Anche il Consiglio d’Europa stronca il Jobs act: “Violati i diritti”

Dopo la Consulta, altra bocciatura degli indennizzi automatici. A breve tocca alla Corte di Giustizia UE.

Le tutele previste dal Jobs act per chi è licenziato ingiustamente sono deboli. Insufficienti a riparare il danno subito dal lavoratore e a scoraggiare gli imprenditori dal cacciare persone senza valida ragione. Un nuovo colpo alla riforma del lavoro varata dal governo Renzi nel 2015: questa volta viene dal Comitato europeo dei Diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, per il quale la legge italiana vìola la Carta sociale europea.

Quando cinque anni fa l’esecutivo a guida Pd ha cancellato l’articolo 18, sperando così di aumentare l’occupazione, ha sostituito il diritto alla reintegrazione con i risarcimenti in denaro. Se l’allontanamento del lavoratore è illegittimo, in pratica, l’obbligo di riassumere è rimasto solo quando c’è discriminazione o il motivo riportato dall’azienda è inesistente. Per gli altri casi, il datore è tenuto a pagare un indennizzo di massimo 36 mensilità di stipendio. Proprio questo dettaglio è alla base della decisione del Ceds: l’esistenza di un tetto – le 36 mensilità, appunto – lega le mani ai giudici anche quando i danni creati al lavoratore richiederebbero somme più alte. Ecco perché il Comitato ha dato ragione al ricorso della Cgil, curato dall’avvocato Carlo De Marchis. A difendere invece il Jobs act in questa causa c’era anche il governo francese.

Il problema, per il Ceds, non è aver cancellato l’articolo 18, ma non averlo rimpiazzato con norme altrettanto efficaci a disincentivare i licenziamenti ingiusti. Non è la prima pronuncia che sancisce la violazione di diritti da parte del Jobs act. La prima versione della legge prevedeva un risarcimento che andava da un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità, ed era agganciato solo all’anzianità del lavoratore. Poi è arrivato il decreto Dignità che ha aumentato a sei il minimo e a 36 il massimo, mantenendo il meccanismo ancorato all’anzianità. Nel 2018, la Corte costituzionale ha travolto entrambe le leggi: il sistema degli indennizzi fissi non è adeguato perché non considera il danno effettivo che ha subito il lavoratore. Ora i giudici hanno discrezionalità nel quantificare i risarcimenti, con il limite minimo e massimo.

Per il Comitato europeo dei Diritti sociali è ancora troppo scarso; la decisione di questo organo, però, non è vincolante. “È un’opinione tecnica autorevole”, ha detto la Corte costituzionale. Quindi da un lato potrebbe orientare future sentenze, dall’altro rafforzerà i partiti che, d’accordo con la Cgil, chiedono di rivedere il Jobs act e far tornare l’articolo 18. A breve, arriverà la sentenza della Corte di Giustizia europea su due ricorsi che chiedono di ripristinare l’obbligo di reintegrazione almeno per i licenziamenti collettivi illegittimi.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” del 12/2/2020




“Bella ciao”. Insegnanti e CGIL AQ contro le ingerenze della politica

Fa fronte comune l’Istituto Mazzini Patini dell’Aquila, finito al centro delle polemiche per la presa di posizione del consigliere comunale Daniele D’Angelo che ha denunciato come una insegnante, nell’ora di musica, abbia fatto cantare ‘Bella ciao’ alla sua classe, un brano tra l’altro inserito, come affermato dallo stesso consigliere, nel libro di testo; d’altra parte, il tema non è certo la canzone popolare piuttosto l’ingerenza in un mondo, quello della scuola, che dovrebbe essere lasciato al riparo da contrapposizioni politiche.

Va tutelata in ogni modo la libertà d’insegnamento dei docenti, sancita dall’articolo 33 della nostra Costituzione, va preservata con forza l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei presidi che sono responsabili dell’indirizzo educativo; l’uscita del consigliere comunale ha messo in imbarazzo una intera comunità, quel mondo delicatissimo fatto della relazione tra studenti, insegnanti e genitori che non può essere in alcun modo strumentalizzato. Figurarsi per motivi politici.

Di certo, D’Angelo si è fatto portavoce del malcontento di qualche genitore: tuttavia, è con gli insegnanti e i presidi che ci si dovrebbe confrontare per discutere delle modalità d’insegnamento.

Sono amareggiato dell’entrata a gamba tesa e dell’intromissione della politica nella scuola. La libertà di insegnamento è uno dei cardini della Costituzione italiana, che va difeso con i denti. La canzone in oggetto non è scandalosa, semmai è l’inno che celebra l’atto di nascita della nostra democrazia“, le parole del preside dell’Istituto Marcello Masci.

