Di chi è “l’Italia peggiore”?

Converrà ricordare le parole che, nell’emiciclo della Camera, con tono stentoreo ed espressione insieme terrea e severa, la presidente del Consiglio ha usato in memoria del bracciante indiano Satnam Singh. «Una morte orribile e disumana». Conseguenza «dell’atteggiamento schifoso del suo datore di lavoro». E poi, tutto di un fiato: «Dobbiamo dircelo: questa è l’Italia peggiore».

Giusto. Anzi, giustissimo. Questa è «l’Italia peggiore». E tuttavia, di quale Italia parla Giorgia Meloni? E a quale Italia parla?

Diciamolo usando altrettanta franchezza: parla della sua Italia. Quella di cui, dal primo giorno in cui si è insediata a Palazzo Chigi, fomenta risentimento e vittimismo e a cui ha garantito impunità fiscale (le tasse «pizzo di Stato»), protezionismo, corporativismo. L’Italia delle piccole patrie e dei mille egoismi, del «se l’è cercata». Quella che «non ne può più delle regole», dei controlli, magari anche di quelli rarefatti degli ispettori del lavoro. Quella del «padroni a casa nostra». Che «non va disturbata se vuole fare, disboscando la selva burocratica e amministrativa che penalizza».

La stessa cui con inqualificabile cinismo ha continuato a spiegare, fino all’ultimo giorno di campagna elettorale, che i migranti che muoiono nel Mediterraneo sono tutt’altro che disperati in fuga da guerre, carestie, miseria. Piuttosto, sono voraci migranti economici e dunque una minaccia per il nostro lavoro, le nostre case, le nostre «tradizioni». Come dimenticare la battuta a favore di telecamere in Albania: «Poveri Cristi? Seeeee».

Già, l’Italia peggiore. E dire che Giorgia Meloni conosce benissimo le campagne del basso Lazio e della provincia di Latina. E i tanti «schifosi» Lovato che le popolano (un imprenditore che mentre con la mano destra arruolava con il caporalato braccianti indiani da lasciar morire dissanguati nei suoi campi, con la sinistra incassava più di 800 mila euro di finanziamenti garantiti dallo Stato tra il 2020 e il 2023 per fronteggiare la crisi del Covid).

Le conosce quelle campagne non fosse altro perché sono storicamente una delle constituency della destra. Quella, anche geograficamente, custode dell’ortodossia e della memoria.

Le conosce lei quelle campagne, come le conoscono il sottosegretario al ministero del Lavoro che ha voluto nel suo governo, il leghista Claudio Durigon, il ministro dell’Agricoltura e “cognato d’Italia” Francesco Lollobrigida e il fidato compagno di partito oggi eurodeputato Nicola Procaccini.
Uno, per dire, che ancora nel 2020 aggrediva chi denunciava lo sfruttamento dei braccianti indiani nella campagna pontina, con argomenti pregevoli come questo: «L’Agro pontino non è l’Alabama dell’800. C’è integrazione».

La verità è che Giorgia Meloni sa bene che in quelle campagne, patria del caporalato, il lavoro del sindacato a tutela dei lavoratori è stato sistematicamente umiliato e aggredito da destra perché ritenuto un’intollerabile costrizione della “libertà di impresa”. E chi invoca o reclama diritti è stato aggredito e isolato come un vecchio arnese che puzza di sinistra.

Il punto, allora, è che a forza di cambiare freneticamente maschere e palcoscenici si finisce prima o poi per confondersi. O, forse, per illudersi di poter prendere per i fondelli tutti e sempre. Dimenticandosi che lingua si parla o si è parlata fino al giorno prima. E che si ricomincerà a parlare dal giorno dopo.

A Meloni capita sempre più spesso, prigioniera come è di un’idea rancorosa della politica e dell’ossessione del “nemico alle porte”. Si chiami sinistra, si chiami Europa, si chiamino migranti, famiglie omogenitoriali e più semplicemente tutto ciò che è diverso da sé. Un nemico cui naturalmente imputare il vuoto di politica, di tutele, di diritti che il governo continua a mostrare nella sua grottesca postura oscurantista. Come per altro le rimprovera, proprio sul terreno dei diritti, persino Marina Berlusconi, non certo una nota comunista.

La verità è che da presidente del Consiglio quale è, se davvero volesse onorare la memoria di Satnam Singh, Giorgia Meloni avrebbe una sola strada da percorrere. Semplice. Lineare. Trasparente. Tagliare il nodo gordiano che lega la sua avventura politica e le scelte del suo governo in materia di diritti, lavoro, diseguaglianze, a quell’Italia che oggi proprio lei definisce «peggiore».

Ma l’impressione è che anche questo sia un passaggio impossibile. Diciamo pure contro natura. Un po’ come dirsi antifascisti.

