Nessun dorma!

Pubblichiamo la splendida ricerca effettuata da Emanuela Marini, componente della segreteria Fisac Banca d’Italia, che ha studiato alcune delle più note opere liriche scoprendo che nella loro trama è possibile ritrovare tutte le casistiche delle violenze sulle donne: il femminicidio, la violenza fisica, morale, economica, gli stereotipi ecc…

Una riflessione su come il fenomeno della violenza di genere sia profondamente radicato nella nostra cultura da secoli, e solo in tempi recenti si sia cominciato finalmente a vederlo per quello che realmente è: una profonda ingiustizia, un segno d’inciviltà da combattere con forza e decisione.

A rendere più interessante la lettura, per i melomani c’è la possibilità di ascoltare le arie alle quali si fa riferimento nella trattazione.

 

Nessun dorma – L’opera racconta la violenza

 

 




Landini: buon anno a chi deve lavorare per vivere

A nome di tutta la Cgil voglio fare gli auguri di buone feste e di buon anno a tutte le persone che per vivere hanno bisogno di lavorare. La Cgil è una bellissima organizzazione di uomini e donne che hanno scelto in modo libero di associarsi collettivamente per tentare di tutelare meglio i propri diritti e la propria condizione di lavoro. È una scelta molto importante perché non è possibile risolvere tutti i problemi da soli. Nessuno si salva da solo e nessuno, da solo, salva qualcun altro. Ci salviamo e miglioriamo la nostra condizione esclusivamente se proviamo a farlo insieme”.

A dirlo è il segretario generale della Cgil Maurizio Landini in un videomessaggio di auguri pubblicato su RadioArticolo1.

Sono stati anni difficili – sottolinea – per chi lavora: c’è troppa precarietà e il lavoro tante volte manca, c’è stato un peggioramento dei diritti e delle condizioni del lavoro. Pensiamo quindi che sia importante affermare un principio fondamentale: che qualsiasi persona che lavora, con qualsiasi rapporto di lavoro, debba avere gli stessi diritti e le stesse tutele. Vogliamo affermare che le persone, attraverso il lavoro, siano libere, possano realizzarsi, possano utilizzare la loro intelligenza. Ecco, questo è l’obiettivo che vogliamo realizzare nel 2020. Per farlo abbiamo bisogno che tutti assieme mettiamo al centro una nuova cultura del lavoro“.

 

Fonte: www.rassegna.it




L’immigrazione non è più un’emergenza per merito di Salvini?

È la linea del Corriere della Sera nel suo giudizio di fine anno sui governi Conte: vediamo se è vero.

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera ha affidato al suo editorialista Antonio Polito il compito di giudicare e confrontare il lavoro dei due governi guidati dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: il primo sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle e rimasto in carica fino ad agosto, il secondo appoggiato da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle e ancora in carica.
Polito si è concentrato su vari temi fra cui economia, politica estera ed Europa, ma il giudizio più discusso lo ha dato a proposito delle politiche sull’immigrazione, nel paragrafo dedicato alla “sicurezza”.

In una ventina di righe, Polito ha sostanzialmente elogiato il lavoro da ministro dell’Interno di Matteo Salvini, in carica nel primo governo Conte, con argomenti piuttosto problematici e spericolati.
Fra le varie imprecisioni, la parte iniziale dell’articolo sostiene ad esempio che a causa del netto calo degli sbarchi di migranti sulle coste italiane «l’immigrazione non è più un’emergenza: ed è impossibile negare che la svolta l’abbia data Salvini al Viminale».

Non è vero: il calo degli sbarchi a cui si riferisce Polito era iniziato nell’estate del 2017, quando al ministero dell’Interno c’era Marco Minniti, del PD. Minniti fece un accordo con varie milizie libiche – mai confermato ufficialmente, ma raccontato da diverse inchieste giornalistiche – affinché bloccassero le partenze dei migranti, mantenendoli nei centri di detenzione libici dove peraltro le torture e le violenze sono sistematiche.

Durante i mesi del mandato di Salvini, come si vede in un grafico elaborato dal ricercatore dell’ISPI Matteo Villa, gli sbarchi sono persino calati con meno rapidità rispetto a quando al ministero dell’Interno c’era Minniti.

L’articolo del Corriere usa anche diverse espressioni che di solito vengono evitate dagli esperti di immigrazione. È opinabile, per esempio, che nel 2017 l’Italia si trovasse in una situazione di «emergenza» riguardo all’immigrazione, dato che i numeri degli sbarchi erano simili a quelli registrati nei tre anni precedenti. Così come è forzato sostenere che prima del crollo degli sbarchi l’immigrazione verso l’Italia fosse «selvaggia»: il sistema di accoglienza e di esame delle richieste di protezione è sempre rimasto in piedi (la tesi falsa della «immigrazione selvaggia» è una delle più care all’estrema destra in tutta Europa).

Il consuntivo del Corriere dice cose imprecise in diversi altri punti, come per esempio quando scrive che la «politica dei porti chiusi» di Salvini «ha funzionato sul piano dei numeri e ha costretto l’Europa, almeno di tanto in tanto, a non voltarsi dall’altra parte».

Sul piano dei numeri, come abbiamo visto, si può addirittura argomentare che le misure di Salvini abbiano rallentato il crollo degli sbarchi. Ma più in generale i porti italiani non sono mai stati «chiusi», nemmeno durante il mandato di Salvini: i migranti hanno continuato a sbarcare e i divieti emessi dal ministero dell’Interno in quei mesi erano rivolti soltanto alle navi delle ong che soccorrono le persone nel Mediterraneo, e l’unica conseguenza pratica che hanno avuto è stata quella di prolungare le sofferenze e la condizione di disagio per centinaia di persone già provate dalle violenze in Libia. Le ong peraltro fanno un lavoro molto visibile – cosa che le rende facili bersagli della propaganda e delle forzature di Salvini – ma sono responsabili solo in piccola parte degli arrivi via mare in Italia.

(leggi anche: I porti sono chiusi solo per certi migranti)

Nei primi sei mesi del 2019 sono sbarcati in Italia 3.073 migranti: soltanto 248 sono arrivati a bordo delle navi delle ong, circa l’8 per cento. Gli altri 2.825, cioè il 92 per cento del totale, sono arrivati con modalità meno visibili o perlomeno meno raccontate: attraverso i cosiddetti “sbarchi fantasma” o in maniera autonoma.

Nel primo caso si parla di sbarchi che coinvolgono gommoni o piccole imbarcazioni difficilmente individuabili: in questo modo sono arrivate 737 persone dall’1 gennaio ai primi di giugno. Nel secondo caso si parla invece di piccole barche arrivate fino alle coste italiane oppure entrate nelle acque territoriali italiane e poi trainate in porto dalle autorità italiane.

(leggi anche: Chi porta davvero i migranti in Italia )

È falso anche che Salvini sia riuscito in qualche modo ad attirare l’attenzione dell’Europa sul tema dell’immigrazione.

Salvini ha disertato praticamente tutti gli incontri europei dei suoi colleghi ministri dell’Interno – ha partecipato a una sola riunione, in cui ha litigato con un ministro lussemburghese – e il governo italiano è riuscito a ottenere una disponibilità a ricollocare i migranti soccorsi in mare e portati in Italia soltanto con l’insediamento del secondo governo Conte, alla fine di settembre. Matteo Villa ha stimato che l’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha ottenuto la promessa di ricollocare in altri stati europei l’8,9 per cento dei migranti arrivati in Italia, a fronte del 4 per cento di Salvini.

Matteo Villa@emmevilla

⛔️🚢Malta ed “effetto “.

A quasi tre mesi dalla dichiarazione di Malta, qualcosa è cambiato?

Sì. Oggi l’Italia ricolloca più del doppio dei migranti sbarcati sia rispetto al 2015-2017 (emergenza), sia al periodo di “crisi in mare” con Salvini.

Un thread.

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Ci sono altri parametri, poi, che suggeriscono che le politiche di Salvini siano state quantomeno deleterie o problematiche.

Durante il suo mandato, e molto probabilmente per effetto del primo cosiddetto decreto sicurezza, gli stranieri irregolari sul territorio italiano sono aumentati da 530mila a 600mila.
Più in generale, Salvini ha spesso diffuso informazioni false sui migranti, aizzato l’odio contro gli stranieri attraverso i suoi profili sui social network e propalato teorie infondate come quella sulla presunta sostituzione etnica del popolo europeo.

