Chi va al lavoro in bici ha diritto all’indennizzo INAIL in caso d’infortunio

La Corte di Cassazione chiarisce i contorni dell’infortunio in itinere  anche alla luce dell’intervento legislativo del 2015. L’utilizzo della bici come mezzo privato va considerato sempre necessitato.

Il lavoratore che si infortuna in bici per andare al lavoro ha diritto al risarcimento dell’Inail. Perché l’uso della bici è da ritenersi sempre necessitato, equiparato cioè a quello del mezzo pubblico o al percorso a piedi anche grazie all’intervento del Dlgs 221/2015 che incentiva la mobilità sostenibile.

Lo ha stabilito la sentenza numero 21516/2018 depositata qualche giorno fa dalla Corte di Cassazione nella quale i giudici erano stati chiamati a valutare il ricorso di un lavoratore contro la decisione dell’Inail che gli aveva negato il riconoscimento dell’indennizzo per una menomazione dell’8% sofferta in seguito all’infortunio capitatogli nel corso del tragitto casa-lavoro percorso in bicicletta. La difesa del lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione dopo che la Corte d’Appello aveva ritenuto che l’uso della bici, quale mezzo privato, non fosse «necessitato», uno dei requisiti essenziali affinché secondo il Testo Unico per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali sia possibile il riconoscimento della tutela Inail, in caso di utilizzo di mezzi privati. 

L’Infortunio in itinere. Come noto il legislatore con l’art. 12 del Dlgs 38/2000 ha esteso la tutela assicurativa gestita dall’INAIL all’infortunio che accada al lavoratore lungo il percorso che collega l’abitazione al lavoro e viceversa. La disposizione da ultimo richiamata ha ampliato la tutela a qualsiasi infortunio verificatosi lungo il percorso da casa a luogo di lavoro, escludendo, rispetto al passato, qualsiasi rilevanza all’entità del rischio o alla tipologia della specifica attività lavorativa cui l’infortunato sia addetto. L’infortunio in itinere può verificarsi, inoltre, nel normale percorso che il lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di lavoro a un altro, nel caso di rapporti di lavoro plurimi, oppure durante il tragitto abituale per la consumazione dei pasti, se non esiste una mensa aziendale. Sono ricompresi nella categoria degli infortuni in itinere anche gli incidenti che hanno avuto luogo nei casi in cui il lavoratore, per viaggiare, fa uso di un mezzo di trasporto privato, purché tale uso sia necessitato.

L’accertamento dell’uso necessitato. Sulla scorta della interpretazione giurisprudenziale in materia (anche precedente l’entrata in vigore della disciplina sopra citata) la Corte di Cassazione ribadisce che il requisito della necessità non deve essere tuttavia inteso in senso assoluto, essendo sufficiente una necessità relativa (ossia emergente attraverso i molteplici fattori non definibili in astratto che condizionano la scelta del mezzo privato rispetto a quello pubblico). In base a questo ragionamento è necessitato, quindi, anche l’uso determinato da ragioni d’impedimento per la percorrenza a piedi del tragitto casa-lavoro e viceversa come, ad esempio, quelle in cui la deambulazione sia motivo di pena e di eccesso di fatica (come nel caso del lavoratore interessato alla causa), oltre che di rischio per l’integrità psicofisica, alla luce dei principi di tutela della dignità della persona (ex art. 2 della carta costituzionale). Peraltro, aggiunge ancora la Cassazione, l’uso della bici per il tragitto casa-lavoro e viceversa può essere consentito anche «secondo un canone di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, e per tutelare l’esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell’attività svolta».

I nuovi canoni ermeneutici. Sull’accertamento dello stato di necessità circa l’utilizzo della bici come mezzo per recarsi al lavoro vale la pena ricordare anche quanto stabilito recentemente dal Dlgs 221/2015 con cui è stata incentivata la mobilità sostenibile. I commi 4 e 5 dell’art. 5 del citato Dlgs hanno, infatti, integrato la materia dell’infortunio in itinere (di cui agli artt. 2, terzo comma e 210 quinto comma del T.U. 1124/65) chiarendo che: «L’uso del velocipede, come definito ai sensi dell’articolo 50 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato».

In sostanza, attraverso la nuova disciplina, ai fini dell’infortunio in itinere, l’uso del velocipede (ovvero, secondo il codice della strada, del veicolo, con due o più ruote, funzionante a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali anche se a pedalata assistita), deve ritenersi sempre assicurato, come lo è, per la stessa normativa, l’andare al lavoro a piedi o con utilizzo del mezzo pubblico. L’intervento legislativo in questione ha, quindi, di fatto semplificato l’indagine per gli interpreti facendo venire meno l’accertamento della necessità nell’uso della bicicletta quale mezzo per recarsi al lavoro. I giudici ricordano che “certamente si tratta di una normativa entrata in vigore in epoca successiva al fatto in questione, e tuttavia, proprio perché espressione di istanze sociali largamente presenti da tempo nella comunità, essa non può non essere utilizzata dal giudice in chiave interpretativa al fine di chiarire anche il precetto elastico in vigore precedentemente”. Per tali ragioni i giudici hanno sconfessato la sentenza della Corte d’Appello ed accolto il ricorso della difesa del lavoratore.

 

Fonte: www.pensionioggi.it

 

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Se il bancario è molesto

8 Marzo 2017. Un dirigente periferico di un istituto di credito scrive una mail ai suoi collaboratori.

Oggetto: buona giornata.
Incipit: Buongiorno a tutti (…e tanti tanti Auguri alle DONNE!!!).
Fin qui tutto bene. Ma vuole strafare, così fa seguire il tutto da una barzelletta di cattivo gusto, che può andar bene al massimo sussurrata tra amici un po’ brilli al bar, ma non certo inviata via mail in ambiente di lavoro. Per decenza, non la citiamo e andiamo avanti con la nostra storia. Alla barzelletta segue un pensiero (presunto filosofico) che, invece, riportiamo:

E’ ridicolo e ingiusto che l’ozio delle nostre mogli sia mantenuto dal nostro sudore e dal nostro lavoro (M. de Montaigne).

Tra i destinatari della mail, 8 donne.
L’improvvida uscita (per di più proveniente da un soggetto noto per le frequenti battute fuori luogo) viene stigmatizzata e il mittente sensibilizzato, per il tramite delle relazioni sindacali, a una maggiore consapevolezza e responsabilità nell’uso della comunicazione. Le parole, lo sappiamo, possono ferire, offendere, umiliare. Tanto più quando provengono da persone con ruoli di potere.

Luglio 2018. Un dipendente di un istituto di credito viene licenziato in seguito alla denuncia per molestie di una studentessa di un istituto superiore. La giovane stava svolgendo un periodo di alternanza scuola lavoro e, come previsto, le era stato assegnato un tutor che, però, anziché attenersi ai propri compiti, si sarebbe lasciato andare ad allusioni, ammiccamenti e proposte insistenti.

Due episodi, molto lontani per gravità, che possiamo accomunare per la mancanza di rispetto per la dignità delle donne, nonché per la differenza di “potere” (ruolo, status, età ed esperienza) tra chi (uomo) ha esercitato la violenza, verbale o psicologica, e chi (donna) l’ha subita. All’origine di entrambi c’è un problema culturale, antico ma ancora tremendamente attuale, anche se spesso sottaciuto. La cultura patriarcale, insieme alla ineguale distribuzione di potere tra i generi alimentano e perpetuano discriminazioni, molestie e violenza.

