L’altro Natale

I regali di Natale. Il pranzo di Natale. Il cenone della vigilia di Natale. Il brindisi di Natale. Le luminarie di Natale. La partita a carte di Natale. Il torrone, il pandoro e il panettone. Per chi può, anche la settimana bianca di Natale.

E’ tutto qui il senso di questi giorni di festa? Per qualcuno forse sì. Per altri, sicuramente no.
E non per loro scelta.

Viviamo ormai in un Paese nel quale il sentimento prevalente è l’odio, una società in cui chi è più povero e sfortunato non suscita più un moto di compassione e solidarietà, ma repulsione, disprezzo, e rancore.

Il clima d’odio non basta ad arrestare il buonismo natalizio (e finalmente la parola “buonismo” viene utilizzata in modo appropriato).
Nulla può scoraggiare la retorica ipocrita secondo la quale “A Natale siamo tutti più buoni” o il consolidato rito di “Anche a te e famiglia”.

Facciamo un piccolo sforzo per recuperare almeno un briciolo di quello che dovrebbe essere lo spirito natalizio, e dedichiamo due minuti a rileggere questa bella filastrocca di Gianni Rodari.
La loro semplicità è il grimaldello che permette a questi versi di parlare direttamente ai nostri cuori. Sarebbe bello dire che la filastrocca ricorda tempi lontani ed infelici: purtroppo è tremendamente attuale, e merita quantomeno una riflessione, un pensiero a rivolto ai veri valori della vita, che purtroppo stiamo dimenticando.

I migliori auguri di buone feste dalla Fisac L’Aquila

 

L’albero dei poveri

Filastrocca di Natale,
la neve è bianca come il sale,
la neve è fredda, la notte è nera
ma per i bambini è primavera:
soltanto per loro, ai piedi del letto
è fiorito un alberetto.

Che strani fiori, che frutti buoni
oggi sull’albero dei doni:
bambole d’oro, treni di latta,
orsi del pelo come d’ovatta,
e in cima, proprio sul ramo più alto,
un cavallo che spicca il salto.
Quasi lo tocco… Ma no, ho sognato,
ed ecco, adesso, mi sono destato:
nella mia casa, accanto al mio letto
non è fiorito l’alberetto.
Ci sono soltanto i fiori del gelo
Sui vetri che mi nascondono il cielo.

L’albero dei poveri sui vetri è fiorito:
io lo cancello con un dito.

 




Settant’anni anni portati male

Il 10 dicembre del 1948, 70 anni fa, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò ufficialmente la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani: un documento che tutti i Paesi membri si impegnarono ad adottare, pur non avendo valore di legge.

Il documento nasceva, non a caso, al termine di uno dei periodi più sanguinari nella storia dell’umanità: un periodo che aveva visto due tremende guerre mondiali, lo sterminio degli Ebrei, prima ancora quello degli Armeni.

Il presupposto su cui si basa la dichiarazione poteva apparire, in quel periodo storico, rivoluzionario: un essere umano, per il solo fatto di esistere, ha dei diritti inviolabili.
Tra questi il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza. E, fatto ancor più rivoluzionario, questi diritti spettano in egual misura a tutti gli uomini, a prescindere dal loro sesso, dal colore della loro pelle, del paese di nascita.

Ovviamente nessuno di noi obietterebbe su questi concetti, sui quali si è basato gran parte del progresso culturale del mondo civilizzato. D’altro canto, è fin troppo evidente che oggi l’elencazione di questi principi sia superflua in un Paese come il nostro, da sempre culla della cultura e del diritto, forte delle sue radici cristiane e romane. Semmai ce ne fosse bisogno, queste norme di buon senso servono per far evolvere altri Paesi, meno avanzati del nostro.

Ma siamo proprio sicuri che le cose stiano in questi termini?

Intanto una considerazione. Se accettiamo che i diritti nascono insieme alla persona, una società può scegliere due opzioni: o li riconosce, e quindi ne garantisce la fruizione, oppure li nega.

L’Italia riconosce davvero i diritti inviolabili degli esseri umani?

Andiamo a leggere qualche articolo della dichiarazione:

Articolo 5:
Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti
(L’Italia è una delle poche nazioni europee a non essersi dotata di una legge contro la tortura)

Articolo 9:
Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
(
La vicenda della nave Diciotti, con 177 migranti tenuti reclusi per giorni, è un esempio che va in tutt’altra direzione)

Articolo 12:
Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza.
(Il nostro Paese continua a prevedere norme più penalizzanti per le coppie “colpevoli” di non essersi sposate, continua a vietare pratiche riproduttive se sgradite alla chiesa cattolica, discrimina in vari modi gli omosessuali ecc…)

Articolo 13:
Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
(Superfluo qualsiasi commento)

Articolo 23:
Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.
Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
(Qui c’è solo da piangere)

L’elenco potrebbe continuare, ma è innegabile che la risposta alla precedente domanda non possa che essere negativa:
l‘Italia NON riconosce i diritti inviolabili degli esseri umani.