(leggi anche: Sulla strada per colpa del “decreto sicurezza”)

 

Fonte: www.ilpost.it

 

 




Usereste l’immagine di una scimmia per combattere il razzismo?

La Lega Calcio ha usato una immagine che raffigura il volto di 3 scimmie per la sua campagna contro il razzismo negli stadi.

La scelta ha sollevato una valanga di critiche, sia in Italia sia sui media internazionali.

Volendo interpretare la scelta in modo benevolo, si può immaginare (con molta immaginazione) che l’intento fosse dire ai razzisti da stadio, come ha sostenuto l’autore: “smettetela di fare i razzisti, siamo tutti uguali, siamo tutti scimmie”.

E, pur volendo adottare questa interpretazione benevola, già sembra di sentire l’ultrà razzista di turno dire: “se siamo tutti scimmie, che male faccio a chiamare un nero scimmia, a lanciargli delle banane, a fargli buuuu quando tocca la palla? Tanto anche lui è una scimmia…”

Il calcio italiano è alle prese con un problema persistente: una serie di giocatori è stata nuovamente vittima di abusi razzisti negli stadi del Paese, gruppi di ultrà hanno difeso il loro presunto diritto di maltrattare chiunque scelgano e alcuni club hanno negato che il razzismo sia persino un problema.

Quindi la Lega Serie A, l’organizzazione che sovrintende alla massima serie di calcio del Paese, ha risposto lanciando una serie di iniziative contro il razzismo. Quasi immediatamente, una di queste – una serie di immagini di scimmie con i colori dei club – è stata criticata come razzista. “In un paese in cui le autorità non riescono a gestire il razzismo settimana dopo settimana #SerieA ha lanciato una campagna che sembra uno scherzo da malati”, ha dichiarato la rete antidiscriminazione europea  Football Against Racism. “Queste immagini sono un oltraggio, saranno controproducenti e continueranno la disumanizzazione delle persone di origine africana.”

Le tre immagini realizzate dal pittore Simone Fugazzotto, che saranno appese all’ingresso del quartier generale della Serie A a Milano, raffigurano tre scimmie, ognuna decorata con colori diversi. Fugazzotto – che usa regolarmente immagini di scimmie nel suo lavoro – ha scritto su Instagram di aver avuto l’idea per le immagini dopo una partita allo stadio di San Siro di Milano tra Inter e Napoli. Durante quella partita, dei fan interisti avevano diretto versi da scimmia contro il difensore senegalese del Napoli Kalidou Koulibaly.

Avevo una tale rabbia che ho avuto un’idea“, ha scritto Fugazzotto. “Perché non smettere di censurare la parola scimmia nel calcio, ma girare il concetto e dire invece che alla fine siamo tutti scimmie?”

Dato il contesto, tuttavia, l’utilizzo di tali immagini sembra essere un errore sorprendente. Diversi giocatori della massima serie sono stati vittime di versi di scimmie negli stadi italiani anche in questa stagione: tra gli altri, Romelu Lukaku è stato maltrattato mentre giocava per l’Inter a Cagliari, il terzino sinistro brasiliano della Fiorentina Dalbert ha subito canti simili sul campo dell’Atalanta e Ronaldo Vieira della Sampdoria è stato preso di mira dai tifosi della Roma mentre giocava nello stadio di casa. Mario Balotelli, vilipeso come gli altri, durante una partita a Verona ha preso la palla e l’ha calciata tra la folla. Poi gli altri giocatori e gli ufficiali di gara hanno convinto l’attaccante a rimanere in campo.

La risposta delle società calcistiche e delle autorità è stata questa: il Cagliari non è stato penalizzato per l’incidente di Lukaku e inizialmente i funzionari del Verona si sono rifiutati di riconoscere che fosse successo qualcosa che spiegasse la rabbia di Balotelli. In tutti i casi, gli ultrà (razzisti) delle squadre hanno negato che i loro fossero comportamenti razzisti, per la serie “non siamo noi razzisti, è lui che è nero”.

Il Corriere dello Sport ha avuto la bella idea di annunciare una partita tra Inter e Roma che si giocava il venerdì usando le immagini di due calciatori neri,  Lukaku e Smalling e il titolo “Black Friday”. Quando anche i due giocatori hanno criticato la decisione, il giornale ha detto di essere vittima di un “linciaggio”.

De Siervo, a.d. della Lega di serie A, ha inizialmente respinto l’osservazione che l’uso di immagini di scimmie per convincere a evitare cori razzisti potrebbe contribuire al problema, piuttosto che risolverlo. “I dipinti di Simone riflettono appieno i valori del fair play e della tolleranza, quindi rimarranno nella nostra sede”, ha detto.

Successivamente, sotto il montare delle critiche, ha trasmesso una dichiarazione che rappresenta una parziale retromarcia: «Ci scusiamo con tutti coloro che si sono sentiti offesi per l’opera realizzata da Simone Fugazzotto. Nonostante l’artista avesse spiegato che il senso della sua creazione fosse proprio un messaggio contro il razzismo, l’opera è apparsa però a molti discutibile. Ciò che non può essere oggetto di discussione è la forte e costante condanna da parte della Lega Serie A contro ogni forma di discriminazione e razzismo, fenomeni che siamo impegnati a sradicare dal nostro campionato. La Lega Serie A sta lavorando alla campagna ufficiale antirazzismo, che non può essere identificata con l’opera di Fugazzotto, e che sarà presentata entro fine febbraio».

 

Fonte: People for Planet 




Ma alla fine, che cos’è questo MES?

In questi giorni è sicuramente l’argomento più caldo sulla scena politica. Lo scorso 7 dicembre c’è stata l’iniziativa della Lega che ha raccolto le firme contro il MES: un mostro di cui tutti parlano, ma del quale nessuno sa dire davvero cosa sia.

Secondo Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) è un meccanismo che serve a salvare le banche tedesche a spese dei cittadini italiani.
Matteo Salvini lo definisce un fondo privato che mette nelle mani di sette burocrati europei, due tedeschi, due francesi, un olandese, un belga e un irlandese il destino dei paesi dell’Eurozona.
Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista lo definiscono un pericolo per i risparmi dei nostri connazionali.

In tanti cavalcano la paura, presentando il MES come un meccanismo da burocrati che peggiorerà le nostre vite e limiterà la nostra libertà.
Ma cosa c’è di vero in tutto questo?

Il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES o ESM se riferito al nome in inglese) è un’organizzazione intergovernativa dei paesi dell’Area Euro, nata per aiutare i paesi che si trovano in difficoltà economica.
E’ un’istituzione basata sulla solidarietà: tutti si tassano in proporzione alle loro possibilità per evitare che gli stati più deboli diventino insolventi. Ma è anche un sistema indispensabile per difendere l’euro, visto che il fallimento di un Paese può avere ripercussioni da tutti gli altri.

Il MES, nella sua formulazione attuale, esiste dal 2012. Cioè da sette anni.
E questa forse è una notizia che risulterà sorprendente per molti. E tanto per rinfrescare la memoria, la sua istituzione fu negoziata durante il governo Berlusconi-Lega ed entrò in vigore durante il Governo Monti sostenuto, tra gli altri, dalla Meloni.

L’attuale dotazione del MES è di circa 80 miliardi. A costituirla sono stati tutti i Paesi dell’Eurozona in proporzione al loro peso economico. Questo fa sì che la Germania sia il primo contributore, sfiorando il 27% del capitale, oltre ad essere lo Stato che ha le minori probabilità di usufruire degli aiuti.
Il MES può emettere titoli garantiti dagli Stati dell’Eurozona, arrivando a raccogliere liquidità fino a 700 miliardi di euro, da utilizzare per effettuare prestiti alle nazioni che ne facciano richiesta.

Per le regole attuali, cioè quelle in vigore dal 2012 delle quali finora nessuno sembrava essersi accorto, gli Stati che chiedono l’aiuto del MES devono sottostare ai controlli di un comitato costituito da Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale (la cosidetta Troika) e mettere in campo una serie di riforme imposte dal comitato.
Il piano di riforme prevede di solito misure molto impopolari come tagli alla spesa pubblica, – in particolare alle pensioni – privatizzazioni, liberalizzazioni e maggiore flessibilità delle leggi sul lavoro, puntando al risanamento dei conti.
La logica è: “Se mi chiedo dei soldi io te li presto, ma siccome voglio essere sicuro di riaverli indietro devi fare tutto quello che dico io”.
Può essere un criterio più o meno discutibile, ma sono regole che esistono da 7 anni e sono state già applicate in occasione degli aiuti a Cipro, Portogallo, Irlanda e Grecia (la nazione che ne è uscita più pesantemente segnata).

