Katherine Johnson, la donna che ci portò sulla luna

Era testarda Katherine Johnson, ribelle, ma anche appassionata di spazio e di numeri. Una donna dalle mille sfaccettature, intelligente come poche, che riuscì nell’impresa più grande: portare l’uomo sulla Luna. Si è spenta lo scorso 24 febbraio all’età di 101 anni, con grande dignità e la consapevolezza di aver lasciato un segno indelebile nella storia dell’umanità.

Negli anni Cinquanta era stata assunta dalla Nasa e da subito si era fatta notare per la sua spiccata intelligenza. Poco dopo era stata scelta per calcolare le traiettorie nella missione Freedom 7, guidata da Alan Shepard. Il successo non aveva fermato Katherine Johnson, che negli anni aveva collezionato tanti altri traguardi, fra cui il titolo come prima donna a pubblicare un testo di matematica astronomica.

Fino alla missione orbitale di John Glenn, dove Katherine realizzò un sistema di comunicazione in grado di collegare le stazioni con Cape Canaveral, le Bermuda e Washington, una sorta di rete in grado di controllare la traiettoria seguita dalla capsula. Leggenda vuole che prima di partire l’astronauta chiese alla Johnson di ripetere i calcoli con la sua calcolatrice, nonostante fossero già stati fatti da un gruppo di ingegneri.

Se lei dice Ok allora vado”, disse Glenn, pronto a fidarsi solo della matematica. E aveva ragione. Negli anni successivi Katherine avrebbe partecipato con successo a diverse altre missioni, dando sempre un contributo decisivo, dagli studi sulle sonde pronte per scoprire Marte al viaggio dell’Apollo 11 nel 1969 con il celebre sbarco sulla Luna.

Pochi lo sanno, ma la missione Apollo 11 stava per fallire. A risolvere la situazione fu proprio Margaret Hamilton. Pochi attimi prima dello sbarco sulla Luna infatti il radar venne attivato per errore, mandando il computer in sovraccarico. La situazione stava per precipitare, ma la matematica aveva già pensato a questa evenienza.
Mentre scriveva il software infatti aveva sviluppato un algoritmo che consentiva al programma di accorgersi di un sovraccarico e segnalarlo. Il problema dunque venne risolto in breve tempo e gli astronauti riuscirono ad arrivare sul satellite.
Se il computer non avesse individuato il problema – scrisse nel 1971 – e non lo avesse risolto, dubito che la missione Apollo 11 sarebbe giunta a buon fine”. Dieci anni dopo Margaret lasciò il MIT e la Nasa, creando una sua compagnia, la Hamilton Technologies e coniando il termine “software engineering”.

Una conquista enorme, fatta in un periodo in cui lo sviluppo dei programmi veniva affidato quasi sempre alle donne, perché considerato secondario. In realtà il lavoro della Hamilton risultò fondamentale per costruire un pezzo di Storia dell’umanità.

Nel 1986 aveva deciso di lasciare la Nasa, ma era ormai diventata una leggenda. A raccontare la sua storia straordinaria un libro e un film, Hidden Figures (Il diritto di contare). Nel 2015 l’allora presidente Barack Obama le aveva reso omaggio consegnandole la Presidential Medal of Freedom, considerata la più alta onorificenza civile americana, mentre la Mattel aveva creato una Barbie con le sue sembianze per ispirare le future generazioni.

Fonte: www.dilei.it




Bonus bebè 2020, più soldi per il secondo figlio

A fornire chiarimenti su questa casistica è una recente Circolare fornita dall’INPS: arriverà una maggiorazione sul secondogenito.


Bonus Bebè 2020 per il secondo figlio: con la pubblicazione della circolare INPS n. 26 del 14 febbraio debutta il nuovo assegno di natalità senza limiti e con condizioni agevolate per le famiglie con ISEE basso.

La novità maggiore diventa una prestazione universalistica, riconosciuta anche ai contribuenti che superano il limite di valore del modello ISEE di 25.000 euro, soglia prevista fino allo scorso anno.

E in particolare sul secondo figlio c’è la possibilità di ottenere una maggiorazione sugli importi predefiniti.

Scopriamo come funziona e quali sono le novità.


Bonus Bebè 2020 per il secondo figlio

La circolare INPS n. 26 del 14 febbraio 2020 rende operative le novità introdotte dalla Legge di Bilancio 2020 che, oltre ad aver eliminato il limite di valore del modello ISEE quale requisito per fare domanda, ha rimodulato l’importo dell’assegno di natalità in tre scaglioni:

  • 160 euro al mese (1.920 euro all’anno) per le famiglie con Isee fino a 7.000 euro;
  • 120 euro al mese (1.440 euro all’anno) per le famiglie con Isee  non superiore ai 40 mila euro;
  • 80 euro al mese (960 euro all’anno) per le famiglie con Isee superiore a 40 mila euro euro.

Per quanto riguarda la questione secondo figlio gli importi cambiano: infatti in questi casi, l’importo verrà aumentato del 20%. Quindi nel caso di famiglie con Isee fino a 7 mila euro, l’assegno quindi sarà di 192 euro, e 144 euro per chi ha un reddito non superiore ai 40 mila euro.

In caso di parto gemellare, o di adozione multipla nello stesso anno, spetterà invece un assegno per ciascun figlio.