Solidale con l’insegnante di musica il corpo docente della Mazzini-Patini:Esprimiamo vicinanza, affetto e solidarietà alla nostra collega per l’attacco del tutto fuori luogo da parte di un personaggio politico. Ribadiamo la nostra fedeltà ai valori della Repubblica e alla sua Costituzione, nata grazie al coraggio delle donne e degli uomini che si opposero alla dittatura. Oggi, noi, donne e uomini liberi e democratici, docenti ed educatori al servizio di quei valori, ci opponiamo con fermezza a chiunque tenti di condizionare la libertà di insegnamento, strumentalizzando finanche una canzone come ‘Bella Ciao’, che è di parte e divisiva, sì, perché separa gli antifascisti dai fascisti, i democratici dagli antidemocratici, la libertà dalla dittatura e che, come ribadito dal nostro dirigente scolastico, è l’inno che celebra la nascita della nostra democrazia“.

Sono un genitore della classe finita all’onore delle cronache per questa becera vicenda assolutamente veicolata dal consigliere D’Angelo“, ha aggiunto il papà di uno studente.Vorrei puntualizzare che non esiste nessun gruppo di genitori, essendo mia moglie rappresentante di classe e quindi a conoscenza dei fatti, e che il consigliere è portavoce soltanto della sua persona e di nessun altro. Non si può mettere alla gogna una insegnante ed una professionista che tutti i giorni si prodiga per la sana crescita dei nostri ragazzi. La politica si occupi di altro e soprattutto non parli a nome di persone che non rappresenta. Giu le mani dalla nostra Professoressa“, l’affondo.

Ancor più duro il presidente del Consiglio d’Istituto, Maurizio Mucciarelli:Vogliamo che il consigliere comunale Daniele D’Angelo chieda scusa alla professoressa, al dirigente scolastico, ma anche agli alunni, che sono le vere vittime della sua inaccettabile strumentalizzazione politica“, la presa di posizione del presidente che parla a nome della componente genitori del Consiglio.Con convinzione prendiamo le distanze e ci dissociamo da quanto dichiarato dal consigliere comunale D’Angelo, sottolineando che non esiste alcun gruppo di genitori che condivide le sue accuse. Riteniamo invece doverose le sue scuse alla professoressa ingiustamente coinvolta in questa vicenda, al dirigente scolastico Marcello Masci che ha difeso la libertà d’insegnamento e soprattutto ai nostri figli, utilizzati per fini politici. La politica, a nostro avviso, non deve entrare nelle scuole e non deve prendere di mira gli insegnanti che ogni giorno si prodigano per accompagnare la crescita dei nostri figli”.

Più chiaro di così.

 

CGIL L’Aquila: “Piena solidarietà all’insegnante e al preside”

‘Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi’. Sandro Pertini.

La CGIL dell’Aquila esprime “piena solidarietà all’insegnante ed al preside della scuola secondaria Mazzini Patini che con coraggio e fermezza difendono i valori della nostra carta costituzionale ed il ruolo della scuola nella società italiana. Bella Ciao è entrata a far parte di quel patrimonio di valori del nostro paese nato dalla lotta di resistenza contro il nazi-fascismo. Patrimonio che va difeso e divulgato in ogni luogo. La scuola non deve informare ma formare le nuove generazioni partendo necessariamente dalla difesa della libertà, della democrazia e della giustizia sociale che sono valori antitetici rispetto a quelli che sottendono alle affermazioni dello stesso consigliere comunale che dichiarò qualche mese fa che ‘il fascismo è uno stile di vita’”.

Aggiunge il sindacato: “Consigliamo vivamente al signor Daniele D’Angelo di frequentare quelle tante istituzioni, anche scolastiche, che con dedizione e abnegazione continuano a difendere, divulgare ed affermare il valore dell’antifascismo, affinché possa recuperare un senso di appartenenza ai valori fondanti della nostra Repubblica. E se non ci illudiamo che saprà accogliere il nostro invito, abbiamo invece la certezza che chi canta Bella Ciao sarà sempre dalla parte giusta, sarà nostro fratello, sarà nostra sorella e collaborerà sempre alla difesa della democrazia e della liberta conquistate con la lotta”.

 

FLC CGIL: “Ingerenza del consigliere è un segnale preoccupante”

La FLC CGIL dell’Aquila “deplora la posizione assunta dal consigliere comunale Daniele D’Angelo che entra con arroganza nella libertà di insegnamento, diritto individuale di ogni docente sancito dall’articolo 33 della Costituzione. La libertà di insegnamento rende la scuola pubblica italiana un’alta espressione di esercizio della democrazia e le attribuisce il carattere di officina di sperimentazione didattica al fine dell’acquisizione della conoscenza. La scuola prima ancora di essere luogo di istruzione è luogo di educazione alla cittadinanza ed ogni insegnante è libero/a di scegliere la modalità didattica che, analizzato il contesto e valutatene le vocazioni e le possibilità, permetta il raggiungimento dell’obiettivo formativo”.