E questo è un fatto che deve preoccuparci, e molto.

 

Leggi il testo completo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

 

 

 

 




Un Paese incattivito dal lavoro povero

Il 52° rapporto annuale dell Censis disegna un’Italia in crisi profonda, vittima di un “sovranismo psichico” che individua nei migranti il capro espiatorio. I giovani a rischio indigenza aumentano, mentre diminuisce la fiducia nel futuro

Gli italiani si sono spaventati e incattiviti, vittime di un “sovranismo psichico”.
È “una reazione pre-politica con profonde radici sociali” che “talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore – diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare”.
Il 52° rapporto annuale del Censis, presentato oggi (7 dicembre) a Roma, disegna un’Italia in crisi profonda, le cui cause vanno individuate nell’“assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive”.

Non è quindi un caso se “l’Italia è ormai il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto un condizione socio-economica migliore di quella dei genitori”.
Il 56,3% degli italiani dichiara che non è vero che “le cose nel nostro Paese hanno iniziato a cambiare veramente”, il 63,6% è convinto che nessuno ne difenda gli interessi e che bisogna pensarci da soli. “L’insopportazione degli altri – rileva il Censis – sdogana i pregiudizi, anche quelli prima inconfessabili”, e mentre si manifesta “un cattivismo diffuso che erige muri invisibili, ma spessi”, “le diversità degli altri sono percepite come pericoli da cui difendersi”.

Il 52% (il 57% tra chi ha redditi bassi) è addirittura persuaso che si faccia di più per gli immigrati che per gli italiani. In generale, il giudizio negativo sull’immigrazione è nettamente superiore alla media europea. Rispetto al futuro, il 35,6% degli italiani è pessimista “perché scruta l’orizzonte con delusione e paura”, il 31,3% è incerto e solo il 33,1% è ottimista.

La mancanza o la bassa qualità del lavoro la fa da padrone, soprattutto per quanto riguarda i più giovani. Nel 2017 il 12,4% degli occupati nella classe di età 20-29 anni era a rischio povertà. Si tratta di circa 330 mila persone, 10 mila in più rispetto all’anno precedente. L’incidenza del rischio risulta più accentuata tra gli occupati che svolgono il lavoro in forma autonoma o indipendente (18,1%) rispetto ai dipendenti (11,2%).
Secondo il Censis, fra i 15 e i 24 anni un giovane su quattro è a rischio povertà, condizione che si riduce nella classe d’età 25-34 anni e soprattutto oltre i 65 anni (17,1%). Nella fascia d’età 25-34 anni i sottoccupati sono circa 163 mila (il 4% degli occupati), pari al 23,5% dei tutti i sottoccupati.

Nella stessa classe d’età gli occupati in part time “involontario” (cioè non scelto, ma imposto per ragioni di riduzione dei costi) sono circa 675 mila, vale a dire 16 su 100 giovani occupati. Più in generale, tra il 2000 e il 2017 in Italia il salario medio annuo è aumentato in termini reali solo dell’1,4%, pari a 400 euro annui, contro i 5.000 euro della Germania (+13,6%) e gli oltre 6.000 della Francia (+20,4%). Nello stesso arco di tempo gli occupati nella fascia 25-34 anni sono diminuiti del 27,3% (oltre un milione in mezzo in meno), quelli tra i 55 e i 64 anni sono aumentati del 72,8. Nel giro di un decennio si è passati da 236 a 99 giovani occupati ogni 100 anziani.

Di conseguenza, emergono segnali di allargamento della forbice sociale nei bilanci delle famiglie. Il rapporto mostra come negli ultimi cinque anni la capacità di spesa delle famiglie italiane ha mostrato un progresso. La quota che dichiara un aumento della capacità di spesa rispetto all’anno precedente ha raggiunto il 31,9% del totale. Quelle che invece hanno visto un peggioramento sono oggi il 15%.
Anche con riferimento alle attese per il futuro si conferma una tendenza alla divaricazione delle famiglie. Con riferimento al futuro del Paese, i pessimisti (44,5%) superano di gran lunga gli ottimisti (18,8%). Paura, inquietudine, preoccupazione riguardano il Paese e i suoi scenari evolutivi molto più che la propria situazione familiare.

