Guida Fisac ai bonus 2024

Pubblichiamo il link alla guida pubblicata dalla Fisac Cgil Nazionale relativa a tutte le tipologie  di bonus attualmente in vigore. Per ognuno è spiegato in cosa consiste, a chi spetta, come si richiede.

Ricordiamo che anche questa guida è accessibile dalla sezione Guide e manuali del sito

 

Fisac Cgil – Guida ai Bonus 2024




Cassazione: giusto licenziare chi deride un collega per il suo orientamento sessuale

Ma perché sei uscita incinta pure tu? E come non sei lesbica?

La frase in dialetto detta con tono irrisorio ad una collega davanti a terze persone, è costata il posto di lavoro al dipendente di una società pubblica di trasporti. La Cassazione ha accolto il ricorso della Tper Spa, società emiliana, che voleva licenziare in tronco, per “giusta causa” e senza alcun diritto ad indennità, uno degli autisti che, alla fermata dei pullman, ed in divisa, aveva rivolto alla collega, che aveva da poco partorito due gemelli, le frasi “incriminate”.

Il licenziamento in tronco

La donna, autista anche lei, aveva subito presentato un esposto all’azienda datrice di lavoro che, a sua volta, aveva contestato al lavoratore il comportamento «gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza» licenziandolo in tronco per giusta causa. La massima sanzione era stata però considerata troppo severa dai giudici della Corte d’Appello. Per la Corte territoriale il licenziamento era una sanzione “eccessiva per un comportamento considerato solo “ inurbano”. Per i giudici di secondo grado la decisione dell’azienda andava considerata un recesso unilaterale per cui la Tper era stata condannata a versare all’autista venti mensilità.

Frase discriminatoria

Una decisione dalla quale la Cassazione prende le distanze. Per la Suprema corte bollare semplicemente come inurbano il comportamento del lavoratore «non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento». L’espressione inurbano «rimanda infatti – si legge nell’ordinanza – ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate, e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato, si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento».

I giudici di legittimità ricordano che il Codice delle Pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs n. 198/2006) considera “discriminazioni” anche le “molestie”, ovvero «quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». Soprattutto con riguardo alla posizione «di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso». La Cassazione ha dunque annullato con rinvio il verdetto della Corte d’Appello, che è ora chiamata a riesaminare la sua decisione per valutare «la sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento».

L’evoluzione sociale

E la Suprema corte chiude con un invito a tenere nella giusta considerazione i cambiamenti di costume «Costituisce innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni – scrivono i giudici – la acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona». Per questa ragioni l’intrusione in tale sfera «effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone non può essere considerata secondo il modesto standard della violazione di regole formali di buona educazione». La condotta va valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale, assumono i diritti inviolabili dell’uomo, il riconoscimento della pari dignità sociale “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana e il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell’individuo, oggetto di particolare tutela «in tutte le sue forme e applicazioni». E dunque alla luce del divieto di ogni discriminazione.

Fonte: “Il Sole 24 ore”




Licenziata per eccesso di smart working? La Cassazione dà torto all’azienda

Svolgere il lavoro da remoto costituisce giusta causa di licenziamento? La Cassazione fa chiarezza


Quando si tratta di lavorare, nessuno è entusiasta. A volte, però, ciò che pesa di più non è neppure lo svolgimento dell’attività in sé, ma il doversi spostare per raggiungere il luogo di lavoro. C’è chi, infatti, preferisce svolgere la propria prestazione da remoto. Proprio in merito al lavoro da remoto, è recentemente intervenuta un’ordinanza della Cassazione di cui vogliamo parlarvi. Si tratta dell’ordinanza n. 2761 del 30.01.2024.

La questione posta al vaglio della Suprema Corte è la seguente: il fatto che il dipendente lavori da remoto può costituire giusta causa di licenziamento?

Scopriamo insieme cosa hanno affermato in merito i giudici di Roma.

La vicenda all’esame della Corte riguardava la dipendente di una società cooperativa, licenziata dal datore di lavoro. In particolare, la dipendente aveva mansioni di supervisione e controllo dei cantieri nei quali la società espletava servizi di pulizia, e il licenziamento era stato intimato per i seguenti motivi:

  • sistematica violazione delle disposizioni aziendali in ordine all‘orario di lavoro;
  • svolgimento in modo incompleto e discontinuo della prestazione, con tanto di disbrigo di faccende personali durante l’orario di lavoro;
  • abuso della fiducia del datore di lavoro, approfittando della circostanza che non vi fosse un sistema di rilevazione automatica delle presenze, considerando che le mansioni assegnate prevedevano anche l’allontanamento dall’ufficio per effettuare i sopralluoghi sui cantieri.