Dalla sua creazione il MES ha ricevuto grossi apprezzamenti, essendosi rivelato uno strumento adatto ad affrontare le crisi, vista la sua capacità di prestare denaro a Stati che altrimenti non avrebbero potuto ottenere prestiti.
Ma le critiche non sono mancate.
C’è chi accusa il fondo di pretendere sacrifici troppi pesanti in cambio degli aiuti, deprimendo così le economie degli Stati che dovrebbe sostenere. Ma c’è anche l’accusa opposta, cioè di sostenere chi non lo merita, concedendo denaro con troppa facilità ed incoraggiando così Stati meno seri a spendere oltre i propri mezzi. Come si può facilmente intuire, la prima critica arriva dalle Nazioni più a rischio, la seconda arriva da quelle più solide, che sono anche quelle che contribuiscono in modo più consistente.

 

Cosa prevede la riforma

A questo punto dovrebbe essere chiara l’esistenza di due diverse correnti che chiedono riforme del MES: da una parte quella dei Paesi più indebitati che vogliono alleggerire il peso degli adempimenti richiesti a chi si avvale degli aiuti, dall’altra quella dei Paesi ricchi del Nord Europa, che chiedono un inasprimento.
La riforma, discussa a partire dal 2018, cerca di conciliare entrambe le richieste.

La richiesta dei Paesi meno solidi, finalizzata a consentire la concessione di prestiti agli stati che ne avessero bisogno senza obbligarli a riforme pesanti ed impopolari è stata accolta.
Peccato che sia stata accolta anche l’altra richiesta, quella degli stati più ricchi del Nord, che di fatto la rende inutile. Per ottenere credito sarà infatti sufficiente una lettera d’intenti, ma solo a patto di rispettare i parametri di Maastricht. Considerando che 10 stati su 19 membri dell’eurozona non rispettano questi parametri, e che tra questi figura anche l’Italia, per quanto ci riguarda la situazione resterà invariata rispetto alle attuali normative.

Un risultato concreto ottenuto dai paesi più indebitati (Italia in primis) è il meccanismo del backstop.
Di cosa si tratta? Di un fondo comune costituito tra le banche europee, capace di agire autonomamente quando una banca di un Paese dell’eurozona è in crisi, evitando di utilizzare risorse pubbliche per il salvataggio.
Salvini e la Meloni sostengono che il MES porterà via soldi agli Italiani per salvare le banche tedesche: la verità è che i Tedeschi sono stati i più fieri oppositori di questa riforma, sostenendo che fossero le banche di Paesi in difficoltà come l’Italia ad aver bisogno di questi soldi, e che la Germania si sarebbe trovata a finanziare salvataggi in questi Paesi.
Il MES contribuirà a finanziare il Fondo di risoluzione, potendo stanziare fino a 55 miliardi; le banche diventeranno così più sicure.

Un risultato ottenuto dai “rigoristi” del Nord Europa rappresenta invece un effettivo peggioramento dell’accordo, se considerato dal nostro punto di vista, tanto da spingere sia il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, sia il presidente dell’ABI Antonio Patuanelli ad esprimere preoccupazione.
La nuova norma è finalizzata a rendere più facile la “ristrutturazione” del debito pubblico di un Paese che chiede sostegno al MES. Per effetto di questa modifica, i privati che hanno sottoscritto titoli del debito pubblico (quindi di fatto hanno prestato dei soldi allo Stato), potrebbero, nel momento in cui scatterà il pacchetto di aiuti alla Nazione in difficoltà, vedersi rimborsati i titoli sottoscritti solo parzialmente e non per l’intero valore nominale.

Stiamo parlando delle Clausole di Attivazione Collettiva (CACS), della quali Salvini ha dimostrato di non sapere assolutamente nulla, pur utilizzandole come spauracchio per terrorizzare i suo elettori.

Le istituzioni Europee hanno rassicurato i Paesi membri spiegando che la ristrutturazione del debito non sarà automatica e che la riforma nasce per proteggere i governi in caso di default. Il meccanismo prevede la possibilità di ridurre il capitale da rimborsare o gli interessi, oppure posticipare i pagamenti dovuti rispetto alle scadenze.
Le vecchie clausole presupponevano un accordo tra uno Stato alle prese con la ristrutturazione del suo debito e la maggioranza degli investitori. Poiché gli Stati emettono debito in tante emissioni, era finora necessaria una doppia maggioranza: a livello di debito complessivo e in ogni singola emissione.
La riforma del Mes richiede la sola maggioranza a livello complessivo, cioè la single limb. Tutto questo crea una condizione di rischio per i privati.
Come spiegato in precedenza, per accedere agli aiuti del MES bisogna essere in regola con determinati parametri. Gli Stati non in regola potranno beneficiare degli aiuti a patto di impegnarsi ad attuare riforme impopolari per risanare il bilancio. La possibilità di ristrutturare il debito, scaricando sui risparmiatori privati parte del peso, rende più facile l’accesso agli aiuti ma meno sicuro l’investimento in titoli di stato.
Anche senza arrivare ad un provvedimento del genere, la sola esistenza di questa norma potrebbe scoraggiare gli investitori a sottoscrivere titoli dei Paesi più indebitati, costringendoli ad aumentare i tassi per continuare a finanziarsi.

Il MES è un circolo privato?

Questo trattato mette 124 miliardi di Euro degli Italiani nella mani di sette burocrati europei: due tedeschi, due francesi, un olandese un belga e un irlandese che possono discrezionalmente decidere chi aiutare e non aiutare con quei soldi.          MATTEO SALVINI

Cosa c’è di vero in questa affermazione? Niente.

Intanto le somme versate dall’Italia al MES si limitano a poco più di 14 miliardi, pari al 17% del fondo. I 124 miliardi rappresentano il capitale sottoscritto ma non versato. Se davvero si rendesse necessario per l’Italia versare i residui 110 miliardi, questo vorrebbe dire che la Germania ne verserà 160, la Francia 120 e così via.

Chi comanda nel MES?
Il MES è guidato da un “Consiglio dei Governatori” composto dai 19 Ministri delle finanze dell’area dell’euro. Il Consiglio assume all’unanimità tutte le principali decisioni (incluse quelle relative alla concessione di assistenza finanziaria e all’approvazione dei protocolli d’intesa con i paesi che la ricevono).
Le decisioni meno importanti richiedono comunque una maggioranza pari all’85% del numero di quote sottoscritte.
Considerando che l’Italia detiene il 17% delle quote, ha di fatto potere di veto: questo vuol dire che il MES non potrà mai prendere una decisione che non sia condivisa anche dal Governo Italiano.

Già, ma il Governo conosce le proprie decisioni? A questo punto si dovrebbe rispondere che non è sempre così, o almeno non lo è per tutti i Governi, considerando che le attuali modifiche sono state concordate nel 2018 dal Governo Conte 1 e dai vice premier Salvini e Di Maio.

Cioè gli stessi che adesso alzano barricate e raccolgono firme chiedendo di non ratificare le modifiche concordate dal loro Governo.

 

 

 

 

 




25 novembre: giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

IL CONFINE TRA COMPLIMENTI E MOLESTIE
VIOLENZA DI GENERE E MOLESTIE SUI LUOGHI DI LAVORO

Con il termine violenza di genere si indica la violenza esercitata contro una o più persone, in ragione del loro genere di appartenenza.

Quello della violenza di genere è un fenomeno complesso, spesso difficile da indagare, perché reso invisibile da codici culturali che la fanno rientrare nell’ambito delle normali e legittime relazioni tra i generi. Si nutre, quindi, del modo in cui da sempre sono interpretate la differenza tra i sessi e i rispettivi ruoli e si colloca nella storica asimmetria di potere tra i generi.

I numeri della violenza contro le donne, in tutte le sue manifestazioni sino ad arrivare a quella estrema del femminicidio, li conosciamo e sono terrificanti ma è necessario, così come ha sostenuto Laura Boldrini, non solo riconoscere che “la violenza che subiscono le donne è uno sfregio, ma lo sono anche l’indifferenza e i pregiudizi”. E per superarli, è necessario cambiare la cultura dominante. Per questo siamo qui oggi a parlarne.