Le stime dell’Istat ci raccontano di circa 1 milione 400 mila donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro nel biennio 2015/2016. In ambito impiegatizio, le professioni maggiormente colpite sono quelle intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione, dirigenti, impiegati, professioni qualificate nelle attività commerciali e nei servizi. Quindi, dobbiamo ragionevolmente e prudenzialmente presumere che anche il nostro settore ne sia coinvolto.

Spesso, risulta difficile individuarle e farle emergere:
• chi le subisce fatica a riconoscerle e denunciarle (nell’ 80% dei casi, la donna che subisce un ricatto sessuale non ne parla con nessuno sul posto di lavoro,
• chi le agisce, le sottovaluta, più o meno inconsciamente, si autoassolve, declassandole a scherzo, goliardia, avance, galanteria persino…,
• i colleghi/e faticano a vedere, riconoscere e, soprattutto, a solidarizzare con la vittima.

Per queste ragioni, è necessario che la nostra categoria, come già altre (Confindustria 2016, Federlegno 2015), si doti di accordi e codici di condotta, sulla base dell’accordo quadro europeo del 2007, che ha la finalità di aumentare la consapevolezza sul fenomeno e di fornire un quadro di azioni concrete per individuarlo, prevenirlo e gestirne le conseguenze. La formazione congiunta, che è lo strumento principe quando bisogna intervenire sulla cultura, dev’essere integrata e supportata dall’adozione di dichiarazioni che sottolineino che le molestie e la violenza non verranno tollerate, specifichino le procedure da seguire e individuino misure adeguate sia in termini disciplinari per chi le agisce che di sostegno e assistenza a chi le subisce.

Il CCNL del legno fornisce spunti interessanti, in particolare laddove elenca alcune tipologie di molestie, contribuendo così a far crescere la consapevolezza diffusa dei comportamenti da qualificarsi come molesti. Solo a titolo di esempio, troviamo, tra le altre cose, luso di un linguaggio rude e insultante o espressione di commenti che considerano donne e/o uomini in modi stereotipati, che si presta a far emergere modalità di interazione diffuse sulle quali esistono alti livelli di sottovalutazione (come non pensare all’episodio citato all’inizio di questa nostra nota).

Ricordiamo che la Legge di Bilancio 2018 inserisce nel Codice delle pari opportunità disposizioni a garanzia dei soggetti che denunciano molestie, anche sessuali, sul luogo di lavoro, come il divieto di licenziamento, fatti salvi i casi di accertata diffamazione da parte del denunciante. Inoltre, pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, e di porre in essere, con il coinvolgimento dei sindacati, nuove iniziative volte a prevenire le molestie sessuali, sollecitando tutti i soggetti coinvolti, tra cui anche i lavoratori e le lavoratrici, a garantire un ambiente di lavoro rispettoso della dignità umana.

In conclusione, riteniamo che i tempi siano maturi per discutere con le nostre controparti di quali azioni siano davvero efficaci a modificare retaggi culturali radicati, che pongono la donna in uno stato di subalternità e a prevenire possibili fenomeni di abuso di potere. L’alto livello di relazioni sindacali del nostro settore sarà di certo in grado di produrre un buon accordo che possa rappresentare un tassello importante nel contrasto alla violenza di genere sui luoghi di lavoro e non solo.

Settembre 2018

Esecutivo Donne Fisac

 

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Esiste un “rischio Grecia” per l’Italia?

Domenica 26 agosto il “Fatto Quotidiano” ha pubblicato il grafico che riportiamo. Un grafico che deve preoccuparci e non poco.

Ad essere rappresentata è la relazione tra il rating dei paesi dell’Area Euro ed il tasso che gli stessi pagano sui titoli di stato a 10 anni.

Prima di addentrarci nell’esame del grafico, facciamo un po’ di chiarezza sui concetti di rating e di spread, a beneficio di chi ha meno esperienza in materia di temi economici.

 

IL RATING

Possiamo considerare il rating come l’equivalente di un voto scolastico, espresso in lettere anziché in numeri. Ad assegnare questi voti procedono delle agenzie specializzate come Moody’s, Standard & Poors, Fitch ecc…

Cosa misura il rating? E’ una valutazione che sintetizza la capacità di uno Stato di ripagare i suoi debiti. Più viene ritenuto affidabile lo Sato, migliore sarà il “voto”.

Come si leggono questi “voti”? Facciamo riferimento alla classificazione utilizzata da Standard & Poors e Fitch: quella di Moody’s è leggermente differente.
La valutazione migliore possibile è AAA: in Europa la sola Germania viene ritenuta meritevole della tripla A, tanto da essere presa come punto di riferimento. A scendere c’è AA (Francia e Regno Unito), poi la A (Irlanda). Si passa poi a BBB, scendendo a BB e così via fino ad arrivare alla valutazione D, che indica le nazioni ormai in stato d’insolvenza che non ripagheranno i loro debiti (non a caso la D è anche l’iniziale di default).

Il rating attualmente attribuito all’Italia è BBB: come vedremo rappresenta un valore soglia.

 

L’ANDAMENTO DEI TASSI E LO SPREAD

Immaginate di avere due amici che vi chiedono un piccolo prestito.
Il primo ha un buon lavoro, uno stipendio fisso ed è molto oculato nel mettere soldi da parte. Ha bisogno di sostenere una spesa imprevista alla quale non può al momento far fronte avendo vincolato i suoi risparmi.
Il secondo lavora in modo saltuario, ma appena guadagna qualcosa lo spende subito. Ha bisogno di soldi perché non riesce a pagare le bollette.

Vi sentireste più tranquilli a prestare soldi al primo amico o al secondo? La risposta appare fin troppo facile.
Cosa può fare il secondo amico, quello meno affidabile, per convincervi? Magari, oltre a promettere che metterà la testa a posto, potrebbe offrirvi qualcosa per ripagarvi del prestito. Potrebbe ad esempio promettere di regalarvi quell’oggetto da collezione che ha in casa, sul quale da tempo avete messo gli occhi.
La situazione cambia; potreste anche decidere che valga la pena di correre il rischio di non vedersi restituire i soldi, a questo punto ripagato dalla prospettiva dal “premio” che l’amico ci sta promettendo.

Il mondo della finanza funziona in modo non molto diverso.
Gli Stati emettono titoli del debito pubblico per finanziarsi, pagando ovviamente degli interessi agli investitori.
Se l’emittente si chiama Germania, con affidabilità quasi assoluta, il tasso d’interesse sarà molto basso dal momento che i titoli saranno sicuramente sottoscritti. Se invece l’emittente è un altro Stato, con affidabilità inferiore a quella tedesca, per convincere gl’investitori a sopportare il maggior rischio dovrà “premiarli” pagando loro un tasso più alto.
Normalmente peggiore sarà il rating (cioè “il voto” all’affidabilità dell’emittente), più alto sarà il tasso da pagare agli investitori.
La differenza di tasso che una nazione paga rispetto alla Germania è il cosidetto spread, e rappresenta il “premio” per ripagare il maggior rischio rispetto al Paese più affidabile.