La legge di Bilancio 2020, oltre a prorogare il bonus, ha anche ampliato il beneficio per tutti i bimbi nati e adottati nel corso del 2020 (fino al 31 dicembre compreso).


Le novità del Bonus previste per quest’anno

Nello specifico, si riepilogano le novità e principi generali che continuano a trovare applicazione:

  • Corresponsione dell’assegno su domanda presentata da uno dei genitori entro 90 giorni dalla nascita oppure dalla data di ingresso del minore nel nucleo familiare a seguito dell’adozione o dell’affidamento preadottivo avvenuti tra il 1° gennaio 2020 ed il 31 dicembre 2020.
  • Status giuridico dei richiedenti (cittadinanza italiana, comunitaria)
  • Residenza in Italia del genitore richiedente e convivenza con il minore;
  • Importo dell’assegno in base al valore dell’ISEE, in particolare dell’ISEE minorenni del bambino per il quale l’assegno è richiesto
  • Previsioni di spesa riferite alle mensilità in scadenza nei singoli anni solari e non al solo anno in cui si è verificato l’evento che ha dato origine alla prestazione
  • L’assegno spetta anche in caso di affidamento preadottivo del minore (legge n. 184/1983) disposto nel periodo dal 1° gennaio 2020 al 31 dicembre 2020. Questo fino al compimento del primo anno dall’ingresso in famiglia a seguito dell’affidamento medesimo;
  • Nei casi di nascita, adozione o affidamento preadottivo del minore che ricade nel 2020 e successivo affidamento temporaneo a persone singole o famiglie (art. 5, comma 6, del D.P.C.M. del 27/02/2015), la domanda di assegno può essere presentata dall’affidatario dopo quella del genitore o in luogo del genitore (cfr. il messaggio n. 261/2017 e la circolare n. 93/2015);
  • In ipotesi di genitore minorenne o incapace di agire, la domanda può essere presentata dal legale rappresentante in nome e per conto del genitore;
  • La domanda deve essere corredata dal modulo “SR163”, denominato “Richiesta di pagamento delle prestazioni a sostegno del reddito”, reperibile nella sezione “Tutti i moduli” del sito www.inps.it;
  • L’assegno di natalità non concorre alla formazione del reddito complessivo ai fini IRPEF.

A questo link il testo completo della Circolare.


fonte: www.lentepubblica.it




CGIL AQ: preoccupanti i dati sullo spopolamento in Provincia

Se i dati pubblicati dall’Istat sulla diminuzione della popolazione nel nostro Paese sono sconfortanti, quelli relativi alla sola provincia dell’Aquila assumono una connotazione che dovrebbe preoccupare, e non poco, la politica, chiamata ad intervenire rapidamente per invertire la tendenza.

A denunciarlo è il segretario generale della Cgil, Francesco Marrelli, che sottolinea come, in soli 9 mesi del 2019 (periodo gennaio-settembre), la nostra provincia abbia perso 2158 residenti rispetto al 1° gennaio 2019, “di cui 1265 dovuti al saldo naturale morti-nascite e 893 al saldo migratorio verso altri territori. Di questi ultimi, il 60% sono uomini e il 40% donne”.

Con un indice percentuale di incidenza rispetto alla popolazione dello 0,7% in meno rispetto all’anno precedente (quello relativo alla popolazione dell’intero Paese si attesta a un indice percentuale pari allo 0,19%), l’Abruzzo si attesta allo 0,46% “con una diminuzione complessiva di popolazione regionale pari a 6072 residenti, di cui 4753 per saldo naturale e 1319 per saldo migratorio. Non v’è chi non veda come la tendenza alla diminuzione di residenti per la provincia dell’Aquila è circa quattro volte maggiore di quella riferita all’intero paese, di quasi il doppio se ci riferiamo invece alla regione Abruzzo.

Se da una parte incide pesantemente il saldo naturale, aggiunge Marrelli, “dall’altra continua inesorabile una tendenza allo spopolamento dei nostri territori. La mancanza di lavoro e la precarietà per le nuove occupazioni stanno generando insicurezza e timore per il futuro. I nostri territori rischiano di diventare sempre più fragili con una fascia di povertà in costante aumento. Tale condizione viene riscontrata anche dalla popolazione che beneficia del reddito di cittadinanza.

In effetti, se si rapporta il numero di domande alla popolazione residente, è la provincia dell’Aquila quella che ha la più alta incidenza di popolazione coinvolta con il 3,77% del totale, a fronte del 2,87% di Chieti, del 3,76% di Pescara e del 2,86% di Teramo, per un totale pari ad 1,61% dei nuclei familiari residenti sul territorio contro l’1,22% di Chieti, l’1,57% di Pescara e l’1,20% di Teramo“.



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La nostra provincia evidenzia dunque un arretramento strutturale del quadro economico.

“Dopo anni di mancata crescita e di crisi, molte famiglie beneficiano del reddito di cittadinanza come unica possibilità di sussistenza e di recupero potenziale di una condizione lavorativa che, in molti casi, è venuta meno alla fine del percorso di protezione degli ammortizzatori sociali a seguito della riforma del 2015 che ne ha ridotto fortemente la disponibilità nell’utilizzo, ovvero non si è mai definita a causa di un lungo periodo di inoccupazione per la mancanza di opportunità concrete di lavoro“, prosegue Marelli.