LA LEGISLAZIONE ITALIANA

L’art 1 della dichiarazione ONU sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 recita: è “violenza contro le donne ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza, fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà”.
Da quella data in poi, molte leggi sono state emanate; con particolare riferimento all’Italia abbiamo:

  • 1996 “Norme contro la violenza sessuale”; 
  • 2001 “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”; 
  • 2009 reato di stalking; 
  • 2013 ratifica della Convenzione di Istanbul, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, in cui la violenza viene riconosciuta come una forma di discriminazione, una violazione dei diritti umani; 
  • 2013 norme anti-femminicidio; 
  • 2015 congedo per le donne vittime di violenza di genere; 
  • 2017 disegno di legge 2719, che tutela i figli rimasti orfani di un genitore a seguito di un crimine domestico.

Nonostante tutte queste leggi, succede che ogni due giorni una donna perda la vita per mano di un uomo col quale, quasi sempre, ha avuto una relazione. In Italia sono 7 milioni le donne che, nel corso della loro vita, sono state vittime di maltrattamenti, atti persecutori, percosse.

Sempre in Italia, sono state uccise 116 donne nel 2016, 112 nel 2017 e 86 nel 2018, quasi tutte da partner o ex partner. Numeri in calo, ma che sono sempre i numeri di una strage. Numeri che tolgono il fiato e dietro i quali ci sono storie di donne che hanno subito violenze di ogni forma, insulti, denigrazioni, comportamenti di controllo. Secondo i dati Istat, in Italia il 13,6% delle donne ha subito violenze fisiche o sessuali dal partner o ex partner.

Vittime e aggressori appartengono a tutte le classi sociali e culturali e a tutti i ceti economici. Non esistono profili di personalità né della vittima né degli autori delle violenze. 
E i tanti  stereotipi secondo i quali i violenti sarebbero poco scolarizzati, stranieri, o tossicodipendenti impediscono di vedere il fenomeno per quello che è: un fenomeno trasversale che riguarda tutte le fasce sociali.
Un fenomeno che ancora viene sottovalutato e banalizzato e le cui vittime, le donne, vengono spesso  colpevolizzate, messe in discussione e isolate. Una ricerca promossa dalla Commissione parlamentare sul femminicidio,  presentata al Senato il 6 febbraio 2018 ci dice che almeno il 50% delle denunce di reato contro le donne viene archiviato e ciò testimonia le mille difficoltà ed esitazioni che devono superare le donne per arrivare a denunciare. Ciò significa che la normativa, per quanto ampia possa essere, di per sé non è sufficiente.

Come possiamo uscire da questa spirale di violenza?

IL MONDO DEL LAVORO

Prevenire la violenza vuol dire combattere le sue radici culturali, economiche e sociali e le sue cause. Per questo sono essenziali strategie politiche mirate all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento e alla realizzazione di pari opportunità e di pari dignità in ogni ambito della vita pubblica e privata, oltre ad azioni di contrattazione.

Un ruolo fondamentale lo esercita il lavoro, in quanto strumento di riscatto e di fuga da una trappola di dolore e umiliazione.

Avere un lavoro è fondamentale per aiutare le donne, vittime di violenza, a liberarsi e non tornare dal partner violento. Non solo per l’aspetto economico. Il contesto lavorativo può supportare la donna nel rompere la dinamica di sottomissione, laddove invece il contesto familiare a volte legittima o non contrasta sufficientemente la violenza domestica.

Per questo è importante sia sostenere l’occupazione femminile, in modo che le donne siano indipendenti economicamente dal partner, sia supportare le vittime, affinché troncare con il partner violento non significhi abbandonare  il proprio lavoro.
Diversi studi evidenziano che le donne che lavorano hanno una probabilità più alta di liberarsi dalla relazione violenta e di non tornare dal partner violento.

Il lavoro è dunque fondamentale per poter ripartire, altrimenti si rischia di far prevalere la paura di non riuscire ad andare avanti, la paura di non poter provvedere ai propri figli (la mancanza di indipendenza economica pesa ancor di più sulle donne con figli piccoli) e così, in silenzio, si resta nella prigione degli abusi e delle prevaricazioni, degli schiaffi e delle umiliazioni.

Ma che succede quando anche nel mondo del lavoro si insinuano violenza e  molestie?

L’Indagine ISTAT 2016 sulla sicurezza dei cittadini ha permesso di stimare il numero delle donne che, nel corso della loro vita e nei tre anni precedenti all’indagine, sono state vittime di una forma specifica di violenza di genere: le molestie e i ricatti sessuali in ambito lavorativo.

In questa tipologia vengono compresi diversi atti dalle molestie sessuali con contatto fisico (colleghi, superiori o altre persone che, sul posto di lavoro, hanno tentato di toccarle, accarezzarle, baciarle contro la loro volontà) fino al tentativo di utilizzare il corpo della donna come merce di scambio, con la richiesta di prestazioni o rapporti sessuali o di una disponibilità sessuale in cambio della concessione di un posto di lavoro o di un avanzamento.

Sono un milione 404 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. Rappresentano
l’8,9% per cento delle lavoratrici, attuali o passate, incluse le donne in cerca di occupazione. Nei tre anni precedenti all’indagine, ovvero fra il 2013 e il 2016, hanno subito questi episodi oltre 425 mila donne (il 2,7%). La percentuale di coloro che hanno subito molestie o ricatti sessuali sul lavoro negli ultimi tre anni è maggiore della media (pari al 2,7%) tra le donne da 25 a 34 anni (3,1%) e tra quelle da 35 a 44 anni (3,3%).

Con riferimento ai soli ricatti sessuali sul lavoro, sono un milione 173 mila (il 7,5%) le donne che nel corso della loro vita lavorativa sono state sottoposte a qualche tipo di ricatto sessuale, per ottenere un lavoro o per mantenerlo o per ottenere progressioni di carriera. Negli ultimi tre anni, invece, il dato risulta in lieve diminuzione: sono infatti 167 mila, pari all’1,1%, le donne che li hanno subiti.

Il 32,4% dei ricatti sessuali viene ripetuto quotidianamente o più volte alla settimana, mentre il 17,4% si verifica circa una volta a settimana, il 29,4% qualche volta al mese e il 19,2% ancora più raramente. Negli ultimi tre anni, la quota complessiva di donne che ha subito ricatti tutti i giorni o una volta a settimana è ancora maggiore (rispettivamente, il 24,8% e il 33,6%).

Quando una donna subisce un ricatto sessuale, nell’ 80,9% dei casi non ne parla con nessuno sul posto di lavoro, un dato in linea con quello rilevato nel 20082009, quando questa percentuale era pari all’81,7%.
Quasi nessuna ha denunciato il fatto alle Forze dell’Ordine: appena lo 0,7% delle vittime di ricatti nel corso della vita (l’1,2% negli ultimi tre anni). Un dato che si riduce ulteriormente se si considera chi ha poi effettivamente firmato un verbale di denuncia, il 77,1% di chi ha dichiarato di essersi rivolto alle Forze di polizia.
Le motivazioni più frequenti per non denunciare il ricatto subito nel corso della vita sono la scarsa gravità attribuita all’episodio (27,4%) e la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine o nella loro possibilità di agire (23,4%).

Il 24,2% delle donne, che hanno subito ricatti nel corso della vita, ha preferito non rispondere alla domanda su quale sia stato l’esito del fatto. Tra coloro che hanno risposto, il 33,8% delle donne ha cambiato volontariamente lavoro o ha rinunciato alla carriera, il 10,9% è stata licenziata o messa in cassa integrazione o non è stata assunta.

Fin qui i dati Istat.

Oggi l’attenzione alle molestie sui luoghi di lavoro ha assunto un sempre maggior rilievo, perché rappresentano un fenomeno che impatta fortemente sulla serenità (anche professionale) e sulla salute. Le molestie sono  lesive della qualità dell’ambiente di lavoro, con gravi conseguenze sull’equilibrio emotivo e sull’efficienza lavorativa di chi le subisce.

Il fenomeno è molto complesso da analizzare, in quanto – all’interno del luogo di lavoro – comportamenti qualificati come molestie sessuali possono avere diverse sfumature e intensità (come battute a sfondo sessuale, inviti a cena tendenziosi, o veri e propri ricatti sessuali) e possono provenire da soggetti diversi (come i colleghi, il datore di lavoro o i clienti) e possono colpire sia le donne sia gli uomini, anche se ciò accade meno frequentemente.