La politica non ha competenza in fatto di insegnamento “ed è bene che stia lontana dalle aule e si impegni, invece, nei luoghi deputati per assicurare alla scuola pubblica la dignità che le spetta in termini di risorse, edilizia e servizi. Riteniamo che l’invadenza del consigliere D’Angelo sia un segnale preoccupante del clima che si respira in città e ci uniamo a tutte le voci che in queste ore stanno contestando un gesto che non fatichiamo a definire di propaganda”.

FLP CGIL, per voce della segretaria generale Miriam Del Biondo, esprime “solidarietà all’insegnante” condividendo “pienamente la risposta del Dirigente Scolastico. Infine, ma non per ultimo, riteniamo che insegnare e far cantare Bella Ciao sia il segnale di un forte senso di appartenenza ai valori dell’Italia repubblicana e democratica nata dalla lotta partigiana e dalla Resistenza. La FCL CGIL è fiera di tutelare lavoratori e lavoratrici di una scuola che su quei valori costruisce la sua storia anche attraverso la trasmissione di una memoria che si tende ad offuscare. Inoltre, persino se volessimo spogliare Bella Ciao da ogni connotazione storico politica rimarrebbe comunque un canto diffuso di gioia, di impegno, di lotta e di speranza che è quello di cui, soprattutto in questa città, abbiamo ancora tutti fortemente bisogno. Si occupi la politica cittadina della ricostruzione dell’edilizia scolastica se davvero vuole occuparsi di scuola. Allora sì che sarà stata utile ed avrà fatto ciò che le compete”.

 

Fonte: www.news-town.it




Diritto di critica, una sentenza esemplare

Un delegato sindacale di un’azienda di servizi aveva rilasciato un’intervista ad un giornale locale in cui criticava il trasferimento di un collega di lavoro ad un altro comune, con conseguenti difficoltà nell’espletare il servizio di raccolta rifiuti per il quale l’impresa datrice di lavoro aveva ottenuto un appalto.

Il sindacalista era stato licenziato per tali dichiarazioni ritenute dall’azienda “gravissime, lesive e foriere di danni”.

Dapprima, il Tribunale d’Imperia riteneva il licenziamento legittimo; successivamente la Corte d’Appello di Genova lo dichiarava nullo in quanto ritorsivo; l’azienda faceva quindi ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte ha ora deciso la causa con la sentenza n. 31395/2019, ritenendo condivisibili ed esaustive le argomentazioni svolte nella sentenza d’appello su due punti in particolare. 

In primo luogo, era stato accertato il rispetto della cosiddetta “continenza sostanziale” del diritto di critica (in ordine alla veridicità dei fatti dichiarati) e dell’ulteriore requisito della “continenza formale” (in quanto l’intervista non presentava toni dispregiativi, volgari, denigratori, polemici); non sussisteva alcuna condotta gravemente lesiva della reputazione né alcuna violazione dei doveri fondamentali alla base dell’ordinaria convivenza civile. 

In secondo luogo, si era accertato il carattere ritorsivo del licenziamento, in quanto l’unico motivo che aveva giustificato il licenziamento – ossia il rilascio di dichiarazioni ritenute gravissime, lesive e foriere di danni per l’azienda – si era rilevato insussistente.

La Corte di Cassazione ha pertanto respinto il ricorso del datore di lavoro, stabilendo definitivamente che il licenziamento è nullo in quanto discriminatorio, con conseguente diritto alla reintegra sul posto di lavoro.

Si tratta di una sentenza assolutamente chiara. Un lavoratore piuttosto che un sindacalista hanno pieno diritto ad esprimere una critica nei confronti del datore di lavoro nei limiti così delineati: un licenziamento o qualunque altra sanzione disciplinare comminata in tali circostanze sono illegittimi.

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Alberto Massaia
Dipartimento Giuridico Fisac/Cgil

 

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Quando il fascismo dimezzò lo stipendio alle donne per la loro “indiscutibile minore intelligenza”

Per la serie “hanno fatto anche cose buone”, il 20 gennaio del 1927, con un decreto, il Governo italiano interviene sui salari delle donne riducendoli alla metà rispetto alle corrispondenti retribuzioni degli uomini.

Del resto avrebbe scritto qualche anno dopo Ferdinando Loffredo nella sua Politica della famiglia (1938):
La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito […] La conseguenza dell’emancipazione culturale – anche nella cultura universitaria – porta a che sia impossibile che le idee acquisite permangano se la donna non trova un marito assai più colto di lei . […] deve diventare oggetto di disapprovazione, la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con l’uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici […] Il lavoro femminile […] crea nel contempo due danni: la «mascolinizzazione» della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali (evidentemente veniva considerato un male: i poveri dovevano restare poveri per essere più facilmente manovrabili); considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito […]; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe”.

Diceva similmente Benito Mussolini su Il Popolo d’Italia del 31 agosto 1934 :

“L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbero di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale”.

La donna, dunque – per il bene della Patria! – deve essere collocata in casa, a fare figli.

