Oltre 1,5 milioni di lavoratori in nero nel 2017. Per lo Stato un danno di 20 miliardi.

L’elaborazione della Fondazione Consulenti del Lavoro sui dati dell’ispettorato. Il calo rispetto agli ultimi due anni. Due aziende su tre tra quelle controllate presentano irregolarità.

Oltre un milione e mezzo di persone in Italia lavora “in nero”. È quanto emerge dall’elaborazione della Fondazione Consulenti del Lavoro sui dati del primo anno di attività dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
I lavoratori irregolari in Italia sul totale delle aziende attive “nel 2017 sono un milione 538 mila”, anche se in calo – si spiega – “negli ultimi due anni (2016 e 2015), di circa 200.000 unità”.
Il nero, oltre ai lavoratori stessi, fa male anche alle casse previdenziali. Gli occupati in maniera irregolare causano infatti un mancato gettito allo Stato “stimato in 20 miliardi e 60 milioni di euro”. 

I DATI

Lo scorso anno “sono state 160.347” le aziende verificate dall’Ispettorato, e quelle che presentavano forme di irregolarità riguardanti almeno un occupato “sono state 103.498”, ossia “il 64,54% del totale di quelle controllate”.
Le irregolarità, ricordano i consulenti nel dossier, possono riguardare “forme di elusione previdenziale, assicurativa e fiscale (come il mancato assoggettamento a Inps, Inail e Irpef di parte della retribuzione corrisposta), il lavoro parzialmente ‘sommerso’ (ad esempio, rapporti in part-time che, invece, risultano a tempo pieno)” ed il lavoro completamente in ‘nero’. Nel 2017, si legge, l’Ispettorato ha raggiunto alcuni obiettivi, applicando le nuove, più pesanti sanzioni in materia di caporalato nel settore agricolo: si registrano, infatti, il deferimento di 94 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali 31 in stato di arresto, e l’individuazione di 387 lavoratori vittime di sfruttamento.

Il 2018 presenta, poi, dei dati relativi ancor più incoraggianti: nel primo semestre dell’anno in corso si rileva il deferimento di 60 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali una in stato di arresto e 47 in stato di libertà, e l’individuazione di 396 lavoratori coinvolti, mentre sono stati adottati 9 provvedimenti di sequestro. Le cifre, si sottolinea nello studio, “riportano l’attenzione sull’importanza strategica di un’incisiva azione di contrasto al lavoro ‘nero’ che, non di rado, sfocia in fenomeni di caporalato diffuso, non solo in agricoltura”. Il ‘sommerso’, dice il presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro Rosario De Luca, è “in forte aumento soprattutto dopo la depenalizzazione, avvenuta col ‘Jobs act’, del reato di intermediazione fraudolenta di manodopera”.

 

Fonte: La Repubblica.it




Migranti, la condanna della CGIL: con la nave Diciotti superato ogni limite

Con la vicenda della nave Diciotti si è superato ogni limite!

Il comportamento del governo non solo è deplorevole ma irresponsabile. Non si può accettare che delle istituzioni continuino ad avere un atteggiamento superficiale e disumano nei confronti dei più deboli.

L’ostinazione a non far attraccare una nave della Guardia costiera, prima, per poi non far sbarcare le persone sulla Diciotti è una palese violazione del codice penale oltre che della Carta costituzionale. Riteniamo l’inchiesta aperta dalla procura di Agrigento, che ipotizza anche il reato di sequestro di persona, un messaggio chiaro: la politica sarà pure legittimata a prendere decisioni e assumere provvedimenti, ma non può contravvenire a quanto previsto nella nostra Costituzione.

Per fortuna osserviamo una differenza di comportamento fra la Guardia costiera e il governo. Chi per vocazione è portato a salvare vite umane, nello spirito del proprio mandato, può e deve dare lezioni a chi ha perso la bussola su ciò che sia giusto e lecito.

In queste ore siamo in presidio a Catania e continueremo a mobilitarci per difendere la democrazia, la libertà e i diritti umani.