Allo stesso modo “sta incidendo sulla scelta di trasferire la propria residenza la riduzione di servizi quali trasporti, sanità, scuola e infrastrutture, a cui si aggiungono servizi bancari e postali. Lo spopolamento, tuttavia, si può combattere solo rompendo la dinamica dell’isolamento progressivo delle zone meno densamente abitate o più lontane dai grandi agglomerati urbani, ma c’è bisogno di idee nuove e dell’impegno di tutte le forze di rappresentanza economiche e sociali. Il nostro è un territorio di grandi potenzialità, che vanno tuttavia messe a valore attraverso percorsi di crescita condivisa. Le ragioni dello sviluppo passano necessariamente attraverso la cura e la valorizzazione delle specificità locali”.

Per questo motivo la CGIL immagina l’avvio di una nuova stagione di confronto politico, che ponga al centro le possibilità legate ai finanziamenti europei e la possibilità che la nostra provincia possa proporsi come un laboratorio d’iniziativa, dove sperimentare i temi dello sviluppo sostenibile, dell’inclusione sociale e dell’innovazione tecnologica, che sono l’asse portante della programmazione comunitaria che va dal 2021 al 2027.

“A nostro avviso – conclude Marelli – occorre stringere un patto politico locale fra le parti ed aprire nuova fase, in grado di sostenere le iniziative imprenditoriali più innovative, per dare ai nostri giovani delle ipotesi di futuro, senza per questo svendere il nostro patrimonio ambientale o chiudere le porte ad ogni ipotesi di sviluppo. Non abbiamo alternative di tipo conservativo, che possano evitarci ciò che sta accadendo. Il tempo è scaduto: adesso bisogna reagire“.

Fonte: www.news-town.it

 

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Bonus Nido 2020, i chiarimenti dell’INPS

Ecco quello che c’è da sapere sul nuovo bonus asilo nido: requisiti, importo e modalità di presentazione della domanda.


Bonus Nido 2020, l’INPS fornisce i chiarimenti. Si ricorda infatti che l’articolo 1, comma 343, legge 27 dicembre 2019, n. 160 ha previsto, a decorrere dal 2020, una modulazione del beneficio in base alle fasce di appartenenza ISEE.

Alla luce di questa novità, sono in corso le implementazioni procedurali necessarie all’attuazione di tali disposizioni, concluse le quali saranno fornite le istruzioni operative relative alla presentazione delle domande per la fruizione del Bonus Nido per il 2020.

Bonus Nido 2020, l’INPS fornisce i chiarimenti

Possibile dall’inizio di questa settimana richiedere il contributo per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido pubblici e privati. La richiesta si riferisce anche all’introduzione di forme di supporto presso la propria abitazione in favore dei bambini al di sotto dei tre anni, affetti da gravi patologie croniche.

L’articolo 1, comma 488, della legge  30 dicembre 2018, n. 145 ha elevato l’importo del buono a 1.500 euro su base annua per ciascuno degli anni 2019, 2020 e 2021.

Il premio è corrisposto direttamente dall’INPS su domanda del genitore. Infatti la domanda può essere presentata dal genitore di un minore nato o adottato dal 1° gennaio 2016 in possesso dei requisiti richiesti.

Il bonus asilo nido viene erogato con cadenza mensile, parametrando l’importo massimo di 1.500 euro su 11 mensilità. L’importo massimo è di 136,37 euro direttamente al genitore richiedente che ha sostenuto il pagamento, per ogni retta mensile pagata e documentata.

Per i nuclei familiari con un Isee minorenni compreso tra 25.001 e 40.000 euro, l’agevolazione potrà spettare in misura pari a un massimo di 2.500 euro. Infine, spetterà l’importo minimo di 1.500 euro nell’ipotesi di Isee minorenni oltre la predetta soglia di 40.000 euro, ovvero in assenza dell’Isee.

Il contributo mensile erogato dall’Istituto non può eccedere la spesa sostenuta per il pagamento della singola retta.

Il premio asilo nido non è cumulabile con la detrazione prevista dall’articolo 2, comma 6, legge 22 dicembre 2008 (detrazioni fiscali frequenza asili nido), a prescindere dal numero di mensilità percepite.

Per maggiori informazioni in merito alla domanda da presentare quest’anno potete consultare il Messaggio INPS del 14 gennaio 2020, n. 101.

 

Fonte: www.lentepubblica.it




Gli italiani si portano il lavoro a casa (e in ferie): 7 su 10 rispondono a mail e telefonate

Lavoratori sempre connessi, a casa come in vacanza. Gli italiani sono tra i più “stakanovisti” in Europa e rispondono a telefonate, email, call di lavoro anche durante il tempo libero. Dal work-life balance, la ricerca di equilibrio tra l’orario di lavoro e quello del tempo libero, si passa progressivamente a una loro sovrapposizione, il cosiddetto work-life blend. In barba al diritto alla disconnessione.

Lavoratori sempre ”reperibili”
Oggi il 71% dei lavoratori italiani – secondo l’indagine del Randstad Workmonitor condotta in 34 Paesi – risponde a telefonate, email e messaggi di lavoro anche al di fuori dell’orario. Siamo al terzo posto in Europa, +6% rispetto alla media globale, e nel Vecchio Continente solo Portogallo e Romania sono più solleciti di noi.