La prima offensiva al lavoro femminile del Regime si avrà nell’insegnamento.

Con il Regio Decreto 2480 del 9 dicembre 1926 le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, verranno tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto (già il Regio Decreto 1054 del 6 maggio – Riforma Gentile –  vietava alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie.  Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare).

Una legge del 1934 (legge 221) limiterà notevolmente le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fisserà un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati.

L’anno successivo, il Regio Decreto n. 989/1939 preciserà addirittura quali impieghi statali potessero essere alle donne assegnati: servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici; servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi di istruzione classica e magistrale; servizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca. L’articolo 4 della stessa legge, suggerirà altri impieghi “particolarmente adatti” alle donne: annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; cassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici ed avicoli; direttrici dei laboratori di moda.

Del resto, scriveva Giovanni Gentile ne La donna nella coscienza moderna (1934):
La donna non desidera più i diritti per cui lottava […] (si torna) alla sana concezione della donna che è donna e non è uomo, col suo limite e quindi col suo valore […]. Nella famiglia la donna è del marito, ed è quel che è in quanto è di lui”.

In un tempo in cui al Festival di Sanremo viene invitata una donna perché è bella e “sa stare un passo indietro al proprio uomo” forse sarebbe opportuno non dimenticare…

Ilaria Romeo, Archivio Storico Cgil

 

Fonte: www.fortebraccionews.it

 

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Pressioni commerciali e stress lavoro-correlato

In Francia una sentenza che farà la storia ha, per la prima volta, sancito la punibilità della fattispecie di “molestie morali istituzionali”: un sistema messo in piedi, tra il 2007 e il 2010, da France Telecom e da alcuni suoi dirigenti (tra cui l’ex AD Didier Lombard) per spingere i dipendenti a dimettersi, peggiorando sistematicamente le loro condizioni di lavoro. Secondo la sentenza, queste condotte consapevolmente vessatorie hanno concausato, in alcuni casi, (fino al 2008) il suicidio di alcuni dipendenti, che lasciarono spesso messaggi di addio contenenti pesanti accuse verso la società. L’AD è stato condannato ad un anno di reclusione, la società a pagare una multa di 75.000 euro, più risarcimenti milionari a circa 150 dipendenti o loro famiglie, costituitesi parte civile.

Le vessazioni poste in essere nel caso France Telecom configuravano un vero e proprio mobbing di massa, un caso limite. Tuttavia non sono i fenomeni estremi che segnano un trend, ma quelli “normali”, che si riproducono su grande scala. E il trend, specie nelle banche, è quello di un elevato e crescente livello medio di stress, imputabile prevalentemente ad una combinazione di due fattori, presenti contemporaneamente: una organizzazione dei fattori di produzione e del lavoro inefficiente, ed una eccessiva pressione commerciale.

Una ricerca commissionata dalla Fisac Cgil in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma ha indicato che il 28% dei lavoratori bancari fa uso di psicofarmaci. In pratica, più di un lavoratore su quattro. I dati del 2015- 2016 del centro di Medicina del lavoro di Pisa raccontano che, tra le persone visitate, i bancari sono secondi in quanto a stress solo a chi lavora nella grande distribuzione. L’indagine realizzata da Università e sindacato entra nel dettaglio: l’84% dei bancari sentiti vive una condizione di disagio, l’82% soffre di ansia se non raggiunge gli obiettivi aziendali perché teme un demansionamento o un trasferimento, il 59% non riesce ad adattarsi ai continui cambiamenti, l’84% è a disagio ogni volta che consiglia un prodotto inserito nel proprio budget, il 63% ritiene moralmente ingiuste le continue richieste di vendere prodotti.

Lo stress lavoro-correlato è stato definito nell’accordo di Bruxelles 8/8/2004,  recepito in Italia nel 2008 da un Accordo Interconfederale, come una situazione di prolungata tensione, che può essere causata da fattori diversi come il contenuto del lavoro, l’ inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro, carenze nella comunicazione, etc. e che può portare a ridurre l’efficienza sul lavoro e a determinare un cattivo stato di salute.

In termini civilistici, l’incidenza dello stress negativo sul contratto di lavoro deriva dalla violazione dell’art.2087 del codice civile.
Tale norma cardine, da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo non si limita al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma obbliga l’azienda ad astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta e “istituzionalizzata” dalla Corte di Cassazione con la lettura “costituzionalmente orientata” dell’art.2059 c.c. (cfr. Cassazione, 8827 e 8828/2003), si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
Da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento lesivo posto in essere dai superiori, preposti o altri dipendenti nello svolgimento dell’attività lavorativa.
La legislazione della sicurezza (T.U. 81/2008, art. 2, lett. o), nella definizione di salute (mutuata dall’OMS che l’ha elaborata fin dal 1948), parla di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in assenza di malattia o d’infermità”.