 

Fonte: www.rassegna.it




Mobbing da parte del datore: può far scattare il reato di lesioni

Le condotte vessatorie da parte del datore di lavoro commesse in danno del dipendente possono portare ad una condanna per lesioni personali di cui allarticolo 582 c.p.

E’ quanto emerge dalla sentenza della Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione dell’8 ottobre 2018, n. 44890.

Il caso vedeva un datore di lavoro cagionare ad un dipendente una patologia psichiatrica derivante da comportamenti vessatori e persecutori, espressioni ingiuriose, pressioni per lo svolgimento di attività lavorativa dopo che il dipendente era rimasto in malattia e continue contestazioni disciplinari spesso a contenuto del tutto pretestuoso.

Ne derivava una sindrome ansiosa depressiva su base reattiva tendente al peggioramento.

Secondo gli ermellini, una vota provata della patologia, dimostrata la astratta riferibilità della patologia alle vessazioni e verificata l’assenza della sussistenza di ipotetici decorsi causali alternativi e sopravvenuti idonei a interrompere il nesso eziologico, deve ritenersi configurata l’ipotesi di reato di lesioni personali come conseguente alla condotta mobbizzante tenuta dal datore di lavoro nei confronti del dipendente.

Sempre in tema di lesioni personali colpose, la Suprema Corte evidenzia come la prescrizione inizi a decorrere dal momento dell’evento, ovvero dal momento in cui insorge la malattia e non dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

 




Il lavoro nobilita (solo) gli anziani

Apprendiamo da Repubblica, che l’ha letto su Bloomberg, che negli Stati Uniti si registra un boom di assunzioni di lavoratori anziani nelle catene di fast-food. Ammettiamo che il colpo d’occhio è suggestivo: gli individui sopravvissuti alle malattie cardiovascolari provocate dalle abbuffate da McDonald’s hanno come premio un impiego presso gli stessi ristoranti, dove oggi servono schifezze a una nazione satolla.

Negli ultracapitalisti Stati Uniti il sistema performa il proprio collasso: 9 milioni di persone sopra i 65 anni, invece di crogiolarsi nel fine di ogni esistenza umana (oziare, riposarsi), lavorano indefesse a rendere l’America great again.

Con una disoccupazione al 3,7%, l’impero della Libertà ha realizzato il suo sogno (incidentalmente, è anche il sogno dei totalitarismi). Chi pensa che Trump faccia gli interessi dei dimenticati contro l’establishment farà bene a considerare a quale degenerazione ha condotto la sua narrazione anti-globalista. In un contesto di piena occupazione c’è carenza di manodopera; per sopravvivere, le aziende sono costrette ad aumentare i salari (lo ha fatto Amazon, e non per filantropia ma in base al principio della concorrenza) oppure a inventarsi metodi nuovi per risparmiare. Un metodo è licenziare personale per comprare macchine, almeno finché i robot non saranno tassati; un altro è assumere lavoratori che si possa pagare meno. Chiunque dotato di gambe e braccia può friggere patatine. Trasformare l’essere umano in un mero strumento di carne a basso sostentamento biologico è sempre stato il sogno dei capitalisti; se si possono sfruttare i giovani, o se non si possono più sfruttare, perché non sfruttare i vecchi?
(Da noi il governo Renzi ha invertito il trend, mandando gli studenti minorenni a lavorare gratis nei fast-food e chiamando questa ingegnosa forma di schiavismo “alternanza scuola-lavoro” ).

Il denaro, nel sistema capitalistico, spinge la natura ad andare contro se stessa: oggi gli adulti delle democrazie liberali, invece di prendersi cura dei figli e assistere gli anziani, ciondolano nei fast-food serviti dai loro padri sottopagati.

Ma c’è un passaggio che ci ha colpito nell’articolo di Repubblica: posto che “per catene come McDonald’s assumere personale over 50 o meglio ancora pensionato è più che conveniente”, i vecchi piacciono ai padroni perché hanno altri skill: “non hanno ambizioni di carriera e spesso nemmeno la necessità di uno stipendio pieno, visto che percepiscono già l’assegno dallo stato. In sostanza: costano meno, hanno meno pretese e si divertono di più”.
Al diavolo l’artrosi, il lavoro nobilita l’anziano. Ecco il ricatto, sotto una filigrana di ottuso ottimismo, che il capitalismo neo-liberale ha fatto a milioni di suoi figli-vittime: il lavoro, anche il peggio retribuito e il più alienante, è l’unica sfera di realizzazione dell’essere umano, che in essa si sente motivato e felice. A questo dogma hanno lavorato anni di lavaggio del cervello a colpi di elogi del “merito”: meritevole è chi è conforme ai principi dell’aziendalismo, chi ne sposa la indiscutibile, ontologica necessità, chi è tanto fortunato da percorrere una carriera scolastica senza freni o malattie, chi coglie al volo ogni lavoretto in attesa d’inventarsi start-upper.