Al lavoro in vacanza
Il 71% degli italiani si sente libero di staccare la spina almeno durante le ferie e si tratta soprattutto di uomini (76% contro il 66% delle donne). Ma oltre uno su due – il 53%, più di 10 punti sopra la media globale – confessa di restare “connesso” per gestire attività di lavoro anche durante il periodo di ferie.

La pressione dei datori di lavoro
La decisione di restare disponibili al lavoro anche nel tempo libero non è sempre volontaria, ma spesso dettata dalla pressione del datore di lavoro. Oltre metà degli italiani dichiara infatti che le aziende si aspettano che i dipendenti siano disposti a lavorare oltre l’orario d’ufficio (59%, contro il 56% della media globale) e che siano disponibili a rispondere a messaggi di lavoro nel tempo libero (52%, contro il 45% della media degli altri paesi).
Nel primo caso, fra i Paesi europei, soltanto Spagna (60%), Romania (65%) e Portogallo (75%) si sentono più sotto pressione, mentre nel secondo solo Portogallo (56%) e Romania (57%).
Le aspettative aziendali sono più elevate sugli uomini (rispettivamente 63% e 58%, contro il 55% e il 47% delle colleghe) e sui lavoratori al di sotto dei 45 anni (il 65% è disponibile oltre l’orario e il 59% risponde nel tempo libero, contro il 52% e il 43% dei dipendenti senior).

Il work-life blend incompiuto
Se la dilatazione dei tempi di lavoro a danno della vita privata è già una realtà, d’altro canto solo il 54% degli italiani gestisce abitualmente questioni personali durante l’orario lavorativo, all’ultimo posto del ranking globale e ben 13 punti sotto la media.
Sono soprattutto le donne a portare avanti questa tendenza (56%) e gli under 45 (62%), mentre sono più restii a farlo gli uomini (52%) e i lavoratori senior (44 per cento).

«La trasformazione in corso porta con sé delle opportunità – commenta Valentina Sangiorgi, chief hr officer di Randstad Italia – , ma anche il rischio che i lavoratori si sentano stressati e sotto eccessiva pressione. Le imprese devono impegnarsi a promuovere la stessa flessibilità da entrambi i lati, riuscendo a rispettare i tempi di disconnessione e valutando i dipendenti in base ai risultati, per migliorare la produttività, anche grazie a motivazione e coinvolgimento».




Anche il Consiglio d’Europa stronca il Jobs act: “Violati i diritti”

Dopo la Consulta, altra bocciatura degli indennizzi automatici. A breve tocca alla Corte di Giustizia UE.

Le tutele previste dal Jobs act per chi è licenziato ingiustamente sono deboli. Insufficienti a riparare il danno subito dal lavoratore e a scoraggiare gli imprenditori dal cacciare persone senza valida ragione. Un nuovo colpo alla riforma del lavoro varata dal governo Renzi nel 2015: questa volta viene dal Comitato europeo dei Diritti sociali, organo del Consiglio d’Europa, per il quale la legge italiana vìola la Carta sociale europea.

Quando cinque anni fa l’esecutivo a guida Pd ha cancellato l’articolo 18, sperando così di aumentare l’occupazione, ha sostituito il diritto alla reintegrazione con i risarcimenti in denaro. Se l’allontanamento del lavoratore è illegittimo, in pratica, l’obbligo di riassumere è rimasto solo quando c’è discriminazione o il motivo riportato dall’azienda è inesistente. Per gli altri casi, il datore è tenuto a pagare un indennizzo di massimo 36 mensilità di stipendio. Proprio questo dettaglio è alla base della decisione del Ceds: l’esistenza di un tetto – le 36 mensilità, appunto – lega le mani ai giudici anche quando i danni creati al lavoratore richiederebbero somme più alte. Ecco perché il Comitato ha dato ragione al ricorso della Cgil, curato dall’avvocato Carlo De Marchis. A difendere invece il Jobs act in questa causa c’era anche il governo francese.

Il problema, per il Ceds, non è aver cancellato l’articolo 18, ma non averlo rimpiazzato con norme altrettanto efficaci a disincentivare i licenziamenti ingiusti. Non è la prima pronuncia che sancisce la violazione di diritti da parte del Jobs act. La prima versione della legge prevedeva un risarcimento che andava da un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità, ed era agganciato solo all’anzianità del lavoratore. Poi è arrivato il decreto Dignità che ha aumentato a sei il minimo e a 36 il massimo, mantenendo il meccanismo ancorato all’anzianità. Nel 2018, la Corte costituzionale ha travolto entrambe le leggi: il sistema degli indennizzi fissi non è adeguato perché non considera il danno effettivo che ha subito il lavoratore. Ora i giudici hanno discrezionalità nel quantificare i risarcimenti, con il limite minimo e massimo.