Roma 23 agosto 2018

 

ANPI          ARCI          Articolo 21           CGIL           Legambiente          Libera




Voucher, l’Italia non vuole privarsi dei super precari

La nuova liberalizzazione tocca agricoltura e turismo, settori a scarsa produttività che vivono risparmiando sul costo del lavoro

Sembra risolversi in un eufemismo il decreto Dignità con l’ipotesi, sempre più realistica, di una nuova liberalizzazione dei voucher rispetto al regime attuale, introdotto poco più di un anno fa dal governo Gentiloni. I voucher, o buoni lavoro, erano stati oggetto di un vero e proprio scontro politico tra i governi delle larghe intese, da quello Monti fino a quello Gentiloni, e l’opinione pubblica e una parte dei sindacati, confederali e non. A oggi, l’ipotesi in discussione è quella di estendere i buoni lavoro al settore agricolo e a quello turistico alberghiero, mentre sembra meno probabile la loro reintroduzione anche per gli enti locali.

Il dibattito a cui si assiste in questi giorni ignora scientemente tutti gli argomenti e le analisi portate avanti fino al 2017, rispolverando la sempiterna idea per cui a maggiore flessibilità si accompagna un aumento occupazionale, come sottolinea Coldiretti che parla di un potenziale aumento di 30.000 rapporti di lavoro solo nel mese di agosto. Stesso discorso per gli attacchi all’introduzione delle causali per i contratti a termine oltre i dodici mesi prevista del decreto. Una idea superata dai fatti e dalla ricerca scientifica, ma difficile da scalfire nell’egemonia neoliberista che governa i processi politici degli ultimi decenni. Il tema elude non a caso ogni argomento in merito alla qualità di questi rapporti: durata, diritti, libertà, ma soprattutto sovrappone in modo errato il concetto di rapporto di lavoro con quello di nuova occupazione.

Rimanendo al tema dei voucher, ripercorrendone la storia, è utile ribadire che l’esplosione dei buoni lavoro tra il 2012 e l’ultimo trimestre del 2016 fu rallentata in modo consistente non tanto dalla loro fittizia abolizione, bensì dall’introduzione della tracciabilità per i datori di lavoro. Un riduzione intensificatasi a partire da giugno 2017 con l’abolizione degli originari voucher e l’introduzione dei contratti PrestO. L’occupazione non si è contratta da allora, ha mutato forme contrattuali: dai voucher al lavoro intermittente (o a chiamata), che torna ad aumentare a tassi elevati. Sarebbe interessante chiedersi e indagare se e quanto i nuovi strumenti telematici non abbiano raggiunto una diffusione proporzionalmente coerente con i livelli precedenti a causa dei limiti imposti o a causa della scarsa capacità dei datori di lavoro di adeguarsi agli strumenti telematici. Acquistare un voucher al tabacchi risultava operazione a portata di tutti contrariamente alla registrazione attraverso il portale dell’Inps che richiede quelle minime capacità digitali non ancora universali in Italia. Quanto ai dati, il tasso di crescita dell’ultimo trimestre 2016 sullo stesso periodo del 2015 è del 38%, mentre nel complesso del 2017 rispetto al 2016 il lavoro a chiamata aumenta del 120%. Non si tratta di stabilizzazioni ma di contratti brevi, a forte contenuto precario.

L’utilità dei voucher come unico strumento per regolarizzare rapporti di lavoro brevi è presto smentita dai dati sulla durata dei contratti a termine (il 78% dura meno di 365 giorni) e soprattutto quelli a termine in somministrazione (di cui il 99% ha una durata inferiore all’anno). Contratti sui quali non interviene in alcun modo la seppur lieve stretta sui rapporti a tempo determinato prevista dal decreto Dignità. Essa infatti si applica, se approvata, ai contratti oltre i dodici mesi, che sono una minoranza, non agendo in nessun modo sul vasto mondo del lavoro frammentato.