Ora pare che i giovani iperformati non si bevano più la frescaccia della “flessibilità” e pretendano salari più alti. Da noi, con la disoccupazione giovanile al 32,7% (dati Istat), le aziende dovranno accontentarsi di spremere sangue giovane ancora per un po’, e i padroni trovarsi di fronte, invece che vecchi gagliardi contenti di questa sbarazzina alternativa all’eugenetica, i visi lunghi di viziati bamboccioni che non raccolgono pomodori come i loro coetanei neri (che anche perciò abbiamo tutto l’interesse a mantenere privi di diritti) e non si divertono più nemmeno a grigliare hamburger.

 

Articolo di Daniela Ranieri pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” dell’8/11/2018




La voce e il corpo delle donne

“Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”

esclamava Nanni Moretti in una memorabile scena del film “Palombella rossa”.

Le parole contano.
C’è una parola inglese, ad esempio, che non è un neologismo ma il cui uso, negli ultimi tempi, è diventato più significativo: BOSSY.
Com’è facile immaginare, questa parola deriva da “boss”, “capo”, e secondo il sito internet del Cambridge dictionary una persona “bossy” è una che dice sempre alle persone cosa devono fare.
In astratto si tratta dunque di un aggettivo che può essere predicato sia rispetto ad un uomo che ad una donna.
Proviamo però a perdere qualche minuto per leggere gli esempi che lo stesso Cambridge dictionary fa per spiegarci la parola “bossy”:

  • Lei è forte senza essere bossy.
  • Smettila di essere così maestrina e bossy!
  • Blake potrebbe sembrare bossy, ma devo dirti che è Lisa che porta veramente i pantaloni in quella relazione.
  • La mia sorella maggiore era molto bossy.
  • Le ragazze di quell’età possono essere piuttosto bossy.

L’aggettivo negativo bossy, nella pratica, viene dunque riferito prevalentemente, se non esclusivamente, a soggetti di sesso femminile.
È chiaro: l’essere un BOSS è una prerogativa necessariamente maschile, quindi una donna in una posizione apicale non può che essere BOSSY, prepotente, e tentare di scimmiottare le qualità maschili.
Niente di strano: da che mondo è mondo, se si vuole fare un complimento ad una donna ed elevarla al rango degli uomini si dice che “ha le palle”, o che è “cazzuta”.
Difficile imbattersi in complimenti altrettanto efficaci che non implichino il possesso di genitali maschili.
Una donna, per essere idonea al comando, deve comportarsi, vestirsi, esprimersi come un uomo.

Margaret Thatcher prendeva lezioni per rendere la voce più profonda, ed ancora oggi, nei corsi di leadership, si raccomanda alle donne di abbassare il tono della voce per renderla più calda, più “maschile”.
La voce delle donne è sempre stato un problema.
Si pensi ad uno dei capisaldi della letteratura occidentale: l’Odissea.
Ad un certo punto, Penelope, moglie di Ulisse, che è lontano perché impegnato in uno dei suoi lunghissimi viaggi, scende dalle sue stanze private e si reca nella grande sala della reggia, dove un cantore allieta i presenti cantando le avversità che gli eroi greci affrontano per tornare a casa.
Penelope, turbata e rattristata dal tema della canzone, si rivolge al cantore chiedendogli di cantare qualcosa di più lieto.
E lì, il figlio Telemaco – che è di fatto un ragazzino – interviene e, dopo aver giustificato il cantore, così la liquida: “Madre, va’ nella stanza tua, accudisci ai lavori tuoi, il telaio, la conocchia e comanda alle ancelle di badare al lavoro. La PAROLA spetterà qui agli uomini, a tutti e a me soprattutto, che ho il potere qui in casa”.
È probabile che questo rappresenti il primo episodio letterario di un uomo, in questo caso un ragazzino, che mette a tacere una donna, indipendentemente dall’età, dal grado sociale e dal rispetto dei ruoli familiari.
Perché, per anni, il privilegio di poter parlare in pubblico è stato solo ed esclusivamente degli uomini. Oppure la voce delle donne porta sventure, come nell’arcinoto caso di Cassandra.