Per il Comitato europeo dei Diritti sociali è ancora troppo scarso; la decisione di questo organo, però, non è vincolante. “È un’opinione tecnica autorevole”, ha detto la Corte costituzionale. Quindi da un lato potrebbe orientare future sentenze, dall’altro rafforzerà i partiti che, d’accordo con la Cgil, chiedono di rivedere il Jobs act e far tornare l’articolo 18. A breve, arriverà la sentenza della Corte di Giustizia europea su due ricorsi che chiedono di ripristinare l’obbligo di reintegrazione almeno per i licenziamenti collettivi illegittimi.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” del 12/2/2020




“Bella ciao”. Insegnanti e CGIL AQ contro le ingerenze della politica

Fa fronte comune l’Istituto Mazzini Patini dell’Aquila, finito al centro delle polemiche per la presa di posizione del consigliere comunale Daniele D’Angelo che ha denunciato come una insegnante, nell’ora di musica, abbia fatto cantare ‘Bella ciao’ alla sua classe, un brano tra l’altro inserito, come affermato dallo stesso consigliere, nel libro di testo; d’altra parte, il tema non è certo la canzone popolare piuttosto l’ingerenza in un mondo, quello della scuola, che dovrebbe essere lasciato al riparo da contrapposizioni politiche.

Va tutelata in ogni modo la libertà d’insegnamento dei docenti, sancita dall’articolo 33 della nostra Costituzione, va preservata con forza l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei presidi che sono responsabili dell’indirizzo educativo; l’uscita del consigliere comunale ha messo in imbarazzo una intera comunità, quel mondo delicatissimo fatto della relazione tra studenti, insegnanti e genitori che non può essere in alcun modo strumentalizzato. Figurarsi per motivi politici.

Di certo, D’Angelo si è fatto portavoce del malcontento di qualche genitore: tuttavia, è con gli insegnanti e i presidi che ci si dovrebbe confrontare per discutere delle modalità d’insegnamento.

Sono amareggiato dell’entrata a gamba tesa e dell’intromissione della politica nella scuola. La libertà di insegnamento è uno dei cardini della Costituzione italiana, che va difeso con i denti. La canzone in oggetto non è scandalosa, semmai è l’inno che celebra l’atto di nascita della nostra democrazia“, le parole del preside dell’Istituto Marcello Masci.

Solidale con l’insegnante di musica il corpo docente della Mazzini-Patini:Esprimiamo vicinanza, affetto e solidarietà alla nostra collega per l’attacco del tutto fuori luogo da parte di un personaggio politico. Ribadiamo la nostra fedeltà ai valori della Repubblica e alla sua Costituzione, nata grazie al coraggio delle donne e degli uomini che si opposero alla dittatura. Oggi, noi, donne e uomini liberi e democratici, docenti ed educatori al servizio di quei valori, ci opponiamo con fermezza a chiunque tenti di condizionare la libertà di insegnamento, strumentalizzando finanche una canzone come ‘Bella Ciao’, che è di parte e divisiva, sì, perché separa gli antifascisti dai fascisti, i democratici dagli antidemocratici, la libertà dalla dittatura e che, come ribadito dal nostro dirigente scolastico, è l’inno che celebra la nascita della nostra democrazia“.

Sono un genitore della classe finita all’onore delle cronache per questa becera vicenda assolutamente veicolata dal consigliere D’Angelo“, ha aggiunto il papà di uno studente.Vorrei puntualizzare che non esiste nessun gruppo di genitori, essendo mia moglie rappresentante di classe e quindi a conoscenza dei fatti, e che il consigliere è portavoce soltanto della sua persona e di nessun altro. Non si può mettere alla gogna una insegnante ed una professionista che tutti i giorni si prodiga per la sana crescita dei nostri ragazzi. La politica si occupi di altro e soprattutto non parli a nome di persone che non rappresenta. Giu le mani dalla nostra Professoressa“, l’affondo.

Ancor più duro il presidente del Consiglio d’Istituto, Maurizio Mucciarelli:Vogliamo che il consigliere comunale Daniele D’Angelo chieda scusa alla professoressa, al dirigente scolastico, ma anche agli alunni, che sono le vere vittime della sua inaccettabile strumentalizzazione politica“, la presa di posizione del presidente che parla a nome della componente genitori del Consiglio.Con convinzione prendiamo le distanze e ci dissociamo da quanto dichiarato dal consigliere comunale D’Angelo, sottolineando che non esiste alcun gruppo di genitori che condivide le sue accuse. Riteniamo invece doverose le sue scuse alla professoressa ingiustamente coinvolta in questa vicenda, al dirigente scolastico Marcello Masci che ha difeso la libertà d’insegnamento e soprattutto ai nostri figli, utilizzati per fini politici. La politica, a nostro avviso, non deve entrare nelle scuole e non deve prendere di mira gli insegnanti che ogni giorno si prodigano per accompagnare la crescita dei nostri figli”.

Più chiaro di così.

 

CGIL L’Aquila: “Piena solidarietà all’insegnante e al preside”

‘Dietro ogni articolo della Carta Costituzionale stanno centinaia di giovani morti nella Resistenza. Quindi la Repubblica è una conquista nostra e dobbiamo difenderla, costi quel che costi’. Sandro Pertini.

La CGIL dell’Aquila esprime “piena solidarietà all’insegnante ed al preside della scuola secondaria Mazzini Patini che con coraggio e fermezza difendono i valori della nostra carta costituzionale ed il ruolo della scuola nella società italiana. Bella Ciao è entrata a far parte di quel patrimonio di valori del nostro paese nato dalla lotta di resistenza contro il nazi-fascismo. Patrimonio che va difeso e divulgato in ogni luogo. La scuola non deve informare ma formare le nuove generazioni partendo necessariamente dalla difesa della libertà, della democrazia e della giustizia sociale che sono valori antitetici rispetto a quelli che sottendono alle affermazioni dello stesso consigliere comunale che dichiarò qualche mese fa che ‘il fascismo è uno stile di vita’”.