L’estensione dei voucher non farebbe che aumentare l’estrema precarietà del lavoro più vulnerabile, privandolo di quei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione ma in fondo anche dal buon senso in una società pervasa sempre più aggressivamente da elevati livelli di povertà tra i lavoratori. La povertà nel lavoro è allo stesso tempo l’anticamera del disagio economico a fine carriera quando dovranno essere contati i contributi versati dai lavoratori in vista della pensione. A conti fatti, a prescindere dai voucher, le aziende hanno a disposizione una molteplicità di strumenti per perseverare nell’uso del lavoro discontinuo e a basso costo, potendo al contempo far leva sulla rotazione e la ricattabilità dei lavoratori. Questo aspetto ormai caratterizza la nostra economia e non si vede un’inversione di rotta di cui invece ci sarebbe un gran bisogno. Il costo del lavoro, fin troppo basso per molte forme contrattuali, a partire dai livelli salariali, deve essere considerato un freno alla crescita e non viceversa, rompendo definitivamente il solco ideologico attorno al quale si sono saldate sia la politica italiana sia buona parte delle istituzioni del lavoro.

Resta poi un ulteriore problema. La terziarizzazione a scarsa produttività verso cui è virata l’economia italiana, che vede tra i settori in maggiore espansione quello turistico-alberghiero e ristorativo: dal punto di vista sistemico questa dinamica non produrrà effetti solidi nel medio e lungo periodo. C’è da chiedersi se almeno la crescita contingente non debba essere distribuita equamente tra aziende e lavoratori, e allo stesso tempo se sia possibile avallare un sistema aziendale incapace di remunerare adeguatamente il suo maggiore fattore di produzione, il lavoro appunto. Relativamente all’agricoltura invece, dove sempre più spesso caporalato e schiavitù appaiono i tratti salienti delle relazioni industriali, l’estensione dei voucher appare un compromesso al ribasso che volta le spalle alle questioni fondamentali che caratterizzano questo ramo dell’economia e in cui i vinti e gli sfruttati continueranno a riempire le file della disperazione sociale a cui il paese risponde quotidianamente con atti di violenza tra gli ultimi.

 

Articolo di Marta Fana pubblicato sul Fatto Quotidiano del 1/8/2018

 

 

https://www.fisaccgilaq.it/fisac/novoucher-firma-la-petizione.html

 




La triste storia dell’uomo licenziato dal computer

In un’azienda Usa un computer licenzia un dipendente, per un errore, senza che nessuno riesca a interrompere la catena di eventi che in poche ore lo vede scortato fuori dall’edificio dagli agenti della sicurezza. Storie del XXI secolo, di quando i lavoratori sono “risorse”, accidentalmente umane.

Il protagonista di questa storia, Ibrahim Diallo, è probabilmente il primo lavoratore della storia a essere licenziato da un computer. La sua disavventura, raccontata in un blog, comincia alle 7 di una mattina qualsiasi di qualche mese fa, quando Ibrahim scopre che il suo badge non apre più la porta dell’ufficio. Convinto che si tratti di un guasto, si fa aprire dal custode, va alla sua scrivania e accende il computer – solo per scoprire che le sue password sono state disabilitate. Il computer gli nega l’accesso a tutti i sistemi aziendali.

Il suo manager, appena arrivato, gli comunica di aver ricevuto una mail dal dipartimento Risorse Umane in cui lo si informa che il suo contratto risulta scaduto: si attiverà subito per capire che cosa sia successo, gli assicura.

PRENDI LE TUE COSE… Il tempo passa e il peggio arriva subito dopo la pausa pranzo, quando due addetti alla sicurezza si presentano alla scrivania di Ibrahim con l’ordine, ricevuto via mail, di accompagnarlo fuori dall’edificio. Ormai era chiaro: Ibrahim era stato licenziato e nessuno, nemmeno i top manager dell’azienda, era riuscito a disinnescare un processo automatico che, mail dopo mail, lo aveva costretto a svuotare i cassetti e lasciare l’ufficio.

ERRORE UMANO. Che cosa era successo? Un incidente banale: l’ex capo di Ibrahim, prima di andare in pensione, si era scordato di caricare nel sistema informatico il rinnovo del suo contratto. Così, alla scadenza, il solerte computer aziendale che governa invisibile la vita dei dipendenti, un bel mattino ha avviato le procedure per trasformare Ibrahim in un ex dipendente – e in una grande o grandissima azienda dove le persone che lavorano in uffici o reparti diversi spesso neppure si conoscono, nessuno è riuscito a bloccare il processo.