Il danno derivante da stress correlato al lavoro è inquadrato dalla giurisprudenza nella categoria del danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale (art.2059 c.c.) è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, vale a dire (cfr. Cassazione 7471/2012) al ricorrere di una delle seguenti condizioni:

  • quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (art.185 c.p.)
  • quando la legge prevede espressamente la risarcibilità del danno non patrimoniale (ad esempio, nel caso siano state usate modalità illecite per la raccolta dei dati personali, ex art.29 comma 9 legge 675/96 per violazione art.9 stessa legge)
  • quando l’illecito ha violato diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, che quindi, non essendo ex ante individuati dalla legge ordinaria, dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (cfr. Cassazione, sentenze 8827 e 8828 del 2003).

Appare quindi evidente come il danno da stress correlato al lavoro possa essere riconosciuto come risarcibile prevalentemente attraverso l’avverarsi della terza condizione, vale a dire la produzione giurisprudenziale. Infatti non è detto che la condotta che genera elevato stress possa anche essere configurata come reato, né risultano norme in cui la legge ordinaria dichiara espressamente risarcibile un danno da stress. Di conseguenza, è attraverso le sentenze dei giudici che le maglie della tutela della salute, intesa nella sua definizione più completa, possono allargarsi fino a ricomprendere quelle ipotesi in cui il danno da stress correlato al lavoro viene dichiarato risarcibile in quanto la condotta illecita lede diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale (fonte sovraordinata).

In conclusione, il diritto del lavoratore ad ottenere un risarcimento del danno da stress correlato al lavoro presuppone il ricorrere di tre elementi:

a)una condotta illecita del datore di lavoro

b)un danno medicalmente accertabile

c)un nesso di causalità, o concausalità, tra la condotta illecita e il danno

  1. a) mentre mobbing e straining in termini giuridici sono declinate come esercizio di molestie e minacce di uno o più soggetti fisici specifici verso altri, lo stress lavoro-correlato si attaglia maggiormente, come categoria, alle situazioni di fatto presenti in molte aziende bancarie, dove è l’organizzazione complessiva del lavoro, con il suo miscuglio di inefficienza e pressione commerciale eccessiva, a generare una situazione di tensione “ambientale”. Sotto questo aspetto la norma cardine, da tenere presente ai fini della risarcibilità del danno (posto che le fattispecie inquadrabili come reati sono residuali e da considerare extrema ratio), è l’art.2087 del codice civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In questo modo l’ “imputato” è l’azienda, non singoli esponenti della stessa.

 

  1. b) i danni che la medicina del lavoro e la psichiatria riconoscono come direttamente collegabili a situazioni di elevato e persistente stress lavorativo sono vari: infarto, patologie autoimmuni, patologie psichiche, disturbi dell’adattamento, sindrome ansioso-depressiva. A questi responsi attingono ormai molti giudici per asseverare l’accertabilità medica del rapporto stress-danno alla salute.

 

  1. c) proprio in quanto il danno da stress lavoro-correlato è riferibile ad un contesto organizzativo “patogeno”, piuttosto che a singoli comportamenti ascrivibili a singoli individui, appare quanto mai appropriata la definizione in massima della sentenza della Corte d’appello de L’Aquila del 9 gennaio 2003: “ritenere il datore di lavoro responsabile della malattia ex articolo 2087 cod. civ. per mancata adozione delle misure idonee a preservare l’integrità psicofisica del dipendente, in quanto sia individuabile una responsabilità dell’imprenditore nel determinismo dello stress, conseguente alla violazione di un obbligo su di lui gravante e scaturente dal rapporto di lavoro”.

 

A cura della Consulta Giuridica Fisac/Cgil

 

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27 gennaio 2020 giorno della memoria

Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche arrivano ad Auschwitz. L’orrore dei campi di concentramento nazisti si manifesta in tutta la sua drammaticità; in questo luogo della Polonia incontrano l’espressione più bieca e criminale di cui possono essere capaci gli uomini nei confronti dei propri simili. Fino a disporre in modo assoluto della vita di chi viene giudicato inferiore.
Un disegno folle, frutto di un’ideologia che fa della superiorità della razza la distinzione tra le persone, ha pianificato milioni di morti, in un disegno delirante di conquista del mondo.

 

Dal 1939, con l’invasione della Polonia da parte di Hitler, furono istituiti oltre mille ghetti.
Lì vissero, per un periodo più o meno lungo, relegati in spazi sempre più piccoli e in condizioni disumane, centinaia di migliaia di persone. Si calcola furono i due terzi delle vittime della Shoah.
Nei primi tempi, per separare le persone di religione ebraica da quelle di “pura razza ariana”, vennero delimitate delle zone delle città, appositamente distinte, con dei cartelli:
“Pericolo epidemie. Zona proibita”.
È chiaro che, già prima della costruzione dei muri di recinzione, alla segregazione si aggiunge lo sfregio.
Il disegno: l’identificazione del nemico, l’isolamento, poi ogni ordine di privazione, la violenza gratuita, la fame, la morte per stenti, per malattia. Infine la deportazione e il destino affidato ai carnefici dei campi di sterminio.