Secondo il mito, la giovane era stata a lungo corteggiata dal dio Apollo, che le aveva donato il potere di prevedere il futuro; tuttavia, alla fine del corteggiamento, Cassandra rifiutò di concedersi ad Apollo, e per questo il dio del sole e di tutte le arti la “maledì” condannandola a prevedere, sì, il futuro, ma a non essere mai creduta.
Immaginate dunque lo strazio di questa povera Cassandra, che si trova ad annunciare il disastro del cavallo di Troia, ma viene liquidata dal padre Priamo come un menagramo.
Le sciagure di Cassandra non sarebbero però terminate lì; la poveretta, infatti, verrà stuprata nel tempio di Atena, diventerà la schiava di Agamennone e poi verrà uccisa.
Tutto per non essersi sottomessa al volere di Apollo.

Ci sono le storie, la mitologia, la letteratura, che ci raccontano della (non) voce delle donne.
E poi ci sono le norme, che dispongono della vita delle donne.
Il diritto penale, ad esempio, è una specie di termometro della società, perché, più di qualsiasi altro, ci dice moltissimo di un paese e di un ordinamento giuridico, e ci racconta, tra le righe, come questo si evolve nel tempo.
Perché il diritto penale, quando ci dice “questo è vietato”, stabilisce le priorità di una comunità e i suoi valori; in un mare di libertà, ritaglia una serie di isole, ognuna delle quali rappresenta una cosa che non possiamo fare: è vietato rubare, è vietato uccidere, è vietato stampare banconote false… Si tratta di un equilibrio difficile da trovare, quello tra divieto e libertà, perché più si espande quello che è penalmente rilevante, cioè la superficie delle isole, meno mare di libertà ci rimane.
Ma il diritto penale è anche l’indicatore di come le donne vengono trattate in una società perché è il modo con cui si dispone della libertà delle donne e anche del corpo delle donne.
E anche qui le parole contano.

La legge che 40 anni fa depenalizzò l’aborto, abrogò l’art. 547 del codice penale, che era inserito in un titolo denominato “Dei delitti contro la integrità e la sanità della STIRPE”.
STIRPE.
Il bene protetto, dunque, non era la salute della donna: la norma non intendeva scoraggiare la donna dall’intraprendere azioni che avrebbero potuto pregiudicare la sua salute o addirittura la sua vita, tant’è che la donna che si procurava un aborto (se sopravviveva) era punibile con la reclusione da uno a quattro anni.
La finalità era esclusivamente quella di proteggere la DISCENDENZA dell’uomo: cioè il nome dell’uomo, il patrimonio dell’uomo, ecc. ecc.
Le giovani donne che nel 1978 hanno esultato per la battaglia vinta per la legalizzazione dell’aborto non avrebbero mai pensato che già le loro figlie si sarebbero trovate nell’urgenza di combattere contro un governo che mette, quasi quotidianamente, in discussione un diritto che sembrava acquisito.

Le parole sono importanti.
L’art. 525 del codice penale – ora abrogato – diceva che le pene stabilite per reati come il ratto (cioè IL SEQUESTRO DI PERSONA) a fine di matrimonio o a fine di libidine erano diminuite se il colpevole, prima della condanna, senza aver commesso alcun atto di libidine in danno della persona rapita, la restituiva spontaneamente in libertà, riconducendola alla casa donde la tolse o a quella della famiglia di lei, o collocandola in un altro luogo sicuro, a disposizione della famiglia stessa.
La parola chiave qui è “COLLOCANDOLA”. La donna poteva essere “tolta” da un luogo e “collocata” in un altro, né più e né meno come si farebbe con un soprammobile.
Questa norma diceva in pratica che il sequestro di persona era meno grave se un uomo si “prendeva” una donna, se la portava via, e poi, se per una qualsiasi ragione non la violentava, la riportava dove l’aveva presa, restituendola alla famiglia (leggi: il di lei padre o marito), oppure COLLOCANDOLA in un luogo sicuro a disposizione della famiglia.
Tutto questo senza che la volontà e le sensazioni della vittima venissero minimamente indagate.
Com’è noto, il codice penale italiano è stato adottato nel 1930, e questa è dunque una norma che risale al periodo fascista. Ma è altrettanto vero che l’articolo in questione è stato abrogato nell’assai poco lontano 1996.

È vero, le parole sono importanti, ma le immagini forse lo sono altrettanto.