Le molestie sono in grado di condizionare la vita di chi le subisce  causando danni psicologici, o forme di ansia con risvolti sulla vita personale e lavorativa, costituiscono una lesione della dignità, della libertà e del decoro della persona e si caratterizzano per essere indesiderate e non gradite da chi le subisce.

Le molestie sessuali possono anche coinvolgere indirettamente e negativamente gli altri lavoratori e lavoratrici,  che si trovano a esserne testimoni o che ne vengono a conoscenza. Anche il datore di lavoro può subire un danno in termini di redditività  nel caso in cui – in conseguenza delle molestie – il personale si licenzi o si assenti per malattia. La molestia,  in particolar modo quella a sfondo sessuale, rappresenta un ostacolo all’integrazione nel mondo del lavoro delle donne.

Le nuove forme di lavoro, i turni, anche tardo-serali e notturni e i luoghi di lavoro periferici, aumentano il rischio molestie per le condizioni di maggior isolamento.

Il Testo Unico 81/2008 sulla Salute e Sicurezza sul lavoro, all’art. 28 precisa che i rischi da valutare sono “tutti” quelli che collegati all’attività lavorativa, anche non necessariamente causati della stessa, come appunto la violenza, le discriminazioni e le molestie. Ad esempio, raggiungere un parcheggio in orario tardo-serale o notturno espone evidentemente a un rischio di aggressione, che sussiste proprio in ragione della prestazione resa di notte. Tali rischi devono essere valutati e contrastati adeguatamente “ovunque” l’attività venga resa. Il datore di lavoro deve effettuare la valutazione dei rischi sulla base di quelli “potenzialmente presenti” e la valutazione dei rischi non può essere generica, così come non possono essere generiche le relative misure di prevenzione individuate.

In sede di compilazione del Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), di conseguenza, il datore di lavoro è tenuto a considerare anche tutti quegli elementi che, seppur estranei alla prestazione lavorativa in senso stretto, possono influire sulla salute e sicurezza della lavoratrice e del lavoratore. Qualora non ponga in essere questa attività di valutazione e contrasto, si configura un inadempimento nonché la sua diretta responsabilità nel caso in cui il rischio si trasformi in realtà e, quindi, in danno per la lavoratrice.

Questo dovere del datore di lavoro è stato inoltre potenziato dalla Legge di Bilancio 2018, che ha rimarcato il ruolo delle organizzazioni sindacali nel concordare con il datore di lavoro strumenti atti a garantire condizioni di lavoro tali da tutelare l’integrità fisica e morale e la dignità di lavoratrici e lavoratori, ponendo in essere iniziative di natura informativa e formativa in grado di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. In tal modo,  tutti sono tenuti a impegnarsi per assicurare il mantenimento di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza.

MA COSA SONO ESATTAMENTE LE MOLESTIE?

L’ordinamento comunitario ha svolto un ruolo decisivo affinché il concetto di molestia ricevesse consacrazione giuridica. Per lungo tempo, si è  ritenuto che questi comportamenti, posti in essere nei luoghi di lavoro fossero: “una naturale e quasi inevitabile conseguenza della subordinazione gerarchica, della dipendenza economica e della posizione di inferiorità delle donne nel mercato del lavoro.”

Con la Raccomandazione 92/13 del 27/11/1991 la Commissione Europea stabilisce che la caratteristica essenziale dell’abuso a sfondo sessuale sta nel fatto che si tratta di un atto indesiderato da parte di chi lo subisce e che spetta al singolo individuo stabilire quale comportamento egli possa tollerare e quale sia da considerarsi offensivo. Una semplice attenzione a sfondo sessuale diventa molestia quando si persiste in un comportamento ritenuto palesemente offensivo da chi ne è oggetto. È la natura indesiderata della molestia sessuale a rappresentare la linea di discrimine che la distingue dal comportamento amichevole, che invece è ben accetto e reciproco.

Quindi, si soggettivizza il concetto di molestia, riconducendolo alla percezione che la vittima ha di quel comportamento, anziché all’intenzionalità dell’autore di recare l’offesa, che porterebbe a svalutarne  la gravità. Si considera perfezionata la molestia sessuale con la sussistenza di un pregiudizio alla dignità della persona, evento che è valutato alla luce dell’aspetto psicologico interiore del molestato.

Con la Direttiva 2002/73 si consacra la definitiva equiparazione delle molestie alle discriminazioni sancendone il divieto, in quanto contrarie al principio della parità di trattamento.
L’art 2 comma II definisce le molestie sessuali come la: “situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.”

La definizione di molestia, sia sessuale sia di genere, accolta dal diritto comunitario, contempla al suo interno un duplice profilo: 

  • da un lato è volta a perseguire il comportamento “avente lo scopo” di ledere la dignità della persona, ricomprendendo tutti  gli atti intenzionalmente rivolti al risultato vietato;  
  • dall’altro lato si configura in termini di impatto, di “effetto” del comportamento indesiderato, ricomprendendo tutti quei comportamenti indesiderati che provocano l’effetto illegittimo anche quando non sia configurabile l’intenzionalità dell’autore.

La Direttiva 2006/54/CE42 riguardante  l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, sancisce che le pari opportunità fra uomini e donne sono un principio fondamentale del diritto europeo applicabile in ogni campo della vita sociale, incluso il mondo del lavoro  e distingue:

  • le molestie come “situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato connesso al sesso di una persona avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo” 
  • le molestie sessuali come “situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare attraverso la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

Le molestie e le molestie sessuali sono comprese nell’ambito delle discriminazioni e vengono considerate come trattamenti meno favorevoli subiti da lavoratrici e lavoratori per il fatto di aver rifiutato o di essersi sottomessi alle molestie e alle molestie sessuali.

L’ Accordo Quadro Europeo sulle molestie e la violenza sul luogo di lavoro del 26 aprile 2007 ha l’obiettivo  specifico di sensibilizzare i datori di lavoro, i lavoratori e i loro rappresentanti sul problema delle molestie e della violenza sul luogo di lavoro e di fornire esempi di azioni concrete per individuare, prevenire e gestire le situazioni che potrebbero verificarsi nei luoghi di lavoro. Le molestie vengono individuate come “[…] l’espressione di comportamenti inaccettabili di uno o più individui e possono assumere varie forme, alcune delle quali sono più facilmente identificabili di altre. L’ambiente di lavoro può influire sull’esposizione delle persone alle molestie e alle violenze. Le molestie avvengono quando uno o più lavoratori o dirigenti sono ripetutamente e deliberatamente maltrattati, minacciati e/o umiliati in circostanze connesse al lavoro.”

Con questo accordo le parti sociali condannano ogni forma di molestia (e di violenza) sul posto di lavoro e individuano le molteplici forme con cui tali fenomeno può manifestarsi. Esse possono:

  • Essere di natura fisica, psicologica e/o sessuale; 
  • Costituire incidenti isolati o comportamenti più sistematici;
  • Avvenire tra colleghi, tra superiori e subordinati o da parte di terzi, ad esempio clienti, pazienti ecc.;   
  • Andare da manifestazioni lievi, come la mancanza di rispetto, ad atti più gravi, ad esempio reati che richiedono l’intervento delle pubbliche autorità.

Si ribadisce l’obbligo per i datori di lavoro di proteggere i propri lavoratori e lavoratrici da queste situazioni e si stabilisce che le imprese dovranno attuare una politica di “tolleranza zero” verso tali comportamenti.

Nello scorso mese di giugno, in occasione della conferenza per il centenario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO)  sono state presentate, nell’ambito delle iniziative sulle donne e il lavoro, la nuova Convenzione e le nuove Raccomandazioni per combattere la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro. La Convenzione riconosce che l’abuso e le vessazioni nei luoghi di lavoro costituiscono:

  • una violazione dei diritti umani fondamentali; 
  • una minaccia alle pari opportunità inaccettabile e incompatibile con il diritto a un lavoro dignitoso.

Alcune delle lacune che l’Ilo ha rilevato nelle leggi  dei Paesi di tutto il mondo sono l’assenza di leggi coerenti che proteggano lavoratrici e lavoratori, in particolare quelli più soggetti a violenza e a molestie, così come una definizione un po’ troppo circoscritta di quello che si può considerare luogo di lavoro. Da ciò deriva che non ci siano azioni comuni né disposizioni legali specifiche per contrastare le molestie sessuali sul lavoro.