NON TORNO PIÙ. A Diallo lo scherzo del computer è costato 3 settimane da disoccupato: tanto ci è voluto ai programmatori perché riuscissero a farlo rientrare a tutti gli effetti nel suo ruolo. Ma poi Ibrahim ha deciso comunque di cogliere l’occasione al volo e cambiare lavoro. «Questa storia deve far ripensare al rapporto tra uomini e macchine», afferma Dave Coplin, esperto di sistemi di intelligenza artificiale.

L’AI CI SALVERÀ DAI COMPUTER? In effetti, forse una AI avrebbe potuto evitare a Diallo questa esperienza: sistemi basati sull’analisi dei dati avrebbero potuto segnalare una possibile anomalia su di un licenziamento che non era basato né su motivi disciplinari, né su basse prestazioni, e avrebbe potuto bloccare il processo in attesa di conferma o ulteriori istruzioni. Il punto di forza dei sistemi di AI è quello di riuscire a identificare schemi ricorrenti all’interno di grandi quantità di informazioni, come sono per esempio le motivazioni che portano all’allontanamento forzato di qualcuno dal proprio posto di lavoro.

E poi c’è il lato umano della vicenda: ciò che colpisce di più in questa storia è la completa automazione dell’intero processo e l’impossibilità per chiunque di riuscire ad interromperlo. Un po’ come accade ai protagonisti del cult di fantascienza 2001 – Odissea nello spazio alle prese con HAL 9000, il computer che li vuole uccidere per non essere spento. Ma quello era solo un film.

 

Fonte: www.focus.it




Soumayla Sacko era pericoloso perché sapeva di essere uno schiavo

Una fucilata alla testa. Così è stato ammazzato, trucidato, eliminato Soumayla Sacko, 29 anni, originario del Mali e sindacalista dell’Usb.

Soumayla non si rassegnava. Combatteva, lottava per la dignità dei braccianti della piana di Gioa Tauro e in particolare di San Ferdinando. Solo e sempre schiavi, pochi euro per dodici ore di lavoro, baracche, stenti, sofferenza e abusi. L’arroganza dei caporali, il controllo delle milizie e poi loro: i padroni ndranghetisti delle terre.

Soumayla Sacko come Placido Rizzotto e Pio La Torre. Un gigante, schiena dritta – senza se e senza ma – e lotta per i diritti. Restiamo umani.

E’ stato un agguato. Solo mafiosi infami e vigliacchi potevano compiere un atto di così vasta crudeltà. Neppure il coraggio di mostrarsi, affrontarlo. Niente. Ucciso a tradimento.

Avevano il terrore di incrociare quello sguardo. Occhi iniettati di sangue e quella rabbia antica. Soumayla Sacko era nel mirino. Lo aspettavano davanti a quella maledetta fabbrica abbandonata.

Quattro colpi esplosi contro tre inermi. Quel sindacalista di merda bisognava eliminarlo. Sempre e solo dalla parte degli ultimi. Rompeva il cazzo. Il fiato sul collo. Eccepiva, chiedeva e rilanciava: Soumayla Sacko lottava a denti stretti, era pericoloso. Sì, perché gli schiavi sono schiavi e non devono sapere di essere schiavi.

E Soumayla Sacko era instancabile e non si fermava. Era regolare, aveva un permesso di soggiorno, le carte erano a posto. In Italia da otto anni e sempre quel grande senso di giustizia tatuato nell’anima. Soumayla Sacko è Kunta Kinte del romanzo Radici.

Un sindacalista vero, un eroe, un giusto. Mentre si consumava – sabato sera – l’abominevole tragedia, immediatamente a tavolino veniva costruita l’infame menzogna: Soumayla Sacko con due complici stava rubando e chi ha sparato l’ha fatto legittimamente.

E mentre s’infiammava la protesta nei campi di San Ferdinando con lo sciopero dei braccianti e la rabbia di Aboubakar Soumahoro, dirigente nazionale dell’Usb, e una storia personale di resistenza cominciata a Napoli, nessun rappresentante del governo fasciopentaleghista si è sentito in dovere d’intervenire. Equilibri, mediazioni e ipocrisia a chili.