Commemorando il GIORNO DELLA MEMORIA, vogliamo ricordare anche ciò che rese evidente fin da subito le atrocità di cui si sono macchiati nazisti e fascisti. Perché non accada mai più.

MAI indifferenti.

 

ANPI
Sezione “Adele Bei” – Corso Italia 25, Roma

 

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ISEE precompilato 2020: come si richiede?

L’ISEE è l’indicatore che serve per valutare e confrontare la situazione economica dei nuclei familiari che intendono richiedere una prestazione sociale agevolata. Da quest’anno ci sono, in questo senso, molte novità.


ISEE Precompilato 2020: novità in vista.
Al via dal primo gennaio, infatti, la nuova versione di Isee precompilato. Il nuovo ISEE, per essere ancora più equo nel distribuire il costo delle prestazioni sociali e sociosanitarie tra i cittadini italiani, introduce migliori criteri di valutazione del reddito e del patrimonio, insieme a controlli più attenti.

Ecco una guida per capire come funziona.

Che cos’è l’ISEE?

L’Indicatore della Situazione Economica Equivalente ( ISEE) è un indicatore che serve a valutare e confrontare la situazione economica delle famiglie. Ciò detto, i cittadini devono compilare la Dichiarazione Sostitutiva Unica ( DSU) per la richiesta dell’ ISEE.

Per ottenere la propria certificazione ISEE è necessario compilare la Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU), un documento che contiene le informazioni di carattere anagrafico, reddituale e patrimoniale necessarie a descrivere la situazione economica del nucleo familiare.

La DSU e l’ ISEE sono utilizzati dagli utenti che fanno richiesta di prestazioni sociali agevolate, ovvero di tutte le prestazioni o servizi sociali o assistenziali la cui erogazione dipende dalla situazione economica del nucleo familiare del richiedente, ossia basata sulla cosiddetta prova dei mezzi.

ISEE Precompilato 2020: le novità

Le principali novità del nuovo modello di Dichiarazione Sostitutiva Unica (DSU) sono le seguenti:

  • Il modello MINI, una dichiarazione semplificata che riguarda la maggior parte delle situazioni ordinarie.
  • ​Una dichiarazione a moduli, specifica per una determinata prestazione o per una particolare condizione del beneficiario. In questo tipo di dichiarazione rientra, ad esempio, la richiesta di prestazioni socio-sanitarie per persone con disabilità che possono far riferimento ad un nucleo familiare ristretto. Oppure le prestazioni universitarie per studenti che non fanno parte del nucleo familiare di origine.
  • La semplificazione delle procedure: informazioni come il reddito complessivo o altri dati già registrati dall’INPS o dall’Agenzia delle entrate, vengono direttamente recuperate dagli archivi. Così non c’è più bisogno che se ne occupi il cittadino in sede di dichiarazione.
  • L’ISEE corrente, una formula particolare che consente di aggiornare il proprio ISEE in qualsiasi momento dell’anno, senza dover aspettare la presentazione della dichiarazione fiscale. E’ possibile richiederlo qualora si verifichi, in maniera alternativa:
    • una variazione della situazione lavorativa ovvero un’interruzione dei trattamenti previdenziali, assistenziali e indennitari non rientranti nel reddito complessivo (dichiarato ai fini IRPEF) per uno o più componenti il nucleo familiare;
    • una variazione della situazione reddituale complessiva del nucleo familiare superiore al 25% rispetto alla situazione reddituale individuata nell’ISEE calcolato ordinariamente.

Come presentare la Dichiarazione?

La dichiarazione va presentata all’Ente che fornisce la prestazione sociale agevolata, o anche al Comune o ad un centro di assistenza fiscale (CAF) o alla sede INPS competente per territorio. La Dichiarazione può essere anche presentata direttamente dal richiedente per via telematica sul sito dell’INPS utilizzando il PIN dispositivo.

Ricordiamo infine che le informazioni contenute nella DSU sono in parte autodichiarate (ad esempio informazioni anagrafiche, dati sulla presenza di persone con disabilità) ed in parte acquisite direttamente dagli archivi amministrativi dell’Agenzia delle entrate. Come ad esempio reddito complessivo ai fini IRPEF e dell’INPS (trattamenti assistenziali, previdenziali ed indennitari erogati dall’INPS).

Per le parti autodichiarate, un solo soggetto compila la DSU, c.d. dichiarante, che si assume la responsabilità, anche penale, di quanto in essa dichiara.

Documenti utili in allegato

Qui di seguito tutta la documentazione utile per il 2020.

 

Fonte: www.lentepubblica.it




Ma davvero con il Jobs Act i licenziamenti sono diminuiti?