 

C’è una bella e famosissima foto, che circola speso sui social media, che ritrae una giovane corridora di nome Kathrine Switzer mentre corre la maratona di Boston nel 1967.
All’epoca le donne non potevano correre quella ed altre maratone, e quindi la Switzer si iscrisse soltanto con le iniziali del nome per nascondere il suo genere.
Dopo pochi chilometri dalla partenza, però, i giudici di gara notarono che c’era una donna nel gruppo, e uno di loro scese dalla macchina che seguiva i corridori e si scagliò contro la Switzer, cercando di strattonarla per farla ritirare.
Ed è proprio in quel momento che viene scattata la celebre foto, quando due “angeli custodi” che correvano accanto a Kathrine, il suo allenatore e il suo ragazzo, fanno scudo con i loro corpi e addirittura attaccano il giudice di gara per proteggere la ragazza.
La grandezza di quella foto non sta solo nel cogliere benissimo l’azione del momento e le espressioni dei soggetti: è anche un’allegoria di quello che, secondo molte donne, dovrebbe essere il femminismo e di come dovrebbe portarsi avanti la lotta per i diritti delle donne e per la parità di trattamento.
Perché, anche se noi donne non costituiamo una minoranza nel senso strettamente numerico del termine, veniamo trattate come se lo fossimo.

E allora, per combattere le nostre battaglie, difendere il nostro corpo e far sentire la nostra voce, abbiamo bisogno anche dell’aiuto dei nostri uomini.

Roma 6 novembre 2018

Angela Di Martino
Segreteria Nazionale Fisac CGIL Banca d’Italia




La nostra memoria corta

Video da guardare. Fino all’ultimo fotogramma.
E poi riguardare.

E riguardare ancora il giorno dopo.

https://youtu.be/r81XRXR_LXU




Pensioni, con quota 100 l’assegno si riduce dal 5 al 21 per cento

La pensione subito con “quota 100” per un operaio 62enne con uno stipendio netto di circa 1.600 euro può costare fino al 21% di assegno Inps. Una “decurtazione” che scende all’8% se l’uscita anticipata dal mercato del lavoro con la nuova anzianità è solo di un 1 anno e tre mesi anziché di 5 anni e tre mesi rispetto ai requisiti di vecchiaia. La rinuncia all’assegno pieno oscilla invece tra l’11% e il 5% per l’impiegato 64enne con una retribuzione da 2mila euro netti che sceglie di lasciare l’ufficio dai tre anni a un anno e tre mesi prima.

In attesa della versione finale del disegno di legge di Bilancio che il governo dovrebbe trasmettere alle Camere entro fine mese, ecco i primi calcoli che i “quotisti” possono fare prima di decidere se cogliere o meno l’opzione anti-Fornero. Le stime sono state fornite in esclusiva al Sole 24Ore da Tabula, la società di ricerca di Stefano Patriarca, ex consigliere economico a palazzo Chigi per i Governi Renzi e Gentiloni.
Con un anticipo di tre anni e tre mesi un operaio in possesso di 40 anni di contributi vedrebbe ridursi il proprio assegno mediamente del 14%, mentre un impiegato con gli stessi anni di versamenti e un anticipo di tre anni perderebbe il 9 per cento. L’anzianità della tuta blu costerebbe allo Stato 69.900 euro per tutto il periodo di anticipo rispetto alla vecchiaia. Una “tassa implicita” che salirebbe a quasi 100mila euro con anticipo di 5 anni e tre mesi, quindi “quota 100” precisa, mentre scenderebbe a 32.500 euro con un solo anno e tre mesi di anticipo.

La manovra consente il pensionamento da 62 anni con 38 di contribuzione, e cioè a un’età e con un livello di versamenti che rende la pensione superiore a quanto motivato dai contributi» spiega Patriarca.
Ecco in cifra quanto vale il nuovo “privilegio”: per chi si trova nel cosiddetto sistema misto (cioè con 18 anni di contributi versati prima della riforma del 1995) e che l’anno prossimo maturerà 62 anni di età e 38 anni di versamenti, l’uscita scatterebbe con due anni in meno rispetto all’età di equilibrio contributivo (64 anni, da confrontare con i 67 anni e tre mesi della vecchiaia e soli 20 anni di contributi).