Il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, era impegnato a difendere la dignità di altri lavoratori, i rider perchè : “Simbolo di una generazione senza tutele”. Stranamente, il loquace leader del Movimento 5 Stelle, suoi accolti e codazzo, su Soumayla Sacko non hanno trovato il tempo né di twittare, né di postare, neppure di un video, un hashtag, una dichiarazione di maniera, una nota. Nulla. Il silenzio assoluto.

Forse nel contratto non c’è scritto di dare la solidarietà ai neri oppure la ragion d’equilibrio di Stato con lo scomodo e ingombrante alleato consiglia di girare la faccia d’altra parte. E solo ieri il premier Giuseppe Conte nel suo discorso alle Camere ha dedicato un paio di frasi al giovane sindacalista rivolgendo il suo pensiero ai familiari. Alla fine il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha ragione da vendere. E’ finita davvero la “pacchia” illusoria: una buona parte di italiani, finalmente liberi, si vedranno così come sono sempre stati allo specchio, scoprendo che in fondo restano solo dei fascisti.

 

Articolo di Arnaldo Capezzuto pubblicato su www.ilfattoquotidiano.it




Mobbing e violenza psicologica sul posto di lavoro

Sempre più spesso sentiamo parlare di mobbing sui posti di lavoro. Non sempre, tuttavia, siamo in grado di capire se comportamenti ai quali siamo abituati ad assistere possano invece rappresentare abusi tali da compromettere la nostra serenità e minare la nostra salute.

Alla fine dell’articolo pubblichiamo il link alla relazione scritta a 4 mani dalla Professoressa Emilia Costa, psicoterapeuta e docente universitaria, e dall’allora praticante avvocato Massimiliano Costa in occasione di un convegno sul tema.
La relazione è un po’ datata, essendo stata scritta nel 2003, ma i temi trattati e le informazioni riportate sono assolutamente attuali.

I relatori partono dal rapido sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi 50 anni, osservando come gli essere umani non siano state altrettanto rapide ad adeguarsi ai continui cambiamenti. Per questo motivo oggi i lavoratori sono spesso insoddisfatti, aggressivi ed ostili.
In un simile contesto soprusi e prevaricazioni finiscono per diventare non solo comprensibili ma vengono in un certo senso ritenuti legittimi, in ambienti lavorativi caratterizzati spesso da ambizioni sfrenate.
Laddove l’aspirazione alla crescita professionale non sia supportata da adeguate capacità la carriera diventa carrierismo, la sana competitività viene distorta nel tentativo di impedire con ogni mezzo la crescita di quelli che vengono visti come rivali; le energie vengono allora rivolte alla distruzione invece che alla creatività ed alla crescita dell’impresa.

Il mobbing viene presentato come una malattia creata dalla società attuale. Una malattia che, attraverso la degradazione professionale del lavoratore, può arrecare gravi danni a lui come persona ed all’intero tessuto sociale.
Significativa in tal senso è l’origine della parola Mobbing. Il termine deriva da quello inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, accerchiare, assalire in massa, malmenare. E’ stato usato per la prima volta da Konrad Lorenz proprio per descrivere il comportamento di alcuni animali che si coalizzano contro un membro del gruppo, lo attaccano, lo isolano, lo escludono dal gruppo, lo malmenano fino a portarlo anche alla morte.

E’ interessante infine rilevare come le aziende del nostro settore, banche ed assicurazioni, vengano viste dai relatori come particolarmente idonee alla nascita di comportamenti discriminatori.
Il nostro lavoro è infatti caratterizzato dalla continua ricerca di un difficile equilibrio tra pressioni commerciali e rispetto delle regole, rendendo i lavoratori particolarmente esposti ad errori, e comunque facilmente attaccabili.

LE FASI DEL MOBBING

Tra i primi a studiare in modo sistematico il fenomeno del mobbing ci sono due psicologi, lo svedese Heinz Leymann ed il tedesco Harald Ege, che cominciarono ad occuparsene a partire dal 1984.