È quanto emerge anche dal rapporto Women, Business and the Law 2018 della Banca Mondiale: ben 59 Paesi su 189 non attribuiscono importanza al fenomeno né propongono soluzioni per arginarlo.

Il rapporto copre un periodo di 10 anni e aiuta a capire qual è la situazione e a verificare come le leggi  siano  determinanti  per favorire, nel tempo, le pari opportunità tra uomini e donne e far sì che queste ultime non si sentano troppo spesso fragili in quanto soggette a intimidazioni, soprusi, attacchi.

Secondo il rapporto, ancora oggi molte leggi e regolamenti continuano invece a  impedire  alle  donne di entrare nel mondo del lavoro o di avviare un’impresa, attuando discriminazioni così forti da condizionare pesantemente l’inclusione dal punto di vista economico e la partecipazione delle donne alla forza lavoro.

Ci sono economie che non hanno attuato delle riforme positive in tal senso negli ultimi 10 anni e la percentuale di donne che lavorano è cresciuta poco e comunque meno rispetto a quella degli uomini che lavorano.

Ai governi, che ratificano la Convenzione ILO, viene richiesto di adottare  leggi nazionali  che proibiscano la violenza  sul posto di lavoro nonché  misure preventive, che impongano alle aziende di avere politiche sul luogo di lavoro contro la violenza.

Il trattato obbliga, inoltre, i governi a monitorare la situazione, favorire meccanismi di denuncia, misure di protezione dei testimoni e servizi che aiutino le vittime.

La convenzione comprende non soltanto la violenza e le molestie che si verificano nell’ambiente di lavoro, ma anche in altri luoghi collegati (nel luogo in si fanno le pause, negli spogliatoi, nei servizi igienici, negli alloggi forniti dal datore di lavoro, nel tragitto casalavoro, durante i viaggi di lavoro, quando si partecipa a corsi di formazione, eventi o attività sociali collegate al lavoro o in tutti gli altri luoghi o situazioni creati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione).

E quest’ultimo aspetto è particolarmente importante perché non solo amplia il raggio  di quello che normalmente è considerato come luogo di lavoro ma considera anche tutte quelle situazioni in cui magari si è a casa e si sta lavorando, come quando si viene molestati in chat, via whatsapp o altri contesti da capi o colleghi.

In Italia il diritto alla salute (art. 32 Costituzione Italiana) e la tutela del diritto alla dignità umana (art. 41 II comma C.I.) sono le norme intorno alle quali ha ruotato per lungo tempo la giurisprudenza, che – in assenza di una definizione legislativa tipica di molestia – anche grazie agli interventi comunitari susseguitisi durante gli anni ’90, ha iniziato a sanzionare le molestie sessuali.

Negli anni ’90, è stato importante anche il contributo concreto fornito dalla contrattazione       collettiva  alla regolamentazione delle molestie, in particolare delle molestie sessuali. È, infatti, con il CCNL Metalmeccanici del 1990 che viene introdotta per la prima volta in ambito lavorativo la definizione di molestia  sessuale.

Nel 2005, finalmente, il Decreto legislativo n. 145/05 attua la Direttiva 2002/73/CE  e  dà un riconoscimento giuridico alle molestie di genere e alle molestie sessuali in ambito lavorativo, mutuandone le definizioni dalla normativa Europea.

Il giudizio di offensività dell’atto è affidato alla “percezione di indesideratezza” del comportamento da parte della vittima, diventando così il parametro per distinguere i comportamenti molesti da quelli amichevoli e viene anche meno il riferimento alla “persistenza” del comportamento molesto.

L’anno successivo, con il  Codice delle pari opportunità tra uomo e donna la disciplina delle molestie viene collocata all’interno del Capo I del Titolo I del Libro III dedicato alla “promozione della pari opportunità nei rapporti economici” e, specificatamente, nell’art. 26 dove trovano espressa collocazione le definizioni di molestia e di molestia sessuale.

Entrambe le declinazioni del fenomeno sono ricondotte espressamente nell’alveo delle discriminazioni di genere, in quanto contrarie al principio fondamentale dell’Unione Europea della parità di trattamento e al principio  di eguaglianza sostanziale sancito nell’art 3 della Costituzione, la quale stabilisce la “pari dignità sociale”, che deve essere garantita – indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche, dalle condizioni personali e sociali – a tutti i cittadini rimuovendo gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori e le lavoratrici all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
In questa prospettiva, la libertà da molestie e molestie sessuali, è condizione irrinunciabile per il pieno sviluppo personale  e per l’effettiva partecipazione al mondo del lavoro da parte delle donne. In questo senso, il divieto di molestare deve essere visto come una garanzia del rispetto della dignità della persona e della sua libertà di lavorare.

Gli elementi caratterizzanti le definizioni di molestia e molestia sessuale sono mutuati dalla normativa Europea:

  1. I comportamenti indesiderati connessi al sesso: l’ampiezza dell’espressione “comportamento indesiderato” consente di comprendere tutte le condotte ritenute non opportune dalla vittima tramite l’adozione di un criterio soggettivo di valutazione della sussistenza della molestia che consiste nella percezione della vittima che avverte la condotta come lesiva della sua dignità, senza riferimento alcuno a motivazioni soggettive dell’agente;
  2. “Lo scopo” o “l’effetto” lesivo della dignità: le definizioni non sono unicamente legate al fatto che le condotte siano lesive, ma anche al fatto che i comportamenti abbiano “lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore” e “creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

La violazione della dignità e la compromissione dell’ambiente lavorativo.

Le molestie sessuali comprendono tutti gli atteggiamenti che “enfatizzano il ruolo della donna come oggetto sessuale piuttosto che come collega di lavoro” e tradizionalmente vengono classificate in relazione alle forme di manifestazione esteriore. Alcune forme di molestie sono più immediatamente riconoscibili altre, invece, hanno un aspetto più subdolo e latente.  Sono molestie:

  • tutti i contatti fisici indesiderati e sgraditi da parte del soggetto che li riceve (toccamenti e strusciamenti del corpo altrui, carezze, baci, pizzicotti, colpetti, abbracci, palpeggiamenti) e relativi tentativi con l’uso della forza sino ad arrivare ai tentativi di violenza o stupro;
  • le proposte indecenti, le avance pesanti e non ricambiate, le domande sulla vita intima e sulle inclinazioni sessuali, le insinuazioni, gli epiteti e gli insulti, gli apprezzamenti allusivi e i doppi sensi sgraditi, le esternazioni volgari sull’aspetto, sul corpo, sull’abbigliamento, le telefonate oscene, anonime e di minaccia, gli scherzi di cattivo gusto a sfondo sessuale, la pressione esercitata con le parole per ottenere favori sessuali, le richieste di appuntamenti in presenza di chiare manifestazioni di volontà contrarie da parte della vittima, le richieste implicite o esplicite di rapporti sessuali;
  • una serie di condotte tra loro eterogenee come scritte licenziose, atti di esibizionismo, occhiate maliziose o espressioni lascive,  sbirciare una persona di nascosto mentre si trova in luoghi riservati (toilette e spogliatoi), emettere fischi al passaggio, compiere gesti di significato sessuale, distribuire materiale pornografico in ufficio o affiggere  fotografie ed immagini scabrose e a chiaro contenuto sessuale che ricordino al soggetto molestato di essere considerato più per il ruolo sessuale che per le capacità lavorative.

Nel ricatto sessuale l’intenzione di compiere una molestia è accompagnata dalla minaccia di precludere opportunità di carriera alla vittima che non accolga le profferte sessuali, o di infliggerle delle sanzioni punitive come il licenziamento o il trasferimento. Quindi ciò che denota il ricatto sessuale è l’uso della coercizione come strumento per modificare o determinare le condizioni di impiego e per questo motivo è denominata anche molestia coercitiva.

Sembrerebbe quindi che non ci sia nessuna difficoltà, stante quanto disciplinato dalla normativa, a distinguere una molestia da un complimento, a tracciare il confine  tra ciò che può essere considerato complimento e ciò che invece diventa molestia.