Il deputato di Italia Viva Luigi Marattin sostiene che una semplice differenza tra percentuali sia la “prova” che il Jobs Act abbia causato una diminuzione dei licenziamenti.


Anzitutto una premessa: questi non sono arrovellamenti su questioni tecniche: spiegare perché l’affermazione è infondata è importante, sia per la rilevanza del tema in sé, sia perché pubblico e giornalisti devono imparare a difendersi dalle interpretazioni fantasiose dei dati.

Per sostenere che tra due variabili (il “trattamento”, cioè il Jobs Act, e il suo effetto ipotetico, cioè i licenziamenti) esiste un rapporto di causa-effetto bisogna confrontare l’andamento dei licenziamenti in un gruppo di lavoratori “trattati” in modo “randomizzato” (cioè che, per puro caso, abbiano sottoscritto un contratto di lavoro successivamente all’approvazione del Jobs Act) e in un gruppo “di controllo”.

Bisogna inoltre tenere conto della miriade di altri fattori macroeconomici e individuali che possono influenzare la probabilità di licenziamento dei lavoratori trattati e non trattati. Nonché delle forze che possono orientare nella stessa direzione sia l’esposizione al trattamento (in questo caso l’assunzione regolata dalla nuova misura di policy) e il suo ipotetico effetto (i licenziamenti).

Ora, uno studio che tenga conto di tali aspetti metodologici esiste. Per identificare l’effetto del Jobs Act, Tito Boeri e Pietro Garibaldi hanno usato un dataset formidabile, che contiene informazioni su assunzioni e licenziamenti dell’intero universo delle imprese italiane tra i 10 e i 20 dipendenti e sulla storia professionale dei rispettivi lavoratori. Il paper si può scaricare qui.

L’analisi empirica seleziona tutte le assunzioni e i licenziamenti effettuati tra il gennaio 2014 e il dicembre 2016. Poiché dal marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti i contratti dei nuovi assunti sono stati regolati dal Jobs Act, le imprese con più di 15 dipendenti sono considerate “trattate” (cioè si assume che i loro nuovi dipendenti abbiano sottoscritto contratti regolati dal Jobs Act), mentre quelle sotto i 15 dipendenti sono il “gruppo di controllo”.

Grazie alla ricchezza dei dati, le stime tengono conto dei molti fattori che potrebbero creare confusione inducendo a scambiare una correlazione spuria per un nesso causale, come le caratteristiche personali dei lavoratori, la situazione macroeconomica e i trend seguiti dalle variabili rilevanti prima dell’introduzione del Jobs Act.

Per accertare l’esistenza di un rapporto di causa-effetto, gli autori hanno analizzato la differenza nelle assunzioni e nei licenziamenti *prima* e *dopo* l’introduzione del Jobs Act e tra le imprese “trattate” e “di controllo”.

I risultati sono molto interessanti. In sintesi:

– Nelle imprese “trattate” si osserva un aumento del 60% delle assunzioni a tempo indeterminato e del 100% della conversione dei rapporti a tempo determinato rispetto al gruppo di controllo.

– Ma le imprese trattate registrano anche un aumento dei licenziamenti del 50% rispetto alle imprese non trattate.

Quindi: la differenza tra le percentuali di licenziamento dei lavoratori assunti coi due regimi è suggestiva ma non consente alcuna inferenza causale. In altre parole, sulla base di quel dato è impossibile affermare che il Jobs Act abbia diminuito i licenziamenti.

Le uniche stime credibili (cioè metodologicamente fondate) che per il momento abbiamo a disposizione suggeriscono che, invece, sia avvenuto l’esatto contrario. Il Jobs Act ha causato un aumento delle assunzioni a tempo indeterminato, ma anche un aumento dei licenziamenti, statisticamente significativo e di dimensioni notevoli.

 

Fabio Sabatini
Professore Associato di Economia e Direttore dell ‘European PH.D. in Socio-Economic and Statistical Studies presso l’Università “La Sapienza” di Roma




A te che ti chiedi a cosa serve il sindacato

Venerdì scorso è stata una giornata importante. Il reddito netto di sedici milioni di persone è aumentato, o meglio, aumenterà a partire da luglio, quando ai lavoratori che hanno retribuzioni fino a 40.000 euro, la busta paga verrà “rinforzata” fino a 100 euro al mese.

Maurizio Landini lo ha sempre detto: il cambiamento iniza dalle buste paga in un paese in cui, come titola l’ultimo riuscitissimo libro di Marta e Simone Fana, “Basta salari da fame”, (recensito sul nostro blog da Maurizio Brotini), abbiamo una questione salariale grande come una casa.