Ad adire l’autorità giudiziaria era stata proprio la società, che si era vista rigettare, sia innanzi al Tribunale sia innanzi alla Corte d’appello di Bologna, la domanda volta ad accertare la legittimità del licenziamento intimato, che era stato quindi nei primi due gradi di giudizio ritenuto privo di giusta causa.
Di conseguenza, il datore di lavoro aveva proposto ricorso in Cassazione, rigettato però dalla Suprema Corte.

I giudici di legittimità, difatti, hanno ritenuto infondate le doglianze della società ricorrente, concordando con quanto invece affermato dalla Corte d’appello.

Inoltre, il giudice d’appello aveva sottolineato come anche dall’elenco fornito dalla società fosse chiaro che alcune mansioni prescindessero dalla presenza fisica, e non si poteva escludere che, nei giorni o ore contestati come di “assenza dal servizio”, fossero state svolte dalla lavoratrice proprio quelle attività.

In particolare, la dipendente, che svolgeva ruolo di coordinatrice, poteva anche tenere i contatti necessari per via telefonica, prescindendo alcune delle sue attività dalla presenza sul luogo di lavoro. Di conseguenza, non sussisteva giusta causa di licenziamento.
Secondo la pronuncia della Corte di merito, confermata dalla Cassazione, l‘addebito sarebbe stato fondato laddove la lavoratrice avesse invece fatto mancare il proprio apporto di risultato o laddove fosse stato possibile dimostrare che il suo tempo fosse stato dedicato ad attività diverse, non compatibili con quelle lavorative, in misura tale da escludere la prestazione oraria.

La dipendente, quindi, è uscita vittoriosa anche dal giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, che ha confermato che il licenziamento intimato dalla società fosse privo di giusta causa.

Fonte: Brocardi.it



Si sblocca il bonus mamme. A chi spetta e in cosa consiste. E perché ci lascia perplessi.

Dopo vari intoppi nell’introduzione dello sgravio per le lavoratrici madri, in ultimo il mancato arrivo di una circolare Inps, ora il documento necessario è stato emanato.
L’ente previdenziale giovedì 1 febbraio ha pubblicato la circolare per rendere operativo il cosiddetto “bonus mamme” previsto dalla legge di Bilancio, che in via sperimentale per il 2024 prevede l’esonero contributivo fino a 3mila euro per le lavoratrici madri di due figli fino al decimo anno del più piccolo. Il ritardo nell’emanazione è stato provocato dalla necessità di alcune verifiche sulla base della normativa sulla privacy, per quanto riguarda l’opportunità di valutare un rapporto più diretto con le aziende accedendo ai codici fiscali dei dipendenti.

Dopo l’approfondimento sulla gestione del trattamento dei dati e un confronto con il Ministero del Lavoro, l’istituto ha quindi lavorato per la sburocratizzazione delle procedure: per agevolare l’accesso alla misura, si legge nella circolare, le lavoratrici assunte a tempo indeterminato possono comunicare al loro datore di lavoro la volontà di avvalersi dell’esonero in argomento, rendendo noti al medesimo datore di lavoro il numero dei figli e i codici fiscali di due o tre figli. Con la comunicazione dei dati dal datore di lavoro all’INPS e i successivi controlli scatterà l’erogazione del bonus. La lavoratrice può anche comunicare direttamente all’Istituto le informazioni relative ai codici fiscali dei figli.

Il bonus era previsto già dal 1 gennaio, sebbene la norma sia stata approvata il 30 dicembre. A gennaio dunque le lavoratrici non hanno ricevuto in busta paga l’importo relativo, che arriva a un massimo di 250 euro al mese. Chi ne aveva diritto già dal primo mese dell’anno recupererà l’importo dovuto.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

 

IN COSA CONSISTE IL BONUS?

Tra le misure dedicate alla famiglia stanziate dal governo per il 2024 c’è anche il cosiddetto “bonus mamme“. Si tratta, più correttamente, di uno sconto totale – fino a 3mila euro annui – sui contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri dal secondo figlio in poi.