Aggiunge il sindacato: “Consigliamo vivamente al signor Daniele D’Angelo di frequentare quelle tante istituzioni, anche scolastiche, che con dedizione e abnegazione continuano a difendere, divulgare ed affermare il valore dell’antifascismo, affinché possa recuperare un senso di appartenenza ai valori fondanti della nostra Repubblica. E se non ci illudiamo che saprà accogliere il nostro invito, abbiamo invece la certezza che chi canta Bella Ciao sarà sempre dalla parte giusta, sarà nostro fratello, sarà nostra sorella e collaborerà sempre alla difesa della democrazia e della liberta conquistate con la lotta”.

 

FLC CGIL: “Ingerenza del consigliere è un segnale preoccupante”

La FLC CGIL dell’Aquila “deplora la posizione assunta dal consigliere comunale Daniele D’Angelo che entra con arroganza nella libertà di insegnamento, diritto individuale di ogni docente sancito dall’articolo 33 della Costituzione. La libertà di insegnamento rende la scuola pubblica italiana un’alta espressione di esercizio della democrazia e le attribuisce il carattere di officina di sperimentazione didattica al fine dell’acquisizione della conoscenza. La scuola prima ancora di essere luogo di istruzione è luogo di educazione alla cittadinanza ed ogni insegnante è libero/a di scegliere la modalità didattica che, analizzato il contesto e valutatene le vocazioni e le possibilità, permetta il raggiungimento dell’obiettivo formativo”.

La politica non ha competenza in fatto di insegnamento “ed è bene che stia lontana dalle aule e si impegni, invece, nei luoghi deputati per assicurare alla scuola pubblica la dignità che le spetta in termini di risorse, edilizia e servizi. Riteniamo che l’invadenza del consigliere D’Angelo sia un segnale preoccupante del clima che si respira in città e ci uniamo a tutte le voci che in queste ore stanno contestando un gesto che non fatichiamo a definire di propaganda”.

FLP CGIL, per voce della segretaria generale Miriam Del Biondo, esprime “solidarietà all’insegnante” condividendo “pienamente la risposta del Dirigente Scolastico. Infine, ma non per ultimo, riteniamo che insegnare e far cantare Bella Ciao sia il segnale di un forte senso di appartenenza ai valori dell’Italia repubblicana e democratica nata dalla lotta partigiana e dalla Resistenza. La FCL CGIL è fiera di tutelare lavoratori e lavoratrici di una scuola che su quei valori costruisce la sua storia anche attraverso la trasmissione di una memoria che si tende ad offuscare. Inoltre, persino se volessimo spogliare Bella Ciao da ogni connotazione storico politica rimarrebbe comunque un canto diffuso di gioia, di impegno, di lotta e di speranza che è quello di cui, soprattutto in questa città, abbiamo ancora tutti fortemente bisogno. Si occupi la politica cittadina della ricostruzione dell’edilizia scolastica se davvero vuole occuparsi di scuola. Allora sì che sarà stata utile ed avrà fatto ciò che le compete”.

 

Fonte: www.news-town.it




Diritto di critica, una sentenza esemplare

Un delegato sindacale di un’azienda di servizi aveva rilasciato un’intervista ad un giornale locale in cui criticava il trasferimento di un collega di lavoro ad un altro comune, con conseguenti difficoltà nell’espletare il servizio di raccolta rifiuti per il quale l’impresa datrice di lavoro aveva ottenuto un appalto.

Il sindacalista era stato licenziato per tali dichiarazioni ritenute dall’azienda “gravissime, lesive e foriere di danni”.

Dapprima, il Tribunale d’Imperia riteneva il licenziamento legittimo; successivamente la Corte d’Appello di Genova lo dichiarava nullo in quanto ritorsivo; l’azienda faceva quindi ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte ha ora deciso la causa con la sentenza n. 31395/2019, ritenendo condivisibili ed esaustive le argomentazioni svolte nella sentenza d’appello su due punti in particolare. 

In primo luogo, era stato accertato il rispetto della cosiddetta “continenza sostanziale” del diritto di critica (in ordine alla veridicità dei fatti dichiarati) e dell’ulteriore requisito della “continenza formale” (in quanto l’intervista non presentava toni dispregiativi, volgari, denigratori, polemici); non sussisteva alcuna condotta gravemente lesiva della reputazione né alcuna violazione dei doveri fondamentali alla base dell’ordinaria convivenza civile. 

In secondo luogo, si era accertato il carattere ritorsivo del licenziamento, in quanto l’unico motivo che aveva giustificato il licenziamento – ossia il rilascio di dichiarazioni ritenute gravissime, lesive e foriere di danni per l’azienda – si era rilevato insussistente.

La Corte di Cassazione ha pertanto respinto il ricorso del datore di lavoro, stabilendo definitivamente che il licenziamento è nullo in quanto discriminatorio, con conseguente diritto alla reintegra sul posto di lavoro.