Come fa ad aumentare o diminuire lo spread?
Si è parlato spesso di complotti, di poteri forti, di oscure manovre… la verità è molto più semplice.
In estrema sintesi: chi investe in titoli di stato lo fa con lo scopo di guadagnare, o al limite di minimizzare le perdite se le cose vanno male. Questo vale per il piccolo investitore, e vale a maggior ragione per gli Investitori Istituzionali
Se un grande investitore ha acquistato titoli di uno Stato che, per un motivo o per un altro, smette di ispirargli fiducia, cercherà di sbarazzarsene appena possibile. Anzi, cercherà di farlo prima degli altri.
Quando si diffonde il sentore che le condizioni economiche di uno Stato possano peggiorare, parte un’ondata di vendite sui titoli di quello Stato. Ovviamente, se ci sono tanti venditori avranno un solo modo per liberarsi di quello che ritengono un prodotto avariato: ridurre il prezzo.
Perché qualcuno dovrebbe acquistare questi titoli?
Perché acquistandoli con lo “sconto”, nel caso in cui l’operazione andasse a buon fine e si concludesse con il regolare rimborso, avrebbe ottenuto un buon guadagno, tale da giustificare il maggior rischio.
Ecco come il rendimento di quei titoli cresce, costringendo l’emittente ad adeguarsi ed alzare i tassi delle successive emissioni per non ritrovarsi a vendere titoli che nessuno vuole.

Possiamo quindi passare ad esaminare il grafico pubblicato riportato all’inizio.
L’asse X riporta le classi di rating. L’asse Y il tasso sui titoli di stato pagato dai Paesi dell’Eurozona.
Viene tracciata una linea mediana tra i vari tassi che dimostra che, come sarebbe lecito aspettarsi, ciò che paga ogni singolo Stato è sostanzialmente coerente con la sua classe di rating.
Un solo valore risulta totalmente fuori scala: quello dell’Italia.

In sintesi: o stiamo pagando un tasso troppo alto, o abbiamo un rating troppo generoso.
Perché sta succedendo questo?

Nei soli mesi di maggio e giugno la quantità di titoli di Stato italiano in mano ad investitori stranieri è diminuita di 72 miliardi; nel corso dell’estate l’ondata di vendite si è rafforzata.
Evidentemente i mercati hanno la sensazione che le prospettive per il nostro Paese siano decisamente fosche. Questo non dipende dall’andamento attuale della nostra economia (il PIL 2018 sarà comunque in crescita) quanto dalle incertezze legate ai programmi ed alle divisioni del nuovo Governo.
I mercati ritengono possibile il “rischio Grecia” per l’Italia.

 

COSA POTREBBE SUCCEDERE?

L’anomalo disallineamento tra tassi pagati e rating dell’Italia è ovviamente sotto la lente d’ingrandimento delle Agenzie di rating. Tutte stanno aspettando l’autunno e la legge di bilancio per vedere quali provvedimenti saranno adottati dal Governo.
Se la manovra si rivelerà convincente, lo spread scenderà e l’attuale rating sarà confermato; in caso contrario ci aspetta un declassamento che, come vedremo, può avere conseguenze disastrose.
Intanto, in attesa delle mosse del Governo, quasi tutte le Agenzie ci hanno assegnato un outlook (cioè la previsione a medio-lungo termine) negativo.
In sintesi: siamo valutati BBB con tendenza al peggioramento.

Perché sarebbe tanto devastante un declassamento del nostro rating?
Come detto, il valore BBB rappresenta una soglia minima per considerare un titolo meritevole di essere acquistato.
Se la valutazione dell’emittente scende a BB, tutte le sue emissioni diventano junk bonds (titoli spazzatura),  cioè titoli ad alto rendimento ma con forti rischi per l’investitore.

Non possono detenere junk bonds i fondi pensione o i fondi d’investimento a basso rischio, quindi un’eventuale declassamento a BB dei titoli di stato Italiani comporterebbe l’immediata vendita di un’enorme quantitativo degli stessi, con conseguente forte aumento dei tassi d’interesse.
Non dimentichiamoci che gli interessi che lo Stato paga sono comunque soldi da tirare fuori: soldi da reperire con maggiori tasse, o tagliando i servizi ai cittadini.

Ma non sarebbe questa la conseguenza peggiore.

 

Come si finanziano le banche?

Per prestare soldi alle aziende o alle famiglie che ne fanno richiesta, le banche attingono prima di tutto alle somme depositate dai clienti, rispettando una serie di limiti che la normativa impone loro. Ma questo non basta.
Per avere ulteriore liquidità si rivolgono allora alla BCE, che fornisce le somma richieste chiedendo che le anticipazioni vengano garantite da titoli di stato.

E qui sta il vero guaio: la BCE non può accettare come garanzia titoli con rating BB o inferiore.
Per farla breve: se il rating dei nostri titoli di Stato scendesse a livello di junk bond, le banche italiane sarebbero nell’impossibilità di finanziarsi. A quel punto dovrebbero tagliare improvvisamente le linee di credito alle imprese, con effetti terribili sull’economia del Paese, o dovrebbe finanziarsi chiedendo soldi alla linea di emergenza della BCE (Emergency Liquidity Assistance).
Fare cioè quello che è stata costretta a fare la Grecia.

Sappiamo cos’è successo in quel Paese: in cambio dei finanziamenti concessi agli Ellenici, la BCE ha imposto sacrifici durissimi per essere sicura che i prestiti fossero restituiti.
In otto anni ci sono stati tagli drastici all’occupazione, stipendi decurtati in modo drammatico, pensioni ridotte anche al disotto della soglia di sussistenza.

Come si scongiura tutto questo?
Presentando una legge di bilancio seria e ben fatta, che convinca l’Unione Europea e soprattutto i mercati sull’affidabilità del nostro Governo. In quel caso invece di peggiorare il rating sarebbe lo spread a tornare su livelli più bassi.

Questo è lo scenario. A questo punto dobbiamo porci qualche domanda.

Possiamo davvero pensare ad una manovra finanziaria che contenga da un lato una serie di aumenti di spesa (revisione legge Fornero, reddito di cittadinanza) e dall’altra una riduzione delle entrate (flat tax, sterilizzazione dell’aumento IVA)?
Possiamo permetterci una manovra in linea con le premesse elettorali di chi è attualmente al governo?

Tra tanti dubbi, c’è una sola certezza: volendo scegliere un momento per sfidare l’Europa, minacciando di non versare più le quote di nostra competenza o preannunciando lo sforamento dei limiti di deficit previsti dagli accordi vigenti, non se ne poteva scegliere uno più sbagliato di questo.

 

 

 

 

 

 




CGIL Abruzzo: urgente la messa in sicurezza delle autostrade A24 e A25

Occorre che le Istituzioni rendano immediatamente disponibili le risorse per ultimare gli urgenti lavori che riguardano ponti, viadotti, gallerie, per centinaia di chilometri compresi nei collegamenti delle due fondamentali arterie autostradali

La tragedia del Ponte Morandi a Genova ha determinato un comprensibile allarme anche in Abruzzo, al punto che con cadenza ormai quotidiana si susseguono prese di posizione e denunce di amministratori, associazioni, semplici cittadini e più in generale portatori di interesse che manifestano legittime preoccupazioni sulla condizione di estrema precarietà in cui versa il sistema infrastrutturale regionale con particolare riguardo alle due Autostrade A24 e A25 ovvero le due fondamentali arterie che collegano la costa adriatica a quella tirrenica.

«I VIADOTTI NON SONO ANTISISMICI» – E non ha sicuramente stemperato inquietudini e apprensioni dei cittadini/utenti l’aver appreso direttamente dal vicepresidente di Strada dei Parchi che le due autostrade A24 e A25 non sono antisismiche. Gli interventi effettuati di antiscalinamento, infatti, riguardano un primo lotto di lavori per la messa in sicurezza, a cui deve seguire peraltro un secondo lotto di lavori altrettanto urgente.