Il bonus mamme rappresenta una decontribuzione del 9,19% dello stipendio complessivo, corrispondente alla quota di contributi che la madre lavoratrice dovrebbe pagare per il contributo IVS nel settore privato e il contributo FAP nel settore pubblico.

Lo sconto viene riconosciuto alle mamme lavoratrici con almeno due figli, che sono dipendenti pubbliche o private e che sono titolari di contratto a tempo indeterminato (anche part-time).

Dal bonus sono così escluse le madri di un solo figlio (anche se disabile), le lavoratrici domestiche, le pensionate, le lavoratrici a tempo determinato, le libere professioniste, le disoccupate e anche le collaboratrici occasionali.

La durata del beneficio varia in base al numero di figli e alla loro età: per le madri con due figli, l’agevolazione spetta fino al compimento dei 10 anni da parte del figlio più piccolo e solo per il periodo di paga dall’1 gennaio al 31 dicembre 2024.

Per le mamme con tre o più figli, invece, il beneficio vale dal 2024 al 2026 fino a quando il figlio più piccolo raggiunge i 18 anni.

Si ricorda, infine, che tra le altre misure in sostegno della famiglia per il 2024 ci sono anche il mese di congedo parentale retribuito all’80% per i genitori e un ulteriore mese utilizzabile dalla madre o dal padre entro i 6 anni di vita del figlio, retribuito al 60%. È stato inoltre incrementato il fondo per gli asili nido a 240 milioni di euro.

Fonte: tg24.sky.it


LE CRITICITÀ 

LA MANCANZA DI COPERTURE

Dare un sostegno economico alle famiglie è sicuramente una decisione positiva. Ma se, come ha detto la Meloni, lo Stato paga i contributi previdenziali alle mamme per premiare il loro “importante contributo alla società”, questo vuol dire andare ad accollare ulteriori debiti all’INPS, che finiremo per pagare tutti sotto forma di tagli alle pensioni o aumenti dell’età pensionabile.

Se si vuole dare un sostegno alle famiglie bisogna prendere i soldi dove stanno: cioè nelle tasche degli evasori, che invece il governo corteggia in tutti i modi.

L’EFFETTIVA UTILITÀ DEL PROVVEDIMENTO

La domanda che dovremmo porci è se questo bonus porterà un aumento delle nascite. Anche se il governo rifiuta di ammetterlo, il motivo del calo demografico è da ricercarsi nella precarietà e negli stipendi bassi: come può una coppia pensare di avere un figlio se ha grosse difficoltà a mettere un pasto in tavola?

Il bonus sembra andare in direzione opposta rispetto a questi problemi.
Vale solo per le lavoratrici a tempo indeterminato, nonostante le più deboli sul mercato del lavoro siano ovviamente le precarie, e riguarda una piccola minoranza delle occupate che in Italia sono al momento oltre 10 milioni. Stando alla relazione tecnica della legge di Bilancio le dipendenti private stabili con tre o più figli sono solo 110 mila. Quelle con due figli di cui uno sotto i 10 anni sono 569 mila.
Le lavoratrici con redditi sotto i 35 mila euro, va ricordato, già godono dell’esonero parziale del cuneo fiscale previsto per tutti i dipendenti, e quindi beneficeranno solo in parte del bonus.

MOSSA ELETTORALE?

Lo sgravio è di un solo anno per chi ha due figli, tre anni per le mamme che ne hanno tre o più. Sicuramente una durata insufficiente a spingere una coppia a fare un figlio in più. Volendo pensare male, non possiamo fare a meno di notare che viene varato nell’anno in cui si svolgono le elezioni europee.




Quel pasticciaccio dell’Isee

Nel 2024 bisognerà richiederlo due volte?


Era già accaduto con la tassa sugli extraprofitti delle banche: dichiarazioni roboanti del Governo, poi non se n’è fatto più nulla.

Ora un nuovo caso rischia di evidenziare la differenza tra gli annunci a reti unificate e quanto Meloni e i suoi ministri riescano a mettere effettivamente in campo. Parliamo delle modifiche all’Isee, previste dalla Legge di Bilancio 2024.