A loro si deve l’individuazione delle fasi che caratterizzano il mobbing:

  1. Conflitto mirato.
    La vittima viene individuata.
    Il conflitto generalizzato si dirige verso di essa con l’obiettivo di distruggerla.
    Il conflitto si allarga dall’ambito lavorativo alla “sfera privata”.
  2. Inizio del Mobbing vero e proprio
    La vittima avverte disagio.
    Le relazioni con i colleghi diventano più difficili.
    Il mobbizzato subisce demansionamenti o trasferimenti.
    La vittima comincia a porsi domande sul cambiamento.
  3. Primi sintomi psicosomatici
    Il soggetto avverte l’isolamento, comincia a non dormire la notte, ha problemi digestivi, ha difficoltà a recarsi sul posto di lavoro, si sente insicuro.
    L’idea del lavoro diventa prevalente ed ossessiva.
    Si manifestano i primi sintomi della depressione: senso di spossatezza, demotivazione, sensi di colpa per non saper migliorare la situazione.
  4. Errori ed abusi dell’Amministrazione del personale
    La vittima comincia ad assentarsi per malattia, dando il pretesto ai superiori per prenderlo di mira.
    La vittima avverte un senso di minaccia incombente, che peggiorerà il suo malessere.
    Aumentano le assenze dal lavoro.
  5. Aggravamento della salute psicofisica della vittima
    Il soggetto entra in grave depressione presentando certificazioni che attestino il suo stato.
    L’azienda non vuole riconoscere il malessere, aggravando la posizione del mobbizzato.
    La vittima si sente sempre più perseguitata, sente di non poter più affrontare la situazione.
    Si sviluppa un “Disturbo postraumatico da stress” caratterizzato da paura intensa, pensieri di morte, compromissione dei rapporti sociali.
    Possono svilupparsi anche malattie fisiche quali asma bronchiale, ulcere, vertigini, cefalee, disturbi alimentari o della sfera sessuale, riduzione delle difese immunitarie.
  6. Esclusione dal mondo del lavoro.
    Dimissioni volontarie, licenziamento, prepensionamento.
    Nei casi più gravi suicidio o morte a seguito di malattia.

Secondo Leymann si può parlare di mobbing solo se questo processo si verifica in modo costante e sistematico per almeno sei mesi, e se le azioni vengono messe in atto tenendo conto della personalità e dei punti deboli della vittima in modo da massimizzarne i disagi.
Tra i comportamenti che possono rappresentare forme di mobbing possono rientrare i seguenti:

  • sparizione o rottura improvvisa senza sostituzione di strumenti di lavoro come telefoni, computer, lampadine ecc…
  • litigi sempre più frequenti con i colleghi
  • la conversazione si interrompe non appena la vittima entra in una stanza
  • il mobbizzato viene escluso da notizie ed informazioni utili per il suo lavoro
  • vengono diffusi pettegolezzi infondati sul conto della vittima
  • affidamento improvviso di incarichi inferiori alla propria qualifica o del tutto estranei alle proprie pompetenze
  • controllo sempre più stringente su orari d’entrata ed uscita, pause caffè, telefonate ecc…
  • rimproveri eccessivi per piccole mancanze
  • nessuna risposta alle richieste scritte o orali
  • provocazione da parte dei superiori per spingere il mobbizzato a reazioni incontrollate
  • mancati inviti a feste aziendali o attività sociali
  • continue prese in giro per l’aspetto fisico o l’abbigliamento
  • le proposte del mobbizzato vengono sistematicamente ignorate
  • retribuzione inferiore rispetto ad altri colleghi che svolgono incarichi meno importanti.
  • e così via per innumerevoli azioni assimilabili

Secondo lo psicologo psicologo tedesco Ege, le cui ricerche si sono concentrare soprattutto sul nostro Paese,  in Italia il forte legame familiare espone i lavoratori al doppio mobbing, cioè quello che il mobbizzato può subire dalla sua famiglia che, se in un primo momento può essergli vicino, nel tempo finisce col colpevolizzarlo.

FATTORI SPECIFICI DEL MOBBING 

Il Mobbing può iniziare per diversi motivi:

  • Un dipendente o un dirigente non è in sintonia con le idee o con le scelte del capo, o con le idee e decisioni del gruppo dominante.
  • La persona rivendica diritti che non gli vengono riconosciuti perché quella carica è stata destinata ad altri.
  • Si entra in collisione col potente della situazione.
  • Ci sono molte persone con la stessa funzione che vorrebbero accedere al livello superiore.
  • Bisogna immettere personale per creare un nuovo servizio e nessuno vuole andare a lavorare con un certo direttore o trasferirsi.
  • Non si hanno sponsor o protettori.