E invece…

“Lo stupro è un crimine. Ma rimorchiare in maniera insistente o imbarazzante non è un delitto, né la galanteria un’aggressione machista […] Il loro solo torto è aver toccato un ginocchio, rubato un bacio, parlato di cose intime durante una cena professionale e inviato dei messaggi a connotazione sessuale a una donna che non era reciprocamente attratta. […]
Ognuna di noi può fare attenzione al fatto che il suo stipendio sia uguale a quello di un uomo, ma non sentirsi traumatizzata per uno struscio nella metro, anche se questo è considerato come un reato. Può anche immaginare un comportamento del genere come l’espressione di una grande miseria sessuale, o comunque come un non-avvenimento […] Pensiamo che la libertà di dire no a una proposta sessuale non esista senza la libertà di importunare”.

Questo l’appello che 100 donne, tra cui l’attrice Catherine Deneuve, hanno  firmato e pubblicato sul  “Le Monde” il 9 gennaio 2018 per rigettare “un tipo di femminismo che esprime odio verso gli uomini” e rivendicare la difesa della libertà di infastidire come indispensabile alla libertà sessuale.

Un appello che si è infranto contro il movimento #MeToo, che coinvolge milioni donne di tutto il mondo, e che dà esattamente la misura di quanto le dinamiche di predazione e sopraffazione siano così strutturate e diffuse da essere percepite come la “normalità” o, peggio ancora, come un diritto dei maschi.

Le francesi, firmatarie dell’appello, reclamano la tradizione del “così fan tutti”, il costume comune per il quale il corteggiamento comporta sempre e comunque una parte di aggressione o insistenza e può fare a meno del consenso.

Esistono differenti pensieri tra chi ritiene che si sia arrivati al “ridicolo”, chi ritiene che di questo passo si giungerà a una denuncia anche per un semplice ammiccamento, andando così a porre fine al gioco del corteggiamento e chi, invece, stila un decalogo del comportamento che dovrebbe tenere una donna per non farsi sorprendere impreparata dal molestatore.

Occorre quindi assolutamente intendersi sul significato di corteggiamento.

Dice la Treccani, alla voce corteggiare: “Cercare di conquistare l’attenzione e l’affetto di qualcuno con gentilezze, complimenti e simili”.
Nel corteggiamento vi è un gioco a due tra persone tra le quali vigono complicità, rispetto e reciprocità. Il secondo fine c’è (arrivare a un certo grado di intimità) ma è esplicito e condiviso, quindi c’è sempre un momento nel quale uno dei due può dire di no. Nel corteggiamento non ci sono rapporti di potere ma di rispetto.
Il concetto di corteggiamento maldestro come una mano sul ginocchio in un contesto di lavoro, una avance nel momento sbagliato è una molestia che cela un abuso di potere. E’ un‘interazione a una direzione, nella quale non c’è una reale possibilità di contrattare le regole, né si ha il potere di dire di no.

Più in generale, in un rapporto di potere non c’è complicità, non c’è gioco. Si crea un’atmosfera di soggezione o di timore.

Ma perché è così difficile?

Perché sono ancora tante le differenze, discriminazioni e asimmetrie tra i generi che si amplificano quando le questioni attengono al fronte sessuale. Questo perché nell’immaginario collettivo la donna continua ad essere considerata come “preda”, oggetto da possedere, indipendentemente o contro la sua volontà. E questa percezione è la motivazione primaria del persistere di violenze e abusi consumati sui corpi delle donne.

In Italia, la cultura tramanda questa concezione per cui la violenza maschile sulle donne è un qualcosa di “naturale”. Basti pensare che, fino alla fine degli anni 60 il marito poteva picchiare legalmente la moglie, l’adulterio femminile era considerato, sia dalla legge che dalla società, assai più grave di quello maschile e l’art. 587 del codice penale prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onore, suo o della famiglia. Fino al 1971, era vietato vendere e pubblicizzare i contraccettivi. Fino al 1978 l’aborto era illegale. Solo nel 1981 si è abrogato il cosiddetto “matrimonio riparatore”, che consentiva di estinguere il reato di stupro sposando la ragazza violentata. In caso di stupro di gruppo, il matrimonio di uno degli stupratori estingueva il reato di tutti gli altri!… E, ancora, fino al 1996, lo stupro rientrava tra i delitti contro la “moralità pubblica e il buon costume” anziché contro la persona.

Sicuramente molta è la strada fatta, ma ancora tanta ne abbiamo da fare e la libertà – per donne e uomini – di dire sì o no, di scegliere di vivere il proprio desiderio senza dover subire quello dell’altro, ma anche la libertà – per uomini e donne – di vivere il proprio desiderio senza poterlo imporre su quello dell’altro, resta ancora un obiettivo prioritario, lontano da essere raggiunto.

Di fronte ad un NO è necessario che vi sia l’accettazione del diniego ed il rispetto!

Concludiamo con le parole di Manuela Tomei – Direttrice del Dipartimento dell’ILO sulle Condizioni di Lavoro e l’Uguaglianza – in occasione della Conferenza di giugno: “Senza il rispetto, non esiste dignità sul lavoro, e senza dignità, non c’è giustizia sociale. Questa è la prima volta che il Mondo del Lavoro adotta una Convenzione e delle Raccomandazioni contro la violenza e gli abusi. Ora, condividiamo una definizione di violenza e molestia, e concordiamo su cosa deve essere fatto e da chi per prevenire e combattere il fenomeno. Speriamo che questi nuovi standard ci portino a vedere il tipo di futuro lavorativo che vogliamo.”

 

A cura dell’Esecutivo Donne Fisac/Cgil




L’insostenibile leggerezza del Decreto Sicurezza

Il decreto legge chiamato Sicurezza e immigrazione (d.l. 4 ottobre 2018 n. 113, approvato dal Senato il 7 novembre 2018 e convertito in legge 20 giorni dopo) è legge dello Stato da più di 12 mesi.
Fu fortemente voluto dall’allora Ministro degli Interni, che, bontà sua, definì il provvedimento un regalo al Paese fatto di «un po’ di regole e un po’ di ordine».

E malgrado il bon ton imponga che «a caval donato non si guardi in bocca», il «regalo» è stato dettagliatamente esaminato, e sono di questi giorni i dati, resi disponibili dallo stesso Viminale, che ne descrivono la ricaduta i termini di efficacia e risultati. Li hanno raccolti in un rapporto reso pubblico qualche giorno fa Openpolis e ActionAid. Il quadro che ne emerge è a dir poco desolante.

I dubbi, da subito, sull’effettività del decreto

Ci stupiamo? Ma da subito dalla nuova disciplina emergeva una serie di interrogativi e dubbi sull’applicabilità in concreto delle misure adottate.

In particolare, a decreto convertito, su queste pagine Stela Xhunga poneva 4 domande che a suo avviso avrebbe dovuto farsi chi ne era sostenitore. Partiamo da quelle, e vediamo se, a un anno di distanza, quei dubbi erano legittimi.

 

Con quali soldi il Governo intende rimpatriare gli irregolari?

Non vi è dubbio, la politica dei rimpatri è stata fallimentare; in campagna elettorale Matteo Salvini aveva promesso 600mila rimpatri ma i dati del Viminale danno cifre diverse: 3.299 rimpatri portati a termine a luglio 2019, a oggi ne sono stati disposti 27mila ed eseguiti 5.600. Si tratta di cifre più basse rispetto (non solo alle promesse ma anche) a quanto eseguito nei due anni di governo precedenti (7.383 nell’anno 2017 e 7.981 nel 2018).

Come sottolinea Openpolis, di questo passo, «anche nell’ipotesi impossibile di zero arrivi nei prossimi decenni, occorrerà oltre un secolo e oltre 3,5 miliardi di euro (5.800 euro a rimpatrio) per rimpatriarli tutti».

Tre miliardi e mezzo di euro! Per rimpatriarli tutti… Già, tutti. Ma quanti sono?

Immigrati irregolari: la «sicurezza» è il loro numero in aumento

Come emerge dallo studio sopra citato – che, sia detto tra parentesi, risulta una fonte straordinaria di dati – le nuove norme, nate per l’espressa volontà di contrastare la cosiddetta “emergenza migranti”, concorreranno «paradossalmente a crearne un’altra, quella degli irregolari presenti sul nostro territorio».  Si stima infatti che il numero degli irregolari potrà arrivare a 680mila entro il 2019 e superare i 750mila a gennaio del 2021.

È questa la conseguenza più immediata ed evidente dell’abolizione della protezione umanitaria, che diventa così una vera e propria emergenza di cui occorrerà farsi carico da subito. L’abrogazione dell’istituto del permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 1 del decreto) si è tradotta infatti nell’aumento immediato della percentuale dei “diniegati” (coloro ai quali viene negato il riconoscimento di una forma di protezione internazionale), che passano dal 67% nel 2018 all’80% nel 2019: in numeri assoluti 80mila persone che rischieranno di essere estromesse dal sistema e destinate ad aggiungersi alla popolazione degli irregolari.

