Il Sole 24 ore”




Licenziata per eccesso di smart working? La Cassazione dà torto all’azienda

Svolgere il lavoro da remoto costituisce giusta causa di licenziamento? La Cassazione fa chiarezza


Quando si tratta di lavorare, nessuno è entusiasta. A volte, però, ciò che pesa di più non è neppure lo svolgimento dell’attività in sé, ma il doversi spostare per raggiungere il luogo di lavoro. C’è chi, infatti, preferisce svolgere la propria prestazione da remoto. Proprio in merito al lavoro da remoto, è recentemente intervenuta un’ordinanza della Cassazione di cui vogliamo parlarvi. Si tratta dell’ordinanza n. 2761 del 30.01.2024.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte è la seguente: il fatto che il dipendente lavori da remoto può costituire giusta causa di licenziamento?

Scopriamo insieme cosa hanno affermato in merito i giudici di Roma.

La vicenda all’esame della Corte riguardava la dipendente di una società cooperativa, licenziata dal datore di lavoro. In particolare, la dipendente aveva mansioni di supervisione e controllo dei cantieri nei quali la società espletava servizi di pulizia, e il licenziamento era stato intimato per i seguenti motivi:

  • sistematica violazione delle disposizioni aziendali in ordine all‘orario di lavoro;
  • svolgimento in modo incompleto e discontinuo della prestazione, con tanto di disbrigo di faccende personali durante l’orario di lavoro;
  • abuso della fiducia del datore di lavoro, approfittando della circostanza che non vi fosse un sistema di rilevazione automatica delle presenze, considerando che le mansioni assegnate prevedevano anche l’allontanamento dall’ufficio per effettuare i sopralluoghi sui cantieri.

Ad adire l’autorità giudiziaria era stata proprio la società, che si era vista rigettare, sia innanzi al Tribunale sia innanzi alla Corte d’appello di Bologna, la domanda volta ad accertare la legittimità del licenziamento intimato, che era stato quindi nei primi due gradi di giudizio ritenuto privo di giusta causa.
Di conseguenza, il datore di lavoro aveva proposto ricorso in Cassazione, rigettato però dalla Suprema Corte.

I giudici di legittimità, difatti, hanno ritenuto infondate le doglianze della società ricorrente, concordando con quanto invece affermato dalla Corte d’appello.

Inoltre, il giudice d’appello aveva sottolineato come anche dall’elenco fornito dalla società fosse chiaro che alcune mansioni prescindessero dalla presenza fisica, e non si poteva escludere che, nei giorni o ore contestati come di “assenza dal servizio”, fossero state svolte dalla lavoratrice proprio quelle attività.

In particolare, la dipendente, che svolgeva ruolo di coordinatrice, poteva anche tenere i contatti necessari per via telefonica, prescindendo alcune delle sue attività dalla presenza sul luogo di lavoro. Di conseguenza, non sussisteva giusta causa di licenziamento.
Secondo la pronuncia della Corte di merito, confermata dalla Cassazione, l‘addebito sarebbe stato fondato laddove la lavoratrice avesse invece fatto mancare il proprio apporto di risultato o laddove fosse stato possibile dimostrare che il suo tempo fosse stato dedicato ad attività diverse, non compatibili con quelle lavorative, in misura tale da escludere la prestazione oraria.

La dipendente, quindi, è uscita vittoriosa anche dal giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, che ha confermato che il licenziamento intimato dalla società fosse privo di giusta causa.

Fonte: Brocardi.it



Si sblocca il bonus mamme. A chi spetta e in cosa consiste. E perché ci lascia perplessi.

Dopo vari intoppi nell’introduzione dello sgravio per le lavoratrici madri, in ultimo il mancato arrivo di una circolare Inps, ora il documento necessario è stato emanato.
L’ente previdenziale giovedì 1 febbraio ha pubblicato la circolare per rendere operativo il cosiddetto “bonus mamme” previsto dalla legge di Bilancio, che in via sperimentale per il 2024 prevede l’esonero contributivo fino a 3mila euro per le lavoratrici madri di due figli fino al decimo anno del più piccolo. Il ritardo nell’emanazione è stato provocato dalla necessità di alcune verifiche sulla base della normativa sulla privacy, per quanto riguarda l’opportunità di valutare un rapporto più diretto con le aziende accedendo ai codici fiscali dei dipendenti.