In ognuno di questi casi può bastare un minimo segno di insofferenza o di ribellione da parte del lavoratore per mettere in moto il meccanismo che lo porterà ad essere mobbizzato.


TIPOLOGIE DEL MOBBING: BOSSING, MOBBING ORIZZONTALE, VERTICALE, TRASVERSALE

Quando il mobbing viene attuato dal diretto superiore si parla di bossing o mobbing verticale.
Il bossing si manifesta attraverso una precisa strategia volta ad estromettere il lavoratore da ogni possibilità di crescita professionale in modo da renderlo impotente, o allontanarlo dal posto di lavoro.
Si parla di mobbing verticale anche quando sono i sottoposti a coalizzarsi ed assumere comportamenti aggressivi nei confronti del superiore per difendere una serie di privilegi.

Il mobbing orizzontale è quello messo in atto dai colleghi di pari grado, in genere per impedire l’avanzamento di carriera della vittima.

Il mobbing trasversale si estende anche al di fuori dell’ambiente lavorativo potendo contare su persone vicine al mobber che contribuiscono ad isolare la vittima quando questa cerca appoggio, togliendogli il saluto e chiudendogli tutte le porte.

MOBBING STRATEGICO – MOBBING RELAZIONALE

Il mobbing strategico è una scelta che può essere deliberatamente adottata da alcune imprese come mezzo per la riduzione del personale, finalizzandolo all’allontanamento di dipendenti considerati non più utili perché provenienti da vecchie gestioni, o impiegati in reparti da dismettere, o da riqualificare, o ritenuti troppo costosi, o indesiderati perché d’intralcio alla carriera di chi è stato predestinato.

Il mobbing relazionale riguarda i rapporti interpersonali. E’ un modo di gestire il potere basato su “divide et impera”: mira quindi ad aizzare le persone l’una contro l’altra fomentando rivalità e gelosie e concentrandosi sui soggetti che si è deciso di estromettere dalla possibile crescita professionale, rifiutando di fornirgli informazioni chiare o mettendoli in condizione di sbagliare a causa di messaggi volutamente ambigui.


IL MOBBIZZATO

Non esiste ovviamente un’unica tipologia di persone che possono essere vittime di mobbing.

La vittima può essere una persona capace e creativa, che proprio per le sue qualità rischia di diventare un ostacolo rispetto a percorsi di carriera pre-determinati.
Oppure, al contrario, può trattarsi di persona con limitate capacità o con peculiarità che la facciano apparire “diversa”: caratteristiche fisiche, handicap, orientamenti politici o sessuali.
Si può finire vittime di mobbing perché si appare più deboli, in ambienti caratterizzati da competitività esasperata, o per assenza di appoggi. Ad essere attaccata può essere una donna, solo perché si trova ad operare in ambienti prevalentemente maschili.

Ciò che invece accomuna tutti i soggetti che subiscono mobbing è la loro sofferenza, il loro senso di inadeguatezza. Il mobbizzato viene privato di qualsiasi prospettiva, togliendogli ogni speranza di miglioramento futuro e condannandolo a rivivere all’infinito quel presente al quale vorrebbe sfuggire. Questo getta le premesse per cadere nella depressione che può limitarsi a manifestazioni con impatto limitato, pur rendendo pesante il vissuto quotidiano, o sfociare in patologie molto più gravi.