La Legge 30 dicembre 2023 n.213 prevedeva infatti che da quest’anno l’Isee non dovesse più riportare l’ammontare dei titoli di Stato e dei Buoni Postali, fino ad un importo di 50mila euro: una norma che da un lato lisciava il pelo a chi, disponendo di questi risparmi, veniva escluso dai bonus che ogni tanto vengono “elargiti” dalla politica, dall’altro incoraggiava i risparmiatori a preferire titoli di Stato ad altri investimenti.

Ancora una volta sembra che la realtà sia destinata a rivelarsi differente rispetto a quanto promesso.

Con il messaggio 165 del 12/1/2024 l’INPS precisa che – almeno per ora – nulla è cambiato. Il motivo? La legge c’è, i titoli sui giornali ci sono stati, ma…

“L’entrata in vigore di questa disposizione non è immediata, essendo subordinata all’approvazione delle modifiche al regolamento sulla disciplina dell’ISEE. Resta pertanto immutata la disciplina ISEE relativa al patrimonio mobiliare”.

In parole povere: la legge ci sarebbe, ma se non cambiano le istruzioni operative l’Isee continuerà a riportare titoli di Stato e depositi postali.

Cosa succederà adesso? Difficile dirlo. La situazione potrebbe restare invariata, e quindi ci ritroveremmo di fronte all’ennesimo annuncio a vuoto. Almeno fino a quando il Governo rimedierà alla svista, ma al momento non possiamo dire quando questo accadrà.

Quindi cosa fare? Le prime scadenze incombono. Per l’Assegno Unico è necessario aggiornare l’Isee, e bisogna farlo entro la fine di febbraio. Questo significa che per il momento va richiesto. Quando (e se) il pasticciaccio dell’Isee sarà stato risolto, bisognerà effettuare una nuova richiesta.

 

 

 




Smart working: proroga a marzo 2024 per i genitori di under 14 e i fragili

Ufficiale la proroga del termine per lo smart working, la scadenza viene spostata in avanti di 3 mesi, al 31 marzo 2024. Interessa i genitori del settore privato con figli sotto i 14 anni d’età e i fragili a rischio contagio. Le novità nella legge di conversione del decreto anticipi approvata definitivamente alla Camera.


Dopo la fumata nera con la conversione in legge del decreto proroghe, la proroga per lo smart working arriva con quella del decreto anticipi.

Il testo è stato approvato anche alla Camera e si attende solo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Un emendamento previsto in questa fase estende al 31 marzo 2024 la scadenza fissata al 31 dicembre.

La proroga interessa i lavoratori e le lavoratrici con figli minori di 14 anni e anche i fragili maggiormente esposti ai rischi Covid.




Congedi Parentali, come funzionano le novità introdotte con la legge di Bilancio


Iniziamo ricordando le nuove regole:

♦ i periodi di congedo parentale entro i 6 anni del bambino (o dall’ingresso in famiglia) fruiti dal 1° gennaio 2023 sono indennizzati all’80% della retribuzione, fino al raggiungimento del limite di 1 mese (con alcuni vincoli);

♦ i successivi periodi di congedo, entro i 12 anni del figlio, sono indennizzati al 30% fino al raggiungimento del limite di 9 mesi (comprensivo del primo mese all’80%);

♦ i restanti periodi, fino al limite di 10 o 11 mesi (se il padre lavoratore si astiene dal lavoro per almeno tre mesi), non sono indennizzati, salvo che ci siano i requisiti di reddito (se inferiore a 2,5 volte il minimo di pensione sono al 30%).

COME FUNZIONA:

La Legge di Bilancio (comma 359, legge 197/2022) ha innalzato dal 30% all’80% la retribuzione dell’indennità di congedo parentale per una sola mensilità, da fruire entro il sesto anno di vita del figlio (o sei anni dall’ingresso in famiglia del minore in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età).

Le regole sono le seguenti:

♦ il mese all’80% è uno solo per entrambi i genitori (non è a testa), che però possono anche frazionarlo restando nel complessivo mese in tutto;
 il beneficio è riservato solo ai dipendenti, sia nel pubblico sia nel privato (se uno dei genitori non lo è, spetta solo all’altro);
 il genitore deve aver terminato il congedo obbligatorio dopo il 31 dicembre 2022 (anche per un solo giorno).

A questi vincoli si aggiunge quello contenuto nella circolare INPS 45/2023: il congedo all’80% deve ricadere nei primi tre mesi di congedo parentale, che, in base alle nuove regole 2023, non sono trasferibili all’altro genitore. Questo di fatto esclude il beneficio per i neo-genitori che nel 2023 hanno già utilizzato tre mesi di congedo facoltativo.