Dopo l’approfondimento sulla gestione del trattamento dei dati e un confronto con il Ministero del Lavoro, l’istituto ha quindi lavorato per la sburocratizzazione delle procedure: per agevolare l’accesso alla misura, si legge nella circolare, le lavoratrici assunte a tempo indeterminato possono comunicare al loro datore di lavoro la volontà di avvalersi dell’esonero in argomento, rendendo noti al medesimo datore di lavoro il numero dei figli e i codici fiscali di due o tre figli. Con la comunicazione dei dati dal datore di lavoro all’INPS e i successivi controlli scatterà l’erogazione del bonus. La lavoratrice può anche comunicare direttamente all’Istituto le informazioni relative ai codici fiscali dei figli.

Il bonus era previsto già dal 1 gennaio, sebbene la norma sia stata approvata il 30 dicembre. A gennaio dunque le lavoratrici non hanno ricevuto in busta paga l’importo relativo, che arriva a un massimo di 250 euro al mese. Chi ne aveva diritto già dal primo mese dell’anno recupererà l’importo dovuto.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

IN COSA CONSISTE IL BONUS?

Tra le misure dedicate alla famiglia stanziate dal governo per il 2024 c’è anche il cosiddetto “bonus mamme“. Si tratta, più correttamente, di uno sconto totale – fino a 3mila euro annui – sui contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri dal secondo figlio in poi.

Il bonus mamme rappresenta una decontribuzione del 9,19% dello stipendio complessivo, corrispondente alla quota di contributi che la madre lavoratrice dovrebbe pagare per il contributo IVS nel settore privato e il contributo FAP nel settore pubblico.

Lo sconto viene riconosciuto alle mamme lavoratrici con almeno due figli, che sono dipendenti pubbliche o private e che sono titolari di contratto a tempo indeterminato (anche part-time).

Dal bonus sono così escluse le madri di un solo figlio (anche se disabile), le lavoratrici domestiche, le pensionate, le lavoratrici a tempo determinato, le libere professioniste, le disoccupate e anche le collaboratrici occasionali.

La durata del beneficio varia in base al numero di figli e alla loro età: per le madri con due figli, l’agevolazione spetta fino al compimento dei 10 anni da parte del figlio più piccolo e solo per il periodo di paga dall’1 gennaio al 31 dicembre 2024.

Per le mamme con tre o più figli, invece, il beneficio vale dal 2024 al 2026 fino a quando il figlio più piccolo raggiunge i 18 anni.

Si ricorda, infine, che tra le altre misure in sostegno della famiglia per il 2024 ci sono anche il mese di congedo parentale retribuito all’80% per i genitori e un ulteriore mese utilizzabile dalla madre o dal padre entro i 6 anni di vita del figlio, retribuito al 60%. È stato inoltre incrementato il fondo per gli asili nido a 240 milioni di euro.

Fonte: tg24.sky.it


LE CRITICITÀ 

LA MANCANZA DI COPERTURE

Dare un sostegno economico alle famiglie è sicuramente una decisione positiva. Ma se, come ha detto la Meloni, lo Stato paga i contributi previdenziali alle mamme per premiare il loro “importante contributo alla società”, questo vuol dire andare ad accollare ulteriori debiti all’INPS, che finiremo per pagare tutti sotto forma di tagli alle pensioni o aumenti dell’età pensionabile.

Se si vuole dare un sostegno alle famiglie bisogna prendere i soldi dove stanno: cioè nelle tasche degli evasori, che invece il governo corteggia in tutti i modi.

L’EFFETTIVA UTILITÀ DEL PROVVEDIMENTO

La domanda che dovremmo porci è se questo bonus porterà un aumento delle nascite. Anche se il governo rifiuta di ammetterlo, il motivo del calo demografico è da ricercarsi nella precarietà e negli stipendi bassi: come può una coppia pensare di avere un figlio se ha grosse difficoltà a mettere un pasto in tavola?

Il bonus sembra andare in direzione opposta rispetto a questi problemi.
Vale solo per le lavoratrici a tempo indeterminato, nonostante le più deboli sul mercato del lavoro siano ovviamente le precarie, e riguarda una piccola minoranza delle occupate che in Italia sono al momento oltre 10 milioni. Stando alla relazione tecnica della legge di Bilancio le dipendenti private stabili con tre o più figli sono solo 110 mila. Quelle con due figli di cui uno sotto i 10 anni sono 569 mila.
Le lavoratrici con redditi sotto i 35 mila euro, va ricordato, già godono dell’esonero parziale del cuneo fiscale previsto per tutti i dipendenti, e quindi beneficeranno solo in parte del bonus.

MOSSA ELETTORALE?

Lo sgravio è di un solo anno per chi ha due figli, tre anni per le mamme che ne hanno tre o più. Sicuramente una durata insufficiente a spingere una coppia a fare un figlio in più. Volendo pensare male, non possiamo fare a meno di notare che viene varato nell’anno in cui si svolgono le elezioni europee.