Il permesso per motivi umanitari, che durava fino a 2 anni, portava con sé importanti effetti: consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale. Che ora vengono meno. E si arriva così a rispondere a un’altra delle domande da noi poste un anno fa.


Che fine faranno gli operatori che lavorano regolarmente nell’accoglienza?

Verranno licenziati.

Il 31 dicembre scadranno infatti i finanziamenti destinati ai progetti di accoglienza del Sistema “diffuso” di protezione per richiedenti asilo e rifugiati in Italia (gli Sprar, gestiti con i Comuni). Questi sono stati fortemente ridimensionati, e oggi i richiedenti asilo sono affidati ai nuovi Cas (gestiti dalle prefetture) che garantiscono di fatto solo vitto e alloggio, senza alcuna previsione di servizi per l’inserimento economico e sociale (a cominciare, per esempio, dall’insegnamento della lingua italiana).

Cancellati i centri di accoglienza, viene meno anche una lunga lista di figure professionali: si stima che resteranno senza lavoro circa 18 mila persone tra infermieri, assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali e insegnanti, quasi tutti giovani e laureati.

Come è stato scritto: «Una bomba sociale, che supererebbe anche il buco occupazionale che potrebbe crearsi con la chiusura dell’ex Ilva» di cui tanto si parla in questi giorni.

 

Fonte: Peopleforplanet.it




I pagamenti in contanti in Italia

Ricordiamo che da poco tempo è entrata in vigore la Normativa che prevede la comunicazione, all’Unità di Informazione Finanziaria di Bankitalia, di tutte le movimentazioni mensili di contante che superino la soglia di 10mila euro (precedentemente era di 15mila euro), allo scopo di incentivare l’utilizzo di forme di pagamento alternative al contante – con il vantaggio di minori costi e rischi ed una maggior tracciabilità delle transazioni, leggasi antiriciclaggio -.

Questa propensione all’uso del contante è presente anche in altri Paesi europei, come la Germania e l’Austria mentre in Francia sono più diffusi i pagamenti elettronici. Quasi inesistente il denaro contante in Finlandia, Olanda e Svezia (Paese non Euro). I dati chiariscono che l’uso del denaro contante come mezzo di pagamento delle transazioni è cresciuto molto a partire dal 2018, anno del fallimento della Lehman e durante le crisi del Debito sovrano degli 2010-2013. 

La Banca Centrale Europea stima che circa il 30% della circolazione complessiva (circa 350mld di Euro su un totale di poco più di 1.188mld di Euro fisici a giugno scorso) sia detenuta a scopo di pagamento. Una  ricerca della stessa Bce di tre anni fa, ma ancora attuale, calcola che il valore medio delle transazioni in contanti sia di 14 euro rilevati nei punti vendita, dimostrando come il denaro contante primeggi nei pagamenti di tutti i giorni per importi ridotti e rimanga, invece, unità di riserva in chiave precauzionale o di portafoglio.

Intanto si affacciano sulla scena, seppur lentamente, strumenti di pagamento diversi: le emissioni in euro nette da parte della Banca d’Italia (pari al 18% dell’intera area Euro fino al 2008) hanno evidenziato notevoli flessioni a partire dal 2011 per il limite a 999,99 per i pagamenti in contante, poi rimosso nel 2016.

 

Fonte: Fisac

 




FISAC Banca d’Italia: dalla parte di Liliana

Alla notizia della scorta assegnata a Liliana Segre dopo le minacce subite negli ultimi tempi, la domanda stupita che si è sentita più spesso è “Cosa stiamo diventando? Cosa siamo diventati?”.

Quale che sia la risposta, forse sarebbe saggio chiedersi anche “quando” lo siamo diventati. Forse è stato quando abbiamo dichiarato gli stadi di calcio “zone franche” in cui chiunque può ululare insulti a ebrei, zingari, neri: tanto nessun provvedimento efficace viene preso.

O forse è stato quando Gad Lerner è stato gravemente insultato e minacciato, chiamato con disprezzo “ebreo” mentre faceva il suo lavoro di giornalista al raduno leghista di Pontida. Oppure è stato quando abbiamo lasciato che i social network diventassero il terreno perfetto per aggressioni sessiste, auguri di stupro e di morte alle donne che si “espongono” con posizioni politiche scomode.

Abbiamo lasciato che i portatori di odio spostassero l’asticella sempre più in alto, fino all’impensabile: prendersela con una signora coi capelli bianchi sopravvissuta al campo di concentramento più famoso della Storia. Una donna che, probabilmente, pensava di aver già pagato alla vita un prezzo molto alto, ma che, condividendo i propri ricordi personali, ha contribuito a tenere in vita una memoria collettiva altrimenti destinata ad affievolirsi.

Ma è con la proposta di istituire una Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza che la senatrice Segre incarna sì la vittima, ma che reagisce e questo, per alcuni, non va affatto bene.

I gruppi parlamentari di destra si astengono dal voto sulla proposta di Commissione, lamentando – con involontario tragicomico senso dell’umorismo – tentativi di censura.

Il resto – gli insulti, le minacce – è cronaca di questi giorni; e la necessità di mettere sotto scorta una signora di novant’anni sopravvissuta ad Auschwitz non fa che certificare il mesto fallimento culturale della nostra società.

Roma, 8 novembre 2019

 

La Segreteria Nazionale Fisac-Cgil Banca d’Italia




Nessuno lascia la sua casa

Una poesia che è un pugno nello stomaco.

Da leggere assolutamente, soprattutto per coloro che, mentre pregano per il figlio che si è trasferito all’estero alla ricerca di un lavoro dignitoso, gioiscono per ogni gommone che affonda nel Mediterraneo.

 

CASA

Nessuno lascia la propria casa
a meno che casa sua non siano le mandibole di uno squalo;
verso il confine ci corri
solo quando vedi tutta la città correre,
i tuoi vicini che corrono più veloci di te,
il fiato insanguinato nelle loro gole.

Il tuo ex-compagno di classe,
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine,
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo;
lasci casa tua quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

Nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo;
fuoco sotto ai piedi,
sangue che ti bolle nella pancia.
Non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti il collo,
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale sotto il respiro;
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto,
singhiozzando ad ogni boccone di carta,
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.

Dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca,
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra.
Nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni,
sotto i vagoni,
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.
Nessuno striscia sotto ai recinti;
nessuno vuole essere picchiato,
commiserato.
Nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori,
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro di una città che arde
e un secondino nella notte
è meglio di un carico di uomini che assomigliano a tuo padre.

Nessuno ce la può fare,
nessuno lo può sopportare,
nessuna pelle può resistere a tanto.

Andatevene a casa neri,
rifugiati,
sporchi immigrati,
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese,
negri con le mani aperte:
hanno un odore strano,
selvaggio,
hanno distrutto il loro paese e ora
vogliono distruggere il nostro.

Le parole,
gli sguardi storti,
come fai a scrollarteli di dosso?
Forse perché il colpo è meno duro che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra le cosce
o gli insulti sono più facili da mandare giù
che le macerie,
che le ossa,
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

A casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo,
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa,
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda.
A meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo,
lasciati i panni dietro,
striscia nel deserto,
sguazza negli oceani,
annega,
salvati,
fatti fame,
chiedi l’elemosina,
dimentica la tua dignità:
la tua sopravvivenza è più importante.

Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia
Che ti mormora nell’orecchio
Vattene,
scappatene da me adesso:
non so cosa io sia diventata,
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.

Warsan Shire

 

Warsan Shire è una giovanissima poetessa britannica di origine somala. Se il nome non vi è nuovo è perché molto si è parlato di lei e della sua scrittura in occasione dell’uscita dell’album Lemonade di Beyoncé, alla quale Shire ha partecipato come autrice di alcuni dei testi. I suoi libri e le sue poesie hanno ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali e sono diventati stendardi in difesa dei diritti degli immigrati. Warsan Shire parla di immigrazione da immigrata e da sempre nelle interviste esprime la volontà di dare voce a chi voce non ha, a chi viene imbavagliato da una retorica razzista che vuole dividere gli esseri umani per appagare la divorante fame di consensi popolari e potere.

Fonte: http://losbuffo.com