La legge ha infatti modificato l’articolo 34 D. Lgs. 151/2001 come segue:

Per i periodi di congedo parentale di cui all’articolo 32, fino al dodicesimo anno di vita del figlio, a ciascun genitore lavoratore spetta per tre mesi, non trasferibili, un’indennità pari al 30% della retribuzione (elevata, in alternativa tra i genitori, per la durata massima di un mese fino al sesto anno di vita del bambino, alla misura dell’80% della retribuzione).

C’è dunque un esplicito riferimento all’utilizzo nell’ambito dei tre mesi non trasferibili all’altro genitore.

Riportiamo un esempio, contenuto nella circolare INPS, che chiarisce il concetto.

La madre dipendente fruisce del congedo di maternità dal 15 settembre 2022 al 15 febbraio 2023 e il padre dipendente prende tre mesi di congedo parentale dal 1° ottobre al 31 dicembre 2022 indennizzati al 30% della retribuzione (si tratta dei suoi 3 mesi non trasferibili) e utilizza un altro mese dal 10 gennaio al 9 febbraio 2023.
In questo caso, il mese di congedo parentale fruito dal padre nel 2023 è indennizzabile solo al 30% e non all’80% della retribuzione, perché «l’elevazione dell’indennità è prevista solo per uno dei tre mesi spettanti a ogni genitore e non trasferibili all’altro».
La madre, invece, considerato che ha terminato il congedo di maternità nel 2023, ha diritto al congedo parentale indennizzato all’80%, fino ai sei anni di vita del figlio.

Per finire, permangono purtroppo dei dubbi sulla modalità di richiesta del riconoscimento dell’indennità all’80%. La circolare, infatti, non fa alcun riferimento a questo aspetto e alcuni uffici territoriali INPS sostengono che sarà il datore di lavoro a corrispondere la retribuzione, senza specificare però con quali criteri e modalità (visto che i datori di lavoro non sono in grado autonomamente di conoscere l’utilizzo dei congedi da parte di entrambi i genitori e verificare quindi la presenza delle condizioni per il riconoscimento dell’indennità all’80%).

Mentre, tramite i patronati, tentiamo di ottenere da INPS la necessaria chiarezza, consigliamo comunque a lavoratrici e lavoratori di chiedere esplicitamente ai propri datori di lavoro il riconoscimento dell’integrazione all’80% quando ne ricorrano le condizioni sulla base delle regole e condizioni indicate sopra.

Alleghiamo il link al testo della circolare INPS 45/2023

Roma, 12 giugno 2023

 

ESECUTIVO DONNE FISAC CGIL NAZIONALE




Fringe benefit: ipotesi 1.000 euro per tutti + bonus figli

Fringe benefit per tutti e non solo per chi ha dei figli. L’ipotesi è sul tavolo di governo e maggioranza, che stanno provando a rivedere la norma del decreto lavoro, che alza di molto la soglia di non tassazione dei benefici aziendali ma circoscrive la platea solo ai lavoratori dipendenti con figli a carico. Lo scoglio però sono le coperture, su cui sono in corso le valutazioni del Mef. E sempre al Tesoro si guarda per un altro tema caldo, quello della possibile proroga dello smart working, che scade a fine giugno.

Smart working (per ora) accantonato

Le due modifiche potrebbero arrivare con l’esame degli emendamenti del decreto lavoro, su cui la commissione Affari sociali ha appena iniziato a votare. E che siano le due modifiche più sensibili lo conferma il fatto che gli emendamenti sul tema sono stati subito accantonati, in attesa che si concludano le verifiche sulle coperture.

In particolare, sui fringe benefit l’idea allo studio è di rimodulare l’intervento definito dal governo nel decreto lavoro, che innalza il tetto esentasse dagli attuali 258 euro a 3mila euro, ma solo per i dipendenti con figli. La volontà è di renderlo più efficace e la soluzione cui si pensa è di alzare un po’ meno la soglia, ma ampliando la platea: l’ipotesi allo studio è di portare quindi il tetto a 1.000 euro per tutti, aggiungendo 660 euro per ogni figlio, fino ad un massimo di tre.
In questo modo, per chi ha un figlio il tetto salirebbe a 1.660 euro, mentre per chi ne ha 3 si arriverebbe a 2.980 euro, sfiorando quindi i 3mila originari.