Ieri, nell’incontro col governo, il sindacato è riuscito ad ottenere la riduzione delle tasse per chi lavora. Un risultato che non è caduto dal cielo, che nessuno ha regalato ma è il frutto di un lungo percorso di mobilitazione iniziato il 9 febbraio dell’anno scorso, quando Cgil, Cisl e Uil, riempirono piazza San Giovanni per chiedere un cambio di passo e per redistribuire un po’ di ricchezza.

fb_img_1579292074716599323747718290076.jpgOra, non è che siamo diventati improvvisamente ricchi, come ha sottolineato ieri Landini, e tanto ancora c’è da fare. Sugli incapienti, sui lavoratori poveri, sui precari, sui pensionati, sulle pensioni dei giovani, sulla legge Fornero, sui rinnovi contrattuali. Tutte questioni su cui il sindacato chiede risultati concreti al governo. Intanto, ieri un grande passo avanti è stato fatto e va riconosciuto al sindacato – che non è certo esente da errori – di aver fatto bene il suo mestiere, di aver portato più soldi nelle tasche dei lavoratori.

A questo – ma non solo a questo – serve il sindacato.

fonte: fortebraccionews




Le pubblicità dei prodotti finanziari e i testimonial “ignari”

I vip che promuovono brand bancari si sono mai preoccupati di tutelarsi dai rischi derivanti dalla bad reputation?

Scegliere un volto noto come testimonial di una campagna pubblicitaria rappresenta una decisione strategica vincente dell’azienda/brand soprattutto se il partner risulta essere credibile e, ancor più, se crede in ciò che rappresenta.

A tal riguardo, mi sono sempre chiesto, guardando gli spot pubblicitari di banche e società finanziarie, quanto e cosa sapessero di quell’azienda o di quel prodotto  i personaggi del mondo della cultura, informazione, spettacolo e sport chiamati a fare i testimonial.

Probabilmente nulla! Come la maggior degli italiani, tralaltro, che, in termini di informazione e cultura finanziaria, sono tra i meno preparati rispetto ai cittadini Ue e di altri Paesi avanzati.

Una cosa è certa: il testimonial viene scelto per rappresentare un brand. Il marchio, a cui si associa il personaggio persona fisica che lo pubblicizza, deve rispecchiarsi nel testimonial e viceversa. Si assiste, molto spesso, ad una simbiosi tra brand e persona.

Simbiosi talmente forte che i contratti che di solito regolano questo tipo di pubblicità possono prevedere clausole e obblighi comportamentali che devono essere rispettati dal testimonial anche nella vita privata. Perché il personaggio famoso ha delle responsabilità ben precise che riguardano anche la vita privata, nei confronti dei suoi fan e del brand che pubblicizza.

All’interno dei contratti ci sono molto spesso anche le c.d. clausole morali. In altri termini la celebrity ha l’obbligo, ad esempio, di mantenere nella vita privata comportamenti eticamente corretti oppure di non rilasciare dichiarazioni che in un certo qual modo possano incidere negativamente sulla reputazione dell’azienda.

Ma, in termini di responsabilità, è garantita la reciprocità? Cioè i vip si sono mai preoccupati di tutelarsi dai rischi derivanti dalla bad reputation del brand bancario o del prodotto finanziario?

Sono certo che il brillante attore Enrico Brignano, benché interprete di uno dei più esilaranti monologhi contro le banche, non immaginasse neppure cosa si potesse celare dietro la gestione della Banca Popolare di Bari quando è stato ingaggiato per la convention aziendale; così come sono convinto che il simpaticissimo Nino Frassica non sia assolutamente consapevole del fatto che, pubblicizzando una carta di credito revolving  (carta Easy di Compass), stia spingendo i cittadini ignari verso un prodotto di fatto usuraio (tasso medio circa 16%; soglia usura del 24%) e in una spirale senza fine di pagamenti imposti prima di poter sancire la chiusura del debito.

Non solo ma nei miei ventidue anni di permanenza in quel sistema mi sono spesso imbattuto in famosi e gloriosi personaggi del mondo dell’informazione che partecipavano, retribuiti profumatamente, a convention aziendali dove si magnificavano i comportamenti virtuosi del management (di banche poi coinvolte in scandali e default).

Ho ascoltato peana che la propaganda della Romania di Ceausescu al confronto sembrava ridicola.

Quello che stona, però, è che poi molti di quei personaggi, non sicuramente quelli sopra citati, spesso vanno in televisione a fare i moralizzatori del sistema-paese nel rispetto di una etica dei comportamenti che riguarda però … sempre gli altri.

Etica, che parolone. E soprattutto che abuso improprio nel nostro Paese. Spesso confusa con il concetto di onestà.

Senza voler scomodare filosofi e sacre scritture, forse è il caso di ricordare semplicisticamente che una persona onesta è “quella che non ruba” mentre una persona orientata a vivere secondo principi etici è “quella che, non solo, non ruba ma che se vede un altro rubare lo denuncia”, intendendo come denuncia anche la capacità di dire NO a un agenzia pubblicitaria.

Perché la faccia c’è chi ce la mette e chi ce la rimette.

 

Fonte: www.peopleforplanet.it