IL MOBBER

La personalità del mobber è spesso caratterizzata da forte narcisismo ed egocentrismo o tratti paranoici. Giustifica il male arrecato agli altri con la presunta superbia o incompetenza della vittima. Necessita di essere attorniato da persone che lui sente inferiori e che non gli pongono problemi o domande anche in presenza di comportamenti potenzialmente illeciti, che lo assecondano pedissequamente per confermare la sua convinzione  che a lui è permesso tutto, lui può tutto e tutto gli è dovuto.
Molte volte non si rende nemmeno conto delle conseguenze nefaste del suo operato anche sul piano  giuridico: civile, penale, amministrativo. Spesso poco creativo e conformista, arrogante, invidioso e geloso dei colleghi di lavoro, che utilizza e sfrutta a suo piacimento senza alcuno scrupolo. Solitamente di intelligenza media, raramente anche elevata. In tutti i casi il mobber non riesce a vedere mai l’altro come una persona, e non è in grado di accettare una relazione autentica, ma solo una parvenza di relazione  fondata sul potere,  sul dominio e sul condizionamento e controllo che schiaccia, umilia e degrada l’altro, e lo rende assolutamente dipendente e passivo, distorcendone le qualità personali, solo per il suo piacere ed il gusto di rovinarlo e distruggerlo.

CONSEGUENZE DEL MOBBING

Il mobbing  produce conseguenze sulla salute psicofisica, sulla professionalità e dignità del lavoratore e  sulla produttività e qualità del lavoro personale e dell’Ente di lavoro, sulla famiglia e sulle relazioni interpersonali del mobbizzato, rappresentate dal danno biologico e danno sociale.

Dalle violenze morali e dalle persecuzioni sul posto di lavoro possono derivare malattie organiche, psicosomatiche e psichiatriche di rilevanza medico legale, e nei casi più gravi  conseguenze letali come il suicidio, nella percentuale del 15% secondo studi condotti in Svezia , arrivando anche a causare nei casi più estremi tentativi di omicidio sui mobbizzati resistenti  o, per vendetta, sui mobber.

Il mobbizzato subisce inoltre conseguenze rilevanti di varia natura: perdita dei benefici derivanti dal normale rapporto di lavoro, perdita di opportunità anche al di fuori dell’ Azienda, perdita di prospettive di maggior guadagno o riduzione dei guadagni abitualmente conseguiti, perdita della progressione nella carriera, perdita delle consulenze relative ai rapporti di lavoro, perdita del posto di lavoro per prepensionamento, dimissioni provocate, licenziamento, pensionamento.

Il danno da mobbing finisce col riguardare non solo la persona che lo subisce ma anche la famiglia della vittima, l’Azienda in cui viene attuato e l’intera comunità sociale.

Lo Stato subisce danni economici dovuti all’indennità da malattia, agli eventuali indennizzi ed ai prepensionamenti. L’Azienda, e l’intera comunità sociale, vengono privati di soggetti capaci e quindi della possibilità di beneficiare di un lavoro svolto in modo qualitativamente e quantitativamente migliore.

RICONOSCIMENTO GIURIDICO DEL DANNO DA MOBBING

Il Mobbing può essere causa di almeno quattro tipi di danno: biologico, patrimoniale, morale, esistenziale.

Andrebbe anche considerato il danno sociale alla famiglia, all’Azienda ed alla intera società in termini di economia e cultura.

Il danno biologico o danno alla salute comprende il danno psichico dovuto alla perdita di opportunità lavorative, la maggior fatica nell’espletamento del proprio lavoro e per mantenere inalterato il reddito, l’usura psichica, i danni alla vita di relazione.
Il danno patrimoniale è costituito dalle conseguenze economiche dovute alle discriminazioni subite, che possono portare ad una diminuzione del patrimonio del danneggiato e ad un ridimensionamento del suo tenore di vita.
il danno morale è costituito dal disagio, dal dolore, dalla sofferenza che il mobbing possono causare e che, quando sfociano in depressione o altri disturbi, finiscono col compromettere anche le relazioni sociali ed affettive.
Il danno esistenziale è rappresentato dal peggioramento oggettivo delle condizioni di vita della persona e della sua famiglia, venendo meno il diritto di vivere la propria vita senza disagi e con la piena facoltà di disporre del proprio tempo e delle proprie energie.

Dal punto di vista giuridico il mobbing può avere rilevanza sul piano civile ed ammnistrativo, ma anche di natura penale. Ad oggi, la difficoltà maggiore in sede giudiziale è rappresentata dalla necessità di dimostrare il rapporto di casualità tra vessazioni subite e danni alla persona.

 

Per un maggior approfondimento dei temi trattati invitiamo a consultare la relazione integrale