Occorre pertanto rompere incertezze ed indugi, riducendo i tempi burocratici ministeriali necessari a sbloccare le risorse, previste per l’anno 2022, ma che potrebbero essere anticipate dalle Regioni Abruzzo e Lazio attraverso l’utilizzo dei fondi Masterplan, proprio per le particolari ed urgenti criticità che affliggono le due arterie autostradali.
Qualora il Ministero pensi a soluzioni diverse lo chiarisca e dica con tempestività e chiarezza con quali risorse, modalità e tempi intende procedere alla messa in sicurezza delle nostre strade.

CORRETTEZZA NELLE RELAZIONI SINDACALI, APPLICAZIONE DEI CONTRATTI DI LAVORO E RISPETTO DEI DIRITTI DEI LAVORATORI DA STRADA DEI PARCHI E DA TOTO COSTRUZIONI – La Cgil Abruzzo, unitamente alle due categorie che organizzano i lavoratori delle costruzioni e dei trasporti (Fillea e Filt), ritengono che occorra stabilire una priorità rispetto al rapporto che la società Strada dei Parchi e Toto costruzioni ha con i propri lavoratori. Chiediamo che si faccia un accordo sulle tipologie dei lavori, inserendole nella perimetrazione dei contratti che sono i seguenti:
1) autostrade e viabilità;
2) edilizia;
3) servizi.
Chiediamo quindi una scelta politica ed etica che rispetti i diritti dei lavoratori definiti contrattualmente, si smetta di praticare metodi per ridurre il costo del lavoro, i quali sfruttano e impoveriscono i lavoratori e
rendono meno sicura l’infrastruttura stessa.

 IL “CICLO DEL CEMENTO” HA UNA VITA MEDIA DI SETTANT’ANNI – Ricordiamo che le infrastrutture viarie in Italia sono state costruite essenzialmente nell’immediato dopoguerra, mentre l’A24 e l’A25 ” (attualmente “Strada dei Parchi”) sono state iniziate nel 1960 ed aperte nel 1969. Con le loro 54 gallerie, 147 viadotti e 6 ponti, queste due vitali autostrade hanno posto fine all’isolamento a cui l’Abruzzo era relegato poiché l’Appennino fungeva da barriera naturale fra le due regioni Abruzzo e Lazio.
Ora a distanza di cinquant’anni questi due tracciati iniziano a dover fare i conti con il tempo e con l’usura dei materiali con i quali sono stati realizzati. Si consideri che il cosiddetto “ciclo del cemento”, ha una vita media di settant’anni poiché detto materiale subisce ammaloramenti, particolarmente accentuati in presenza di sbalzi termici ed intemperie, ovvero quei fenomeni e quel clima tipico dei luoghi montani. Occorre quindi già da adesso, prevedere i lavori necessari affinché i tanti viadotti ponti e gallerie siano continuamente manutentati e tenuti in sicurezza al fine di consentire la regolare transitabilità.

PEDAGGI, MANUTENZIONE, SICUREZZA E LA MANCANZA DI UNA VERA ALTERNATIVA – Rispetto al dibattito politico che si è aperto in conseguenza della tragedia di Genova, già citata in premessa, torniamo a sottolineare la necessità di una riflessione sui modelli di gestione delle reti viarie autostradali le quali ognuna ha la propria storia e peculiarità.
Le due autostrade A24 e A25 sono tracciati che non presentano un’alta incidenza di traffico e di utenza, ma non per questo sono giustificabili costi dei pedaggi che sono particolarmente elevati.

Quanto sopra pone la necessità di una riflessione collettiva sul modello di gestione che debba contemperare l’esigenza di contenere i pedaggi, la costanza delle manutenzioni, gli ammodernamenti, la sicurezza della rete viaria, la convivenza con un territorio altamente sismico e, non da ultimo, la consapevolezza che tale infrastruttura sarà di fatto l’unico collegamento fra l’Abruzzo e la Capitale, fino a quando non verrà garantito una vera alternativa ferroviaria per quanto attiene i tempi di percorrenza.

 

CGIL Regionale – Sandro Del Fattore

FILLEA CGIL Regionale – Silvio Amicucci

FILT CGIL Regionale – Franco Rolandi

 

Fonte: CGIL Abruzzo




Oltre 1,5 milioni di lavoratori in nero nel 2017. Per lo Stato un danno di 20 miliardi.

L’elaborazione della Fondazione Consulenti del Lavoro sui dati dell’ispettorato. Il calo rispetto agli ultimi due anni. Due aziende su tre tra quelle controllate presentano irregolarità.

Oltre un milione e mezzo di persone in Italia lavora “in nero”. È quanto emerge dall’elaborazione della Fondazione Consulenti del Lavoro sui dati del primo anno di attività dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
I lavoratori irregolari in Italia sul totale delle aziende attive “nel 2017 sono un milione 538 mila”, anche se in calo – si spiega – “negli ultimi due anni (2016 e 2015), di circa 200.000 unità”.
Il nero, oltre ai lavoratori stessi, fa male anche alle casse previdenziali. Gli occupati in maniera irregolare causano infatti un mancato gettito allo Stato “stimato in 20 miliardi e 60 milioni di euro”. 

I DATI

Lo scorso anno “sono state 160.347” le aziende verificate dall’Ispettorato, e quelle che presentavano forme di irregolarità riguardanti almeno un occupato “sono state 103.498”, ossia “il 64,54% del totale di quelle controllate”.
Le irregolarità, ricordano i consulenti nel dossier, possono riguardare “forme di elusione previdenziale, assicurativa e fiscale (come il mancato assoggettamento a Inps, Inail e Irpef di parte della retribuzione corrisposta), il lavoro parzialmente ‘sommerso’ (ad esempio, rapporti in part-time che, invece, risultano a tempo pieno)” ed il lavoro completamente in ‘nero’. Nel 2017, si legge, l’Ispettorato ha raggiunto alcuni obiettivi, applicando le nuove, più pesanti sanzioni in materia di caporalato nel settore agricolo: si registrano, infatti, il deferimento di 94 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali 31 in stato di arresto, e l’individuazione di 387 lavoratori vittime di sfruttamento.

Il 2018 presenta, poi, dei dati relativi ancor più incoraggianti: nel primo semestre dell’anno in corso si rileva il deferimento di 60 persone all’Autorità Giudiziaria, delle quali una in stato di arresto e 47 in stato di libertà, e l’individuazione di 396 lavoratori coinvolti, mentre sono stati adottati 9 provvedimenti di sequestro. Le cifre, si sottolinea nello studio, “riportano l’attenzione sull’importanza strategica di un’incisiva azione di contrasto al lavoro ‘nero’ che, non di rado, sfocia in fenomeni di caporalato diffuso, non solo in agricoltura”. Il ‘sommerso’, dice il presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro Rosario De Luca, è “in forte aumento soprattutto dopo la depenalizzazione, avvenuta col ‘Jobs act’, del reato di intermediazione fraudolenta di manodopera”.

 

Fonte: La Repubblica.it




Migranti, la condanna della CGIL: con la nave Diciotti superato ogni limite

Con la vicenda della nave Diciotti si è superato ogni limite!

Il comportamento del governo non solo è deplorevole ma irresponsabile. Non si può accettare che delle istituzioni continuino ad avere un atteggiamento superficiale e disumano nei confronti dei più deboli.