Si tratta di una sentenza assolutamente chiara. Un lavoratore piuttosto che un sindacalista hanno pieno diritto ad esprimere una critica nei confronti del datore di lavoro nei limiti così delineati: un licenziamento o qualunque altra sanzione disciplinare comminata in tali circostanze sono illegittimi.

______________

Alberto Massaia
Dipartimento Giuridico Fisac/Cgil

 

Scarica la sentenza




Quando il fascismo dimezzò lo stipendio alle donne per la loro “indiscutibile minore intelligenza”

Per la serie “hanno fatto anche cose buone”, il 20 gennaio del 1927, con un decreto, il Governo italiano interviene sui salari delle donne riducendoli alla metà rispetto alle corrispondenti retribuzioni degli uomini.

Del resto avrebbe scritto qualche anno dopo Ferdinando Loffredo nella sua Politica della famiglia (1938):
La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito […] La conseguenza dell’emancipazione culturale – anche nella cultura universitaria – porta a che sia impossibile che le idee acquisite permangano se la donna non trova un marito assai più colto di lei . […] deve diventare oggetto di disapprovazione, la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con l’uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici […] Il lavoro femminile […] crea nel contempo due danni: la «mascolinizzazione» della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali (evidentemente veniva considerato un male: i poveri dovevano restare poveri per essere più facilmente manovrabili); considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito […]; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe”.

Diceva similmente Benito Mussolini su Il Popolo d’Italia del 31 agosto 1934 :

“L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbero di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale”.

La donna, dunque – per il bene della Patria! – deve essere collocata in casa, a fare figli.

La prima offensiva al lavoro femminile del Regime si avrà nell’insegnamento.

Con il Regio Decreto 2480 del 9 dicembre 1926 le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, verranno tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto (già il Regio Decreto 1054 del 6 maggio – Riforma Gentile –  vietava alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie.  Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare).

Una legge del 1934 (legge 221) limiterà notevolmente le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fisserà un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati.

L’anno successivo, il Regio Decreto n. 989/1939 preciserà addirittura quali impieghi statali potessero essere alle donne assegnati: servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici; servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi di istruzione classica e magistrale; servizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca. L’articolo 4 della stessa legge, suggerirà altri impieghi “particolarmente adatti” alle donne: annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; cassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici ed avicoli; direttrici dei laboratori di moda.

Del resto, scriveva Giovanni Gentile ne La donna nella coscienza moderna (1934):
La donna non desidera più i diritti per cui lottava […] (si torna) alla sana concezione della donna che è donna e non è uomo, col suo limite e quindi col suo valore […]. Nella famiglia la donna è del marito, ed è quel che è in quanto è di lui”.

In un tempo in cui al Festival di Sanremo viene invitata una donna perché è bella e “sa stare un passo indietro al proprio uomo” forse sarebbe opportuno non dimenticare…

Ilaria Romeo, Archivio Storico Cgil

 

Fonte: www.fortebraccionews.it

 

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Pressioni commerciali e stress lavoro-correlato

In Francia una sentenza che farà la storia ha, per la prima volta, sancito la punibilità della fattispecie di “molestie morali istituzionali”: un sistema messo in piedi, tra il 2007 e il 2010, da France Telecom e da alcuni suoi dirigenti (tra cui l’ex AD Didier Lombard) per spingere i dipendenti a dimettersi, peggiorando sistematicamente le loro condizioni di lavoro. Secondo la sentenza, queste condotte consapevolmente vessatorie hanno concausato, in alcuni casi, (fino al 2008) il suicidio di alcuni dipendenti, che lasciarono spesso messaggi di addio contenenti pesanti accuse verso la società. L’AD è stato condannato ad un anno di reclusione, la società a pagare una multa di 75.000 euro, più risarcimenti milionari a circa 150 dipendenti o loro famiglie, costituitesi parte civile.

Le vessazioni poste in essere nel caso France Telecom configuravano un vero e proprio mobbing di massa, un caso limite. Tuttavia non sono i fenomeni estremi che segnano un trend, ma quelli “normali”, che si riproducono su grande scala. E il trend, specie nelle banche, è quello di un elevato e crescente livello medio di stress, imputabile prevalentemente ad una combinazione di due fattori, presenti contemporaneamente: una organizzazione dei fattori di produzione e del lavoro inefficiente, ed una eccessiva pressione commerciale.

Una ricerca commissionata dalla Fisac Cgil in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma ha indicato che il 28% dei lavoratori bancari fa uso di psicofarmaci. In pratica, più di un lavoratore su quattro. I dati del 2015- 2016 del centro di Medicina del lavoro di Pisa raccontano che, tra le persone visitate, i bancari sono secondi in quanto a stress solo a chi lavora nella grande distribuzione. L’indagine realizzata da Università e sindacato entra nel dettaglio: l’84% dei bancari sentiti vive una condizione di disagio, l’82% soffre di ansia se non raggiunge gli obiettivi aziendali perché teme un demansionamento o un trasferimento, il 59% non riesce ad adattarsi ai continui cambiamenti, l’84% è a disagio ogni volta che consiglia un prodotto inserito nel proprio budget, il 63% ritiene moralmente ingiuste le continue richieste di vendere prodotti.