Verso l’Aula il 13 o 14 giugno

Il nodo però sono le coperture: la soluzione di cui sopra costerebbe circa 250 milioni, a fronte dei 142 milioni previsti dal decreto per alzare la soglia a 3mila euro solo per i dipendenti con figli. L’altro fronte su cui si lavora è quello dello smart working, che senza interventi scade il 30 giugno. L’idea che si fa strada, però, sarebbe quella di prorogarlo solo per i lavoratori fragili, e non anche per i genitori con figli under 14. In generale l’obiettivo è chiudere l’esame in commissione in settimana in modo da andare in Aula il 13 o 14 giugno, ha riferito il presidente della commissione Francesco Zaffini, esprimendo la volontà di «contribuire a migliorare un po’ il provvedimento, che è importante e che noi vogliamo lavorare. Qualcosa dell’opposizione verrà recepito, lo spirito è buono».

 

Fonte: Il Sole 24 Ore




Quanti soldi si possono prelevare da un conto cointestato?

Limite ai prelievi di contanti da conto cointestato e divisione della somma depositata: la guida legale


I conti correnti cointestati sono una soluzione comune per molte coppie e famiglie che vogliono gestire i loro soldi in modo condiviso. Succede, ad esempio, tra marito e moglie o tra genitori anziani e figli. Tuttavia, la questione di quanti soldi si possono prelevare da un conto cointestato può essere fonte di confusione e malintesi.

Per poter avere un quadro chiaro bisogna partire da un dato essenziale: avere un conto cointestato significa essere comproprietari del denaro in esso contenuto. In quale misura? Se non c’è un accordo specifico tra le parti, non oltre la metà. Ed allora ci si chiede: quanti soldi si possono prelevare da un conto cointestato? E cosa succede se si eccede?

Ci sono alcune sentenze che chiariscono come funziona il conto cointestato e quali sono i poteri della banca nell’ipotesi in cui uno dei correntisti dovesse prelevare più della propria quota. 

In questo articolo analizzeremo le diverse situazioni in cui è possibile prelevare denaro da un conto cointestato, i limiti legali e le eventuali conseguenze dell’eccedere questi limiti. Inoltre, forniremo alcuni consigli pratici per gestire al meglio un conto cointestato e evitare malintesi o conflitti con il cointestatario.


Come funziona un conto cointestato?

Il conto deve essere cointestato sin dal suo nascere: è quindi necessario che tutti i futuri intestatari del conto si rechino allo sportello della banca per sottoscrivere le condizioni di contratto. 

L’intestazione del conto può decidere di estinguere il rapporto ed aprirne un altro cointestato, sul quale girare il saldo; in tale ipotesi, secondo la Cassazione, si verifica una donazione della metà del denaro depositato sul conto, sicché il nuovo titolare del conto acquisisce in automatico la proprietà del 50% del deposito. Tuttavia è sempre possibile dimostrare che la cointestazione sia avvenuta per finalità diverse dall’intento di donare, ad esempio per ragioni logistiche (si pensi a un anziano che voglia cointestare il conto al nipote affinché gli gestisca i prelievi e i versamenti). Una prova di questo tipo potrà servire per evitare che, alla morte di uno dei titolari del conto, l’altro rivendichi la proprietà della metà.

Ci sono tre tipi di conto corrente cointestato:

  • a firma congiunta: per fare i prelievi e i pagamenti è necessario il consenso di tutti i correntisti;
  • a firma disgiunta: ciascun correntista può eseguire prelievi e pagamenti;
  • misti: in tal caso, è necessario il consenso di tutti i correntisti solo per prelievi e pagamenti oltre un certo importo.

Quindi, per stabilire quanti soldi si possono prelevare da un conto corrente cointestato bisogna innanzitutto verificare eventuali limitazioni contrattuali che richiedano appunto l’autorizzazione dell’altro cointestatario. 


C’è un limite al prelievo di soldi da un conto cointestato?

Nel momento in cui si ha un conto corrente cointestato, la legge impone di non prelevare mai una somma superiore a quella che è la propria quota. Tale quota deve essere stabilita dalle parti al momento della cointestazione. Spesso però non si chiarisce mai questo aspetto, così la giurisprudenza ha detto che, in assenza di un patto contrario, bisogna presumere che il conto vada diviso in parti uguali. Pertanto, in presenza di un conto cointestato a due persone, ciascuna di queste avrà la metà dei soldi; invece in presenza di un conto cointestato a tre persone, la divisione avverrà nei limiti di un terzo (ossia il 33,3%), e così via.