L’ostinazione a non far attraccare una nave della Guardia costiera, prima, per poi non far sbarcare le persone sulla Diciotti è una palese violazione del codice penale oltre che della Carta costituzionale. Riteniamo l’inchiesta aperta dalla procura di Agrigento, che ipotizza anche il reato di sequestro di persona, un messaggio chiaro: la politica sarà pure legittimata a prendere decisioni e assumere provvedimenti, ma non può contravvenire a quanto previsto nella nostra Costituzione.

Per fortuna osserviamo una differenza di comportamento fra la Guardia costiera e il governo. Chi per vocazione è portato a salvare vite umane, nello spirito del proprio mandato, può e deve dare lezioni a chi ha perso la bussola su ciò che sia giusto e lecito.

In queste ore siamo in presidio a Catania e continueremo a mobilitarci per difendere la democrazia, la libertà e i diritti umani.

Roma 23 agosto 2018

 

ANPI          ARCI          Articolo 21           CGIL           Legambiente          Libera




Voucher, l’Italia non vuole privarsi dei super precari

La nuova liberalizzazione tocca agricoltura e turismo, settori a scarsa produttività che vivono risparmiando sul costo del lavoro

Sembra risolversi in un eufemismo il decreto Dignità con l’ipotesi, sempre più realistica, di una nuova liberalizzazione dei voucher rispetto al regime attuale, introdotto poco più di un anno fa dal governo Gentiloni. I voucher, o buoni lavoro, erano stati oggetto di un vero e proprio scontro politico tra i governi delle larghe intese, da quello Monti fino a quello Gentiloni, e l’opinione pubblica e una parte dei sindacati, confederali e non. A oggi, l’ipotesi in discussione è quella di estendere i buoni lavoro al settore agricolo e a quello turistico alberghiero, mentre sembra meno probabile la loro reintroduzione anche per gli enti locali.

Il dibattito a cui si assiste in questi giorni ignora scientemente tutti gli argomenti e le analisi portate avanti fino al 2017, rispolverando la sempiterna idea per cui a maggiore flessibilità si accompagna un aumento occupazionale, come sottolinea Coldiretti che parla di un potenziale aumento di 30.000 rapporti di lavoro solo nel mese di agosto. Stesso discorso per gli attacchi all’introduzione delle causali per i contratti a termine oltre i dodici mesi prevista del decreto. Una idea superata dai fatti e dalla ricerca scientifica, ma difficile da scalfire nell’egemonia neoliberista che governa i processi politici degli ultimi decenni. Il tema elude non a caso ogni argomento in merito alla qualità di questi rapporti: durata, diritti, libertà, ma soprattutto sovrappone in modo errato il concetto di rapporto di lavoro con quello di nuova occupazione.

Rimanendo al tema dei voucher, ripercorrendone la storia, è utile ribadire che l’esplosione dei buoni lavoro tra il 2012 e l’ultimo trimestre del 2016 fu rallentata in modo consistente non tanto dalla loro fittizia abolizione, bensì dall’introduzione della tracciabilità per i datori di lavoro. Un riduzione intensificatasi a partire da giugno 2017 con l’abolizione degli originari voucher e l’introduzione dei contratti PrestO. L’occupazione non si è contratta da allora, ha mutato forme contrattuali: dai voucher al lavoro intermittente (o a chiamata), che torna ad aumentare a tassi elevati. Sarebbe interessante chiedersi e indagare se e quanto i nuovi strumenti telematici non abbiano raggiunto una diffusione proporzionalmente coerente con i livelli precedenti a causa dei limiti imposti o a causa della scarsa capacità dei datori di lavoro di adeguarsi agli strumenti telematici. Acquistare un voucher al tabacchi risultava operazione a portata di tutti contrariamente alla registrazione attraverso il portale dell’Inps che richiede quelle minime capacità digitali non ancora universali in Italia. Quanto ai dati, il tasso di crescita dell’ultimo trimestre 2016 sullo stesso periodo del 2015 è del 38%, mentre nel complesso del 2017 rispetto al 2016 il lavoro a chiamata aumenta del 120%. Non si tratta di stabilizzazioni ma di contratti brevi, a forte contenuto precario.

L’utilità dei voucher come unico strumento per regolarizzare rapporti di lavoro brevi è presto smentita dai dati sulla durata dei contratti a termine (il 78% dura meno di 365 giorni) e soprattutto quelli a termine in somministrazione (di cui il 99% ha una durata inferiore all’anno). Contratti sui quali non interviene in alcun modo la seppur lieve stretta sui rapporti a tempo determinato prevista dal decreto Dignità. Essa infatti si applica, se approvata, ai contratti oltre i dodici mesi, che sono una minoranza, non agendo in nessun modo sul vasto mondo del lavoro frammentato.

L’estensione dei voucher non farebbe che aumentare l’estrema precarietà del lavoro più vulnerabile, privandolo di quei diritti fondamentali previsti dalla Costituzione ma in fondo anche dal buon senso in una società pervasa sempre più aggressivamente da elevati livelli di povertà tra i lavoratori. La povertà nel lavoro è allo stesso tempo l’anticamera del disagio economico a fine carriera quando dovranno essere contati i contributi versati dai lavoratori in vista della pensione. A conti fatti, a prescindere dai voucher, le aziende hanno a disposizione una molteplicità di strumenti per perseverare nell’uso del lavoro discontinuo e a basso costo, potendo al contempo far leva sulla rotazione e la ricattabilità dei lavoratori. Questo aspetto ormai caratterizza la nostra economia e non si vede un’inversione di rotta di cui invece ci sarebbe un gran bisogno. Il costo del lavoro, fin troppo basso per molte forme contrattuali, a partire dai livelli salariali, deve essere considerato un freno alla crescita e non viceversa, rompendo definitivamente il solco ideologico attorno al quale si sono saldate sia la politica italiana sia buona parte delle istituzioni del lavoro.

Resta poi un ulteriore problema. La terziarizzazione a scarsa produttività verso cui è virata l’economia italiana, che vede tra i settori in maggiore espansione quello turistico-alberghiero e ristorativo: dal punto di vista sistemico questa dinamica non produrrà effetti solidi nel medio e lungo periodo. C’è da chiedersi se almeno la crescita contingente non debba essere distribuita equamente tra aziende e lavoratori, e allo stesso tempo se sia possibile avallare un sistema aziendale incapace di remunerare adeguatamente il suo maggiore fattore di produzione, il lavoro appunto. Relativamente all’agricoltura invece, dove sempre più spesso caporalato e schiavitù appaiono i tratti salienti delle relazioni industriali, l’estensione dei voucher appare un compromesso al ribasso che volta le spalle alle questioni fondamentali che caratterizzano questo ramo dell’economia e in cui i vinti e gli sfruttati continueranno a riempire le file della disperazione sociale a cui il paese risponde quotidianamente con atti di violenza tra gli ultimi.

 

Articolo di Marta Fana pubblicato sul Fatto Quotidiano del 1/8/2018

 

 

https://www.fisaccgilaq.it/fisac/novoucher-firma-la-petizione.html

 




La triste storia dell’uomo licenziato dal computer

In un’azienda Usa un computer licenzia un dipendente, per un errore, senza che nessuno riesca a interrompere la catena di eventi che in poche ore lo vede scortato fuori dall’edificio dagli agenti della sicurezza. Storie del XXI secolo, di quando i lavoratori sono “risorse”, accidentalmente umane.