Lo stress lavoro-correlato è stato definito nell’accordo di Bruxelles 8/8/2004,  recepito in Italia nel 2008 da un Accordo Interconfederale, come una situazione di prolungata tensione, che può essere causata da fattori diversi come il contenuto del lavoro, l’ inadeguatezza nella gestione dell’organizzazione del lavoro e dell’ambiente di lavoro, carenze nella comunicazione, etc. e che può portare a ridurre l’efficienza sul lavoro e a determinare un cattivo stato di salute.

In termini civilistici, l’incidenza dello stress negativo sul contratto di lavoro deriva dalla violazione dell’art.2087 del codice civile.
Tale norma cardine, da cui discendono una serie di obblighi per il datore di lavoro, così recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Secondo la giurisprudenza, l’obbligo non si limita al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma obbliga l’azienda ad astenersi da comportamenti lesivi dell’integrità psico-fisica del lavoratore.

La disposizione richiamata, nella interpretazione comunemente accolta e “istituzionalizzata” dalla Corte di Cassazione con la lettura “costituzionalmente orientata” dell’art.2059 c.c. (cfr. Cassazione, 8827 e 8828/2003), si ispira al principio del diritto alla salute, inteso nel senso più ampio, bene giuridico primario garantito dall’art. 32 della Costituzione e correlato al principio di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.
Da tale disposizione sorge il divieto per il datore di lavoro non solo di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo della integrità psico-fisica del prestatore di lavoro, ma anche l’obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento lesivo posto in essere dai superiori, preposti o altri dipendenti nello svolgimento dell’attività lavorativa.
La legislazione della sicurezza (T.U. 81/2008, art. 2, lett. o), nella definizione di salute (mutuata dall’OMS che l’ha elaborata fin dal 1948), parla di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in assenza di malattia o d’infermità”.

Il danno derivante da stress correlato al lavoro è inquadrato dalla giurisprudenza nella categoria del danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale (art.2059 c.c.) è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, vale a dire (cfr. Cassazione 7471/2012) al ricorrere di una delle seguenti condizioni:

  • quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato (art.185 c.p.)
  • quando la legge prevede espressamente la risarcibilità del danno non patrimoniale (ad esempio, nel caso siano state usate modalità illecite per la raccolta dei dati personali, ex art.29 comma 9 legge 675/96 per violazione art.9 stessa legge)
  • quando l’illecito ha violato diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale, che quindi, non essendo ex ante individuati dalla legge ordinaria, dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice (cfr. Cassazione, sentenze 8827 e 8828 del 2003).

Appare quindi evidente come il danno da stress correlato al lavoro possa essere riconosciuto come risarcibile prevalentemente attraverso l’avverarsi della terza condizione, vale a dire la produzione giurisprudenziale. Infatti non è detto che la condotta che genera elevato stress possa anche essere configurata come reato, né risultano norme in cui la legge ordinaria dichiara espressamente risarcibile un danno da stress. Di conseguenza, è attraverso le sentenze dei giudici che le maglie della tutela della salute, intesa nella sua definizione più completa, possono allargarsi fino a ricomprendere quelle ipotesi in cui il danno da stress correlato al lavoro viene dichiarato risarcibile in quanto la condotta illecita lede diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale (fonte sovraordinata).

In conclusione, il diritto del lavoratore ad ottenere un risarcimento del danno da stress correlato al lavoro presuppone il ricorrere di tre elementi:

a)una condotta illecita del datore di lavoro

b)un danno medicalmente accertabile

c)un nesso di causalità, o concausalità, tra la condotta illecita e il danno

  1. a) mentre mobbing e straining in termini giuridici sono declinate come esercizio di molestie e minacce di uno o più soggetti fisici specifici verso altri, lo stress lavoro-correlato si attaglia maggiormente, come categoria, alle situazioni di fatto presenti in molte aziende bancarie, dove è l’organizzazione complessiva del lavoro, con il suo miscuglio di inefficienza e pressione commerciale eccessiva, a generare una situazione di tensione “ambientale”. Sotto questo aspetto la norma cardine, da tenere presente ai fini della risarcibilità del danno (posto che le fattispecie inquadrabili come reati sono residuali e da considerare extrema ratio), è l’art.2087 del codice civile: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In questo modo l’ “imputato” è l’azienda, non singoli esponenti della stessa.

 

  1. b) i danni che la medicina del lavoro e la psichiatria riconoscono come direttamente collegabili a situazioni di elevato e persistente stress lavorativo sono vari: infarto, patologie autoimmuni, patologie psichiche, disturbi dell’adattamento, sindrome ansioso-depressiva. A questi responsi attingono ormai molti giudici per asseverare l’accertabilità medica del rapporto stress-danno alla salute.

 

  1. c) proprio in quanto il danno da stress lavoro-correlato è riferibile ad un contesto organizzativo “patogeno”, piuttosto che a singoli comportamenti ascrivibili a singoli individui, appare quanto mai appropriata la definizione in massima della sentenza della Corte d’appello de L’Aquila del 9 gennaio 2003: “ritenere il datore di lavoro responsabile della malattia ex articolo 2087 cod. civ. per mancata adozione delle misure idonee a preservare l’integrità psicofisica del dipendente, in quanto sia individuabile una responsabilità dell’imprenditore nel determinismo dello stress, conseguente alla violazione di un obbligo su di lui gravante e scaturente dal rapporto di lavoro”.

 

A cura della Consulta Giuridica Fisac/Cgil

 

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