Come anticipato, se si vogliono stabilire quote diverse (ad esempio il 70% e il 30%) bisognerà prevederlo in un apposito accordo che, per evitare fraintendimenti, dovrà essere scritto.

Attenzione però: come si dirà meglio nel successivo paragrafo, seppure le parti sono tenute a rispettare la divisone del conto secondo la quota a ciascuna di esse spettante, questa circostanza non ha alcun rilievo nei confronti della banca. Poiché infatti il rapporto è caratterizzato dalla cosiddetta “solidarietà”, sia attiva che passiva, ciascun correntista può esigere dalla banca una somma anche superiore rispetto alla propria parte (salvo ovviamente sussista l’obbligo di firma congiunta). Né la banca è tenuta a verificare se il richiedente ha effettuato un prelievo per un importo maggiore rispetto alla parte che gli spetta. 

Cosa succede se una persona preleva più della propria quota?

Come si è appena detto, in caso di conto a firma disgiunta, la banca non è tenuta a verificare il rispetto delle quote di proprietà al momento dei prelievi. L’istituto di credito è infatti debitore nei confronti di ciascun cointestatario per l’intera somma depositata.

Pertanto, in caso in cui uno dei cointestatari prelevi una somma superiore a quella di sua proprietà, l’altro potrà rivalersi sicuramente contro di lui ma non già nei confronti dell’istituto di credito che, per questo, non ha alcuna responsabilità. 

Chi ha prelevato più della propria quota è tenuto, nei confronti dell’altro cointestatario, a restituire la differenza oppure a ripristinare la provvista sul conto.


Che succede se il conto corrente va in rosso?

Come sussiste la solidarietà attiva nei confronti della banca (sicché ciascun correntista può pretendere l’intero importo depositato, anche oltre la propria quota, salvi solo i limiti di firma), la legge prevede anche la cosiddetta solidarietà passiva: in pratica ciascun correntista assume una responsabilità in solido per le obbligazioni nascenti con l’istituto di credito. Ciò significa che se il conto dovesse andare in rosso, la banca potrà chiedere l’intera somma a ciascun cointestatario, indipendentemente da chi, tra questi, ha determinato lo sconfinamento.

 

 

 




Hai avuto un bambino quando ancora non lavoravi? Puoi farti accreditare i contributi figurativi

Il periodo di maternità obbligatoria che la legge prevede per le donne lavoratrici, per una durata di 5 mesi complessivi, vale per le donne che hanno rapporti di lavoro in corso al momento della maternità ma anche per chi vive la maternità fuori dal rapporto di lavoro. Queste lavoratrici possono richiedere gratuitamente l’accredito dei contributi figurativi, quantificabili in 22 settimane per ogni figlio.
La richiesta può essere inoltrata anche in caso di adozione.
Le 22 settimane vengono computate sia ai fini dell’anzianità contributiva, sia ai fini del calcolo del montante pensionistico complessivo.

Unico requisito richiesto, l’aver accumulato all’atto della domanda di accredito almeno 5 anni di contribuzione versata in Italia.

La richiesta può essere inoltrata per il tramite dei Patronati Inca Cgil; l’unica documentazione necessaria è un estratto dell’atto di nascita del figlio e i documenti di identità suoi e della richiedente.

 

RISCATTO PERIODO DI ASTENSIONE FACOLTATIVA

In aggiunta all’accreditamento dei contributi per l’astensione obbligatoria, è possibile anche procedere al riscatto del periodo di astensione facoltativa per maternità, qualora la stessa sia avvenuta al di fuori del rapporto di lavoro. Il riscatto può essere esercitato dalla madre o, in caso di figlio nato dopo il 18/12/1977, anche dal padre.
Resta la necessità di aver accumulato almeno 5 anni di contribuzione versata in Italia

In questo caso, tuttavia, l’operazione non è gratuita ma prevede un costo a carico del richiedente. Anche per questo consigliamo di rivolgersi ai nostri Patronati Inca Cgil per farsi effettuare un conteggio e valutare l’effettiva convenienza dell’operazione.