Il protagonista di questa storia, Ibrahim Diallo, è probabilmente il primo lavoratore della storia a essere licenziato da un computer. La sua disavventura, raccontata in un blog, comincia alle 7 di una mattina qualsiasi di qualche mese fa, quando Ibrahim scopre che il suo badge non apre più la porta dell’ufficio. Convinto che si tratti di un guasto, si fa aprire dal custode, va alla sua scrivania e accende il computer – solo per scoprire che le sue password sono state disabilitate. Il computer gli nega l’accesso a tutti i sistemi aziendali.

Il suo manager, appena arrivato, gli comunica di aver ricevuto una mail dal dipartimento Risorse Umane in cui lo si informa che il suo contratto risulta scaduto: si attiverà subito per capire che cosa sia successo, gli assicura.

PRENDI LE TUE COSE… Il tempo passa e il peggio arriva subito dopo la pausa pranzo, quando due addetti alla sicurezza si presentano alla scrivania di Ibrahim con l’ordine, ricevuto via mail, di accompagnarlo fuori dall’edificio. Ormai era chiaro: Ibrahim era stato licenziato e nessuno, nemmeno i top manager dell’azienda, era riuscito a disinnescare un processo automatico che, mail dopo mail, lo aveva costretto a svuotare i cassetti e lasciare l’ufficio.

ERRORE UMANO. Che cosa era successo? Un incidente banale: l’ex capo di Ibrahim, prima di andare in pensione, si era scordato di caricare nel sistema informatico il rinnovo del suo contratto. Così, alla scadenza, il solerte computer aziendale che governa invisibile la vita dei dipendenti, un bel mattino ha avviato le procedure per trasformare Ibrahim in un ex dipendente – e in una grande o grandissima azienda dove le persone che lavorano in uffici o reparti diversi spesso neppure si conoscono, nessuno è riuscito a bloccare il processo.

NON TORNO PIÙ. A Diallo lo scherzo del computer è costato 3 settimane da disoccupato: tanto ci è voluto ai programmatori perché riuscissero a farlo rientrare a tutti gli effetti nel suo ruolo. Ma poi Ibrahim ha deciso comunque di cogliere l’occasione al volo e cambiare lavoro. «Questa storia deve far ripensare al rapporto tra uomini e macchine», afferma Dave Coplin, esperto di sistemi di intelligenza artificiale.

L’AI CI SALVERÀ DAI COMPUTER? In effetti, forse una AI avrebbe potuto evitare a Diallo questa esperienza: sistemi basati sull’analisi dei dati avrebbero potuto segnalare una possibile anomalia su di un licenziamento che non era basato né su motivi disciplinari, né su basse prestazioni, e avrebbe potuto bloccare il processo in attesa di conferma o ulteriori istruzioni. Il punto di forza dei sistemi di AI è quello di riuscire a identificare schemi ricorrenti all’interno di grandi quantità di informazioni, come sono per esempio le motivazioni che portano all’allontanamento forzato di qualcuno dal proprio posto di lavoro.

E poi c’è il lato umano della vicenda: ciò che colpisce di più in questa storia è la completa automazione dell’intero processo e l’impossibilità per chiunque di riuscire ad interromperlo. Un po’ come accade ai protagonisti del cult di fantascienza 2001 – Odissea nello spazio alle prese con HAL 9000, il computer che li vuole uccidere per non essere spento. Ma quello era solo un film.

 

Fonte: www.focus.it




Soumayla Sacko era pericoloso perché sapeva di essere uno schiavo

Una fucilata alla testa. Così è stato ammazzato, trucidato, eliminato Soumayla Sacko, 29 anni, originario del Mali e sindacalista dell’Usb.

Soumayla non si rassegnava. Combatteva, lottava per la dignità dei braccianti della piana di Gioa Tauro e in particolare di San Ferdinando. Solo e sempre schiavi, pochi euro per dodici ore di lavoro, baracche, stenti, sofferenza e abusi. L’arroganza dei caporali, il controllo delle milizie e poi loro: i padroni ndranghetisti delle terre.

Soumayla Sacko come Placido Rizzotto e Pio La Torre. Un gigante, schiena dritta – senza se e senza ma – e lotta per i diritti. Restiamo umani.

E’ stato un agguato. Solo mafiosi infami e vigliacchi potevano compiere un atto di così vasta crudeltà. Neppure il coraggio di mostrarsi, affrontarlo. Niente. Ucciso a tradimento.

Avevano il terrore di incrociare quello sguardo. Occhi iniettati di sangue e quella rabbia antica. Soumayla Sacko era nel mirino. Lo aspettavano davanti a quella maledetta fabbrica abbandonata.

Quattro colpi esplosi contro tre inermi. Quel sindacalista di merda bisognava eliminarlo. Sempre e solo dalla parte degli ultimi. Rompeva il cazzo. Il fiato sul collo. Eccepiva, chiedeva e rilanciava: Soumayla Sacko lottava a denti stretti, era pericoloso. Sì, perché gli schiavi sono schiavi e non devono sapere di essere schiavi.

E Soumayla Sacko era instancabile e non si fermava. Era regolare, aveva un permesso di soggiorno, le carte erano a posto. In Italia da otto anni e sempre quel grande senso di giustizia tatuato nell’anima. Soumayla Sacko è Kunta Kinte del romanzo Radici.

Un sindacalista vero, un eroe, un giusto. Mentre si consumava – sabato sera – l’abominevole tragedia, immediatamente a tavolino veniva costruita l’infame menzogna: Soumayla Sacko con due complici stava rubando e chi ha sparato l’ha fatto legittimamente.

E mentre s’infiammava la protesta nei campi di San Ferdinando con lo sciopero dei braccianti e la rabbia di Aboubakar Soumahoro, dirigente nazionale dell’Usb, e una storia personale di resistenza cominciata a Napoli, nessun rappresentante del governo fasciopentaleghista si è sentito in dovere d’intervenire. Equilibri, mediazioni e ipocrisia a chili.

Il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, era impegnato a difendere la dignità di altri lavoratori, i rider perchè : “Simbolo di una generazione senza tutele”. Stranamente, il loquace leader del Movimento 5 Stelle, suoi accolti e codazzo, su Soumayla Sacko non hanno trovato il tempo né di twittare, né di postare, neppure di un video, un hashtag, una dichiarazione di maniera, una nota. Nulla. Il silenzio assoluto.

Forse nel contratto non c’è scritto di dare la solidarietà ai neri oppure la ragion d’equilibrio di Stato con lo scomodo e ingombrante alleato consiglia di girare la faccia d’altra parte. E solo ieri il premier Giuseppe Conte nel suo discorso alle Camere ha dedicato un paio di frasi al giovane sindacalista rivolgendo il suo pensiero ai familiari. Alla fine il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha ragione da vendere. E’ finita davvero la “pacchia” illusoria: una buona parte di italiani, finalmente liberi, si vedranno così come sono sempre stati allo specchio, scoprendo che in fondo restano solo dei fascisti.

 

Articolo di Arnaldo Capezzuto pubblicato su www.ilfattoquotidiano.it




Mobbing e violenza psicologica sul posto di lavoro

Sempre più spesso sentiamo parlare di mobbing sui posti di lavoro. Non sempre, tuttavia, siamo in grado di capire se comportamenti ai quali siamo abituati ad assistere possano invece rappresentare abusi tali da compromettere la nostra serenità e minare la nostra salute.

Alla fine dell’articolo pubblichiamo il link alla relazione scritta a 4 mani dalla Professoressa Emilia Costa, psicoterapeuta e docente universitaria, e dall’allora praticante avvocato Massimiliano Costa in occasione di un convegno sul tema.
La relazione è un po’ datata, essendo stata scritta nel 2003, ma i temi trattati e le informazioni riportate sono assolutamente attuali.