Chi invece è ancora agganciato al sistema di calcolo retributivo (più di 18 anni di versamenti al dicembre ’95) e ha cumulato 41 o 42 anni di contribuzione può beneficiare di un vantaggio che oscilla dai tre anni e cinque mesi ai quattro anni e quattro mesi rispetto alla vecchiaia a 64 anni e tre mesi e 63 e tre mesi. Come spiega Patriarca, con anzianità contributive superiori ai 41 anni, «per produrre pensioni correlate al livello di contributi pagati, occorrerebbero – sottolinea – età di pensionamento maggiori a 65-66 anni e non certo di 62, o addirittura più basse, come si realizzerebbe portando il limite per l’uscita a prescidere dall’età a 41 anni di contributi». Si tratta dell’obiettivo finale di superamento della riforma Fornero indicato da Matteo Salvini e previsto dal programma del governo gialloverde.

Tornando alle “penalizzazioni” sull’assegno, vale ricordare che con “quota 100” la pensione viene incassata fino a cinque anni in più e «nel complesso della vita la riduzione si annulla – fa notare Patriarca – anche se rimane in ogni caso il dato della minore pensione mensile che sotto certi livelli potrebbe comprometterne l’adeguatezza». A determinare la riduzione dell’assegno sono almeno tre fattori: il diverso coefficiente di trasformazione a 62 anni, i cinque anni di minori contributi e l’effetto rivalutazione sul montante, ipotizzando una crescita costante sia del Pil sia dello stipendio del lavoratore.
L’ Inps aveva dato una quantificazione analoga della riduzione legata all’anticipo: fino a 500 euro in meno al mese nel caso di un pensionando della Pa (montante a calcolo retributivo fino al 2011 e contributivo negli anni successivi) che esce con uno stipendio annuo di 40mila euro: con cinque anni di minori versamenti anziché prendere una pensione di 36.500 euro annui si fermerebbe a circa 30mila.

Le conclusioni di Patriarca mettono sullo stesso piano le “pensioni d’oro” che la maggioranza ha preso di mira e le nuove anzianità. Con queste nuove misure «non solo determinano uno squilibrio finanziario statico che si colma con più debito pubblico, ma si determinano le condizioni per un aumento dello squilibrio dinamico e un aggravamento del problema delle pensioni non giustificate dai contributi pagati che non è certo o solo di quelle d’oro».

 

Fonte: www.ilsole24ore.it. Da questo link è possibile consultare le tabelle predisposte da “Il Sole 24 Ore” , pubblicate alla fine dell’articolo




Addio alle monete da 1 e 2 centesimi. Con nuovi aumenti dei prezzi.

C’è un fantasma che si aggira nei portafogli: sono le monetine da 1 e 2 centesimi. Odiate dai consumatori, rifiutate dai distributori automatici, impossibili da usare per il parcheggio delle auto e mal sopportate dai cassieri dei supermercati, dal 1° gennaio di quest’anno non vengono più coniate dall’Italia. E già questa notizia potrebbe essere una novità per i più. A cui aggiungere un’altra realtà fotografata in queste settimane: le monetine stanno cominciando a scarseggiare nei Paesi europei che già hanno deciso di mettere la parola fine alla loro produzione. Con un inevitabile conseguenza: il possibile aumento dei prezzi, anche se a tutt’oggi di statistiche ufficiali ancora non ce ne sono.

Come al solito, meglio fare un passo indietro per capirne di più. Dopo mesi di polemiche, la legge di Stabilità 2018 ha messo fine alla produzione delle monetine da 1 e 2 centesimi. Dal 1° gennaio la Zecca non conia più i ramini che continuano comunque a circolare fino ad esaurimento, mantenendo il loro valore legale. E per evitare il rischio del ritocco al rialzo dei prezzi, la norma ha già chiarito che nel caso di pagamenti in contanti i prezzi vengano arrotondati per eccesso o per difetto al multiplo di 5 più vicino. Ad esempio: 10,52 euro diventa 10,50 euro, mentre 10,58 euro diventa 10,60 euro. Del resto, è solo una questione di numeri: dall’ingresso dell’Italia nell’euro, le monetine rosse hanno raggiunto la cifra di oltre 6 miliardi di pezzi. E il cui peso è soprattutto economico: per ogni moneta da 1 centesimo i costi a carico dello Stato ammontano a 4,5 centesimi, mentre per ogni moneta da due centesimi si spendono 5,2 centesimi. Non certo un affare per lo Stato, che ha già spinto altri Paesi europei ad abolire le monetine da tempo. In Finlandia, nel gennaio 2002, si è deciso per l’arrotondamento dei prezzi ai più vicini 5 centesimi. Decisione seguita due anni dopo dall’Olanda, che risparmia in questo modo 36 milioni di euro l’anno. Nel 2010 è stato il turno dell’Irlanda e nel 2014 dal Belgio. Mentre in Italia la sospensione del conio permetterà di risparmiare circa 23 milioni di euro all’anno, un tesoro girato al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato, nato nel 1993 con lo scopo di rimborsare o ritirare titoli di Stato dal mercato per favorire la riduzione dello stock del debito.