I relatori partono dal rapido sviluppo scientifico e tecnologico degli ultimi 50 anni, osservando come gli essere umani non siano state altrettanto rapide ad adeguarsi ai continui cambiamenti. Per questo motivo oggi i lavoratori sono spesso insoddisfatti, aggressivi ed ostili.
In un simile contesto soprusi e prevaricazioni finiscono per diventare non solo comprensibili ma vengono in un certo senso ritenuti legittimi, in ambienti lavorativi caratterizzati spesso da ambizioni sfrenate.
Laddove l’aspirazione alla crescita professionale non sia supportata da adeguate capacità la carriera diventa carrierismo, la sana competitività viene distorta nel tentativo di impedire con ogni mezzo la crescita di quelli che vengono visti come rivali; le energie vengono allora rivolte alla distruzione invece che alla creatività ed alla crescita dell’impresa.

Il mobbing viene presentato come una malattia creata dalla società attuale. Una malattia che, attraverso la degradazione professionale del lavoratore, può arrecare gravi danni a lui come persona ed all’intero tessuto sociale.
Significativa in tal senso è l’origine della parola Mobbing. Il termine deriva da quello inglese “to mob”, che vuol dire aggredire, accerchiare, assalire in massa, malmenare. E’ stato usato per la prima volta da Konrad Lorenz proprio per descrivere il comportamento di alcuni animali che si coalizzano contro un membro del gruppo, lo attaccano, lo isolano, lo escludono dal gruppo, lo malmenano fino a portarlo anche alla morte.

E’ interessante infine rilevare come le aziende del nostro settore, banche ed assicurazioni, vengano viste dai relatori come particolarmente idonee alla nascita di comportamenti discriminatori.
Il nostro lavoro è infatti caratterizzato dalla continua ricerca di un difficile equilibrio tra pressioni commerciali e rispetto delle regole, rendendo i lavoratori particolarmente esposti ad errori, e comunque facilmente attaccabili.

LE FASI DEL MOBBING

Tra i primi a studiare in modo sistematico il fenomeno del mobbing ci sono due psicologi, lo svedese Heinz Leymann ed il tedesco Harald Ege, che cominciarono ad occuparsene a partire dal 1984.

A loro si deve l’individuazione delle fasi che caratterizzano il mobbing:

  1. Conflitto mirato.
    La vittima viene individuata.
    Il conflitto generalizzato si dirige verso di essa con l’obiettivo di distruggerla.
    Il conflitto si allarga dall’ambito lavorativo alla “sfera privata”.
  2. Inizio del Mobbing vero e proprio
    La vittima avverte disagio.
    Le relazioni con i colleghi diventano più difficili.
    Il mobbizzato subisce demansionamenti o trasferimenti.
    La vittima comincia a porsi domande sul cambiamento.
  3. Primi sintomi psicosomatici
    Il soggetto avverte l’isolamento, comincia a non dormire la notte, ha problemi digestivi, ha difficoltà a recarsi sul posto di lavoro, si sente insicuro.
    L’idea del lavoro diventa prevalente ed ossessiva.
    Si manifestano i primi sintomi della depressione: senso di spossatezza, demotivazione, sensi di colpa per non saper migliorare la situazione.
  4. Errori ed abusi dell’Amministrazione del personale
    La vittima comincia ad assentarsi per malattia, dando il pretesto ai superiori per prenderlo di mira.
    La vittima avverte un senso di minaccia incombente, che peggiorerà il suo malessere.
    Aumentano le assenze dal lavoro.
  5. Aggravamento della salute psicofisica della vittima
    Il soggetto entra in grave depressione presentando certificazioni che attestino il suo stato.
    L’azienda non vuole riconoscere il malessere, aggravando la posizione del mobbizzato.
    La vittima si sente sempre più perseguitata, sente di non poter più affrontare la situazione.
    Si sviluppa un “Disturbo postraumatico da stress” caratterizzato da paura intensa, pensieri di morte, compromissione dei rapporti sociali.
    Possono svilupparsi anche malattie fisiche quali asma bronchiale, ulcere, vertigini, cefalee, disturbi alimentari o della sfera sessuale, riduzione delle difese immunitarie.
  6. Esclusione dal mondo del lavoro.
    Dimissioni volontarie, licenziamento, prepensionamento.
    Nei casi più gravi suicidio o morte a seguito di malattia.

Secondo Leymann si può parlare di mobbing solo se questo processo si verifica in modo costante e sistematico per almeno sei mesi, e se le azioni vengono messe in atto tenendo conto della personalità e dei punti deboli della vittima in modo da massimizzarne i disagi.
Tra i comportamenti che possono rappresentare forme di mobbing possono rientrare i seguenti:

  • sparizione o rottura improvvisa senza sostituzione di strumenti di lavoro come telefoni, computer, lampadine ecc…
  • litigi sempre più frequenti con i colleghi
  • la conversazione si interrompe non appena la vittima entra in una stanza
  • il mobbizzato viene escluso da notizie ed informazioni utili per il suo lavoro
  • vengono diffusi pettegolezzi infondati sul conto della vittima
  • affidamento improvviso di incarichi inferiori alla propria qualifica o del tutto estranei alle proprie pompetenze
  • controllo sempre più stringente su orari d’entrata ed uscita, pause caffè, telefonate ecc…
  • rimproveri eccessivi per piccole mancanze
  • nessuna risposta alle richieste scritte o orali
  • provocazione da parte dei superiori per spingere il mobbizzato a reazioni incontrollate
  • mancati inviti a feste aziendali o attività sociali
  • continue prese in giro per l’aspetto fisico o l’abbigliamento
  • le proposte del mobbizzato vengono sistematicamente ignorate
  • retribuzione inferiore rispetto ad altri colleghi che svolgono incarichi meno importanti.
  • e così via per innumerevoli azioni assimilabili

Secondo lo psicologo psicologo tedesco Ege, le cui ricerche si sono concentrare soprattutto sul nostro Paese,  in Italia il forte legame familiare espone i lavoratori al doppio mobbing, cioè quello che il mobbizzato può subire dalla sua famiglia che, se in un primo momento può essergli vicino, nel tempo finisce col colpevolizzarlo.

FATTORI SPECIFICI DEL MOBBING 

Il Mobbing può iniziare per diversi motivi:

  • Un dipendente o un dirigente non è in sintonia con le idee o con le scelte del capo, o con le idee e decisioni del gruppo dominante.
  • La persona rivendica diritti che non gli vengono riconosciuti perché quella carica è stata destinata ad altri.
  • Si entra in collisione col potente della situazione.
  • Ci sono molte persone con la stessa funzione che vorrebbero accedere al livello superiore.
  • Bisogna immettere personale per creare un nuovo servizio e nessuno vuole andare a lavorare con un certo direttore o trasferirsi.
  • Non si hanno sponsor o protettori.

In ognuno di questi casi può bastare un minimo segno di insofferenza o di ribellione da parte del lavoratore per mettere in moto il meccanismo che lo porterà ad essere mobbizzato.


TIPOLOGIE DEL MOBBING: BOSSING, MOBBING ORIZZONTALE, VERTICALE, TRASVERSALE

Quando il mobbing viene attuato dal diretto superiore si parla di bossing o mobbing verticale.
Il bossing si manifesta attraverso una precisa strategia volta ad estromettere il lavoratore da ogni possibilità di crescita professionale in modo da renderlo impotente, o allontanarlo dal posto di lavoro.
Si parla di mobbing verticale anche quando sono i sottoposti a coalizzarsi ed assumere comportamenti aggressivi nei confronti del superiore per difendere una serie di privilegi.

Il mobbing orizzontale è quello messo in atto dai colleghi di pari grado, in genere per impedire l’avanzamento di carriera della vittima.

Il mobbing trasversale si estende anche al di fuori dell’ambiente lavorativo potendo contare su persone vicine al mobber che contribuiscono ad isolare la vittima quando questa cerca appoggio, togliendogli il saluto e chiudendogli tutte le porte.

MOBBING STRATEGICO – MOBBING RELAZIONALE

Il mobbing strategico è una scelta che può essere deliberatamente adottata da alcune imprese come mezzo per la riduzione del personale, finalizzandolo all’allontanamento di dipendenti considerati non più utili perché provenienti da vecchie gestioni, o impiegati in reparti da dismettere, o da riqualificare, o ritenuti troppo costosi, o indesiderati perché d’intralcio alla carriera di chi è stato predestinato.

Il mobbing relazionale riguarda i rapporti interpersonali. E’ un modo di gestire il potere basato su “divide et impera”: mira quindi ad aizzare le persone l’una contro l’altra fomentando rivalità e gelosie e concentrandosi sui soggetti che si è deciso di estromettere dalla possibile crescita professionale, rifiutando di fornirgli informazioni chiare o mettendoli in condizione di sbagliare a causa di messaggi volutamente ambigui.


IL MOBBIZZATO

Non esiste ovviamente un’unica tipologia di persone che possono essere vittime di mobbing.

La vittima può essere una persona capace e creativa, che proprio per le sue qualità rischia di diventare un ostacolo rispetto a percorsi di carriera pre-determinati.
Oppure, al contrario, può trattarsi di persona con limitate capacità o con peculiarità che la facciano apparire “diversa”: caratteristiche fisiche, handicap, orientamenti politici o sessuali.
Si può finire vittime di mobbing perché si appare più deboli, in ambienti caratterizzati da competitività esasperata, o per assenza di appoggi. Ad essere attaccata può essere una donna, solo perché si trova ad operare in ambienti prevalentemente maschili.

Ciò che invece accomuna tutti i soggetti che subiscono mobbing è la loro sofferenza, il loro senso di inadeguatezza. Il mobbizzato viene privato di qualsiasi prospettiva, togliendogli ogni speranza di miglioramento futuro e condannandolo a rivivere all’infinito quel presente al quale vorrebbe sfuggire. Questo getta le premesse per cadere nella depressione che può limitarsi a manifestazioni con impatto limitato, pur rendendo pesante il vissuto quotidiano, o sfociare in patologie molto più gravi.

IL MOBBER

La personalità del mobber è spesso caratterizzata da forte narcisismo ed egocentrismo o tratti paranoici. Giustifica il male arrecato agli altri con la presunta superbia o incompetenza della vittima. Necessita di essere attorniato da persone che lui sente inferiori e che non gli pongono problemi o domande anche in presenza di comportamenti potenzialmente illeciti, che lo assecondano pedissequamente per confermare la sua convinzione  che a lui è permesso tutto, lui può tutto e tutto gli è dovuto.
Molte volte non si rende nemmeno conto delle conseguenze nefaste del suo operato anche sul piano  giuridico: civile, penale, amministrativo. Spesso poco creativo e conformista, arrogante, invidioso e geloso dei colleghi di lavoro, che utilizza e sfrutta a suo piacimento senza alcuno scrupolo. Solitamente di intelligenza media, raramente anche elevata. In tutti i casi il mobber non riesce a vedere mai l’altro come una persona, e non è in grado di accettare una relazione autentica, ma solo una parvenza di relazione  fondata sul potere,  sul dominio e sul condizionamento e controllo che schiaccia, umilia e degrada l’altro, e lo rende assolutamente dipendente e passivo, distorcendone le qualità personali, solo per il suo piacere ed il gusto di rovinarlo e distruggerlo.

CONSEGUENZE DEL MOBBING

Il mobbing  produce conseguenze sulla salute psicofisica, sulla professionalità e dignità del lavoratore e  sulla produttività e qualità del lavoro personale e dell’Ente di lavoro, sulla famiglia e sulle relazioni interpersonali del mobbizzato, rappresentate dal danno biologico e danno sociale.

Dalle violenze morali e dalle persecuzioni sul posto di lavoro possono derivare malattie organiche, psicosomatiche e psichiatriche di rilevanza medico legale, e nei casi più gravi  conseguenze letali come il suicidio, nella percentuale del 15% secondo studi condotti in Svezia , arrivando anche a causare nei casi più estremi tentativi di omicidio sui mobbizzati resistenti  o, per vendetta, sui mobber.

Il mobbizzato subisce inoltre conseguenze rilevanti di varia natura: perdita dei benefici derivanti dal normale rapporto di lavoro, perdita di opportunità anche al di fuori dell’ Azienda, perdita di prospettive di maggior guadagno o riduzione dei guadagni abitualmente conseguiti, perdita della progressione nella carriera, perdita delle consulenze relative ai rapporti di lavoro, perdita del posto di lavoro per prepensionamento, dimissioni provocate, licenziamento, pensionamento.

Il danno da mobbing finisce col riguardare non solo la persona che lo subisce ma anche la famiglia della vittima, l’Azienda in cui viene attuato e l’intera comunità sociale.

Lo Stato subisce danni economici dovuti all’indennità da malattia, agli eventuali indennizzi ed ai prepensionamenti. L’Azienda, e l’intera comunità sociale, vengono privati di soggetti capaci e quindi della possibilità di beneficiare di un lavoro svolto in modo qualitativamente e quantitativamente migliore.

RICONOSCIMENTO GIURIDICO DEL DANNO DA MOBBING

Il Mobbing può essere causa di almeno quattro tipi di danno: biologico, patrimoniale, morale, esistenziale.

Andrebbe anche considerato il danno sociale alla famiglia, all’Azienda ed alla intera società in termini di economia e cultura.

Il danno biologico o danno alla salute comprende il danno psichico dovuto alla perdita di opportunità lavorative, la maggior fatica nell’espletamento del proprio lavoro e per mantenere inalterato il reddito, l’usura psichica, i danni alla vita di relazione.
Il danno patrimoniale è costituito dalle conseguenze economiche dovute alle discriminazioni subite, che possono portare ad una diminuzione del patrimonio del danneggiato e ad un ridimensionamento del suo tenore di vita.
il danno morale è costituito dal disagio, dal dolore, dalla sofferenza che il mobbing possono causare e che, quando sfociano in depressione o altri disturbi, finiscono col compromettere anche le relazioni sociali ed affettive.
Il danno esistenziale è rappresentato dal peggioramento oggettivo delle condizioni di vita della persona e della sua famiglia, venendo meno il diritto di vivere la propria vita senza disagi e con la piena facoltà di disporre del proprio tempo e delle proprie energie.

Dal punto di vista giuridico il mobbing può avere rilevanza sul piano civile ed ammnistrativo, ma anche di natura penale. Ad oggi, la difficoltà maggiore in sede giudiziale è rappresentata dalla necessità di dimostrare il rapporto di casualità tra vessazioni subite e danni alla persona.

 

Per un maggior approfondimento dei temi trattati invitiamo a consultare la relazione integrale