Fin qui l’analisi fredda dei numeri. Il punto è che, però, in questi giorni proprio da uno dei Paesi che ha già detto addio alle monetine è arrivata una notizia: come riporta EuropaToday, il Belgio si sta scoprendo povero di ramini. Nonostante il Paese abbia coniato 860 milioni di pezzi da un centesimo e 770 milioni da 2 centesimi, questa enorme montagna di ferro si è persa tra le tasche dei pantaloni, nei barattoli delle cucine, nel fondo delle poltrone o lungo le strade smettendo così di circolare. Il Paese ha chiesto alla Banca centrale europea (Bce) di stampare nuovi pezzi per far fronte alla carenza, ma Francoforte ha spiegato chiaramente che nell’eurozona non c’è penuria delle monete da piccolo taglio. Quanto piuttosto un uso sbagliato da parte dei cittadini. Tant’è che il ministero federale delle Finanze sta pensando di varare campagne nazionali di sensibilizzazione per indurre i belgi a portare le monetine in banca. Anche perché l’alternativa, nell’impossibilità di dare resti da parte dei commercianti, è l’arrotondamento dei listini. Che solitamente si fa al rialzo, a favore del commerciante.

Un allarme che per l’Italia è stato già profetizzato dall’Aduc. “Non credo di essere estremista sostenendo che tutti i prezzi subiranno un arrotondamento ai 5 centesimi successivi”, sostiene il presidente Vincenzo Donvito. Che spiega: “Quando cominceranno a scarseggiare anche da noi le monetine sarà un’ottima occasione per ritoccare ulteriormente i prezzi perché, in un contesto di importi precisi, sarann pochi i commercianti che continueranno a tenere prezzi in cui compaiono i 5 centesimi, ovviamente andando verso il rialzo. Del resto non si è mai visto un effetto al ribasso”.

I calcoli sono presto fatti. “Se nel 2016, le famiglie italiane hanno speso quasi 11 miliardi e mezzo di euro per la spesa alimentare complessiva, partendo da un aumento medio dei prezzi dello 0,2% causato da un arrotondamento per eccesso (passando da 10,58 euro a 10,6 euro), si scopre che quella stessa spesa potrebbe aumentare di circa 23 milioni all’anno. Vale a dire il risparmio ottenuto dallo Stato non coniando i ramini. Vale allora la pena non produrre più queste monete?”, si chiede Donvito.

Tutto questo anche in attesa che la tecnologia modifichi i sistemi di pagamento saldando senza problemi di resto i prezzi che finiscono con 0,99 centesimi grazie ad app, carte di debito o credito. Ma, tutt’oggi, secondo la Bce, gli italiani continuano a pagare in contanti l’86% delle transazioni e solo il resto con carte, bonifici e assegni.

 

Articolo di Patrizia De Rubertis su “Il Fatto Quotidiano” del 15/10/2018




Solidarietà a Mimmo Lucano e alla comunità di Riace

Riace, un piccolissimo paese quasi spopolato della profonda Calabria, è diventato un simbolo nel mondo. Il modello Riace è semplicemente la straordinaria dimostrazione che si può costruire un efficace sistema di accoglienza diffusa, che l’integrazione rappresenta una importante occasione di sviluppo per il territorio, che costruire una società inclusiva ed accogliente è un vantaggio per tutti.

Un’utopia contro la quale negli ultimi mesi aveva fatto già balenare le sue accuse il Ministro dell’Interno: la colpa di Riace sarebbe quella di aver accolto troppo, anche oltre le decisioni delle commissioni prefettizie. Sta di fatto che i finanzieri stamattina hanno arrestato, ai domiciliari, l’uomo-simbolo di quella esperienza, il sindaco Mimmo Lucano, con l’accusa – tra l’altro – di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Le inchieste della magistratura si rispettano sempre, ma questa ordinanza nei fatti blocca l’esperienza più significativa che dimostra come integrazione e accoglienza siano la chiave di volta per risollevare l’intero Paese. Restiamo in attesa di conoscere i dettagli del provvedimento, ma esprimiamo solidarietà al sindaco Mimmo Lucano e ci mobiliteremo per confermare tutta la nostra vicinanza alla comunità di Riace.

Roma, 2 ottobre 2018

 

Anpi, Arci, Cgil, Articolo 21, Libera e Rete della pace

 

Dal sito www.cgil.it