 

Articolo di Carlo Bonini su “La Repubblica” del 27/6/2024

 

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Un macigno sul cuore




Il Prof. Alessandro Barbero sostiene i referendum Cgil


 

Il professor Barbero spiega perché firmare i Referendum Popolari 2025 promossi da Cgil.

 

Puoi firmare anche online cliccando qui 




AdER: incontro di verifica previsto dall’accordo sul telelavoro

3 - Fisac Cgil

 

In data odierna si è svolto l’incontro di verifica previsto dall’accordo sul telelavoro.

Il rappresentante dell’Ente ha comunicato che a fronte delle 140 posizioni previste dall’accordo, sono pervenute 663 domande che sono state analiticamente esaminate al fine di predisporre la graduatoria.

Sono state accolte n. 127 istanze, ulteriori 5 sono in fase di istruttoria e n.8 risultano ancora da assegnare.

Risultano inoltre un numero di lavoratori/lavoratrici disabili in situazione di gravità ex art.3 comma 3 L.104/92 che non hanno presentato la domanda di accesso al telelavoro nei termini previsti.

Si è concordato di dare la possibilità a questi ultimi di presentare ora la domanda, fermo restando criteri, requisiti e condizioni previsti dall’accordo.

Resta inteso che a decorrere dal prossimo anno dovranno essere ripresentate tutte le domande al fine di predisporre la nuova graduatoria.

Nel corso dell’incontro le scriventi Segreterie hanno formalizzato all’Ente la disdetta del contratto integrativo aziendale vigente, come previsto dall’articolo 1 dello stesso.

Le Parti hanno condiviso che il contratto integrativo in scadenza continuerà a trovare applicazione per il tempo necessario alla definizione della trattativa per il rinnovo.

Il prossimo incontro è stato calendarizzato l’11 luglio, con all’ordine del giorno l’aggiudicazione della polizza sanitaria aziendale.

Roma, 25 giugno 2024

 

Le Segreterie




Un macigno sul cuore

Ha fatto una “leggerezza” Satnam Singh.

“Era stato avvisato, ma ha fatto di testa sua”.

“C’è dispiacere…Ma è costato caro a tutti.”

Deve essere stata per forza leggerezza, quella che ha condotto Satnam e sua moglie in Italia. Leggerezza per stabilirsi in un paese straniero e ostile, in cui erano soli.

Leggerezza per lavorare duro per pochi euro, in condizioni estreme e senza diritti.

Leggerezza per vivere da irregolari, senza tutele, senza prospettive.

Per forza è stata leggerezza: non si affronta tutto questo se si ha il cuore pesante.

Ma non è per la leggerezza che Satnam è morto.

Sono stati lo sfruttamento e la sete di guadagno, l’irresponsabilità e la superficialità, l’egoismo e la crudeltà di chi non ha voluto neppure capire che un uomo gravemente ferito muore, se non soccorso.

Ci costa cara questa morte.

Non per le giuste ripercussioni che, si spera, colpiranno i responsabili.

Costa perché toglie ogni leggerezza dalle nostre vite agiate e ci lascia con un enorme macigno sul cuore.

 

“Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”

Italo Calvino

 

Segreteria Provinciale
Fisac Cgil L’Aquila




Cina, arriva il congedo di infelicità: fino a 10 giorni per lavoratori tristi e stressati

A chi non è mai capitato di sentirsi così infelici da non avere l’energia necessaria per affrontare una giornata lavorativa? In Cina è stato lanciato il “congedo di infelicità”, un periodo di astensione dal lavoro di un massimo di 10 giorni nei momenti di tristezza e stress.


 

Capita a tutti di affrontare dei periodi particolarmente difficili e stressanti nella propria vita e in quelle occasioni, fin da quando ci si sveglia, la tristezza è così forte da azzerare ogni forma di energia. Sebbene si passerebbero tranquillamente intere giornate a letto, non si hanno scuse, bisogna rimboccarsi le maniche e andare al lavoro, anche se il più delle volte ci si ritrova a essere decisamente poco produttivi. In Cina è arrivata la soluzione: è stato preso un provvedimento per incentivare la serenità dei lavoratori in momenti di forte down, si chiama “congedo di infelicità” e punta a migliorare l’equilibrio tra vita professionale e vita privata.

 

Il provvedimento lanciato da Yu Donglai

Cos’è il concedo di infelicità? Un periodo di astensione dal lavoro concesso quando si è tristi. A sostenere e lanciare l’iniziativa è stato Yu Donglai, fondatore e presidente di Pang Dong Lai, una catena di vendita al dettaglio nella provincia cinese di Henan, che ha voluto fare qualcosa di materiale per favorire la serenità dei suoi dipendenti. A questi concede fino a 10 giorni all’anno di assenza se sono tristi, l’obiettivo? Ridurre lo stress e migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita privata. In controtendenza con la cultura cinese iper-produttiva basata su orari lavorativi incredibilmente lunghi, il suo personale lavora 7 ore al giorno, ha i fine settimana liberi e una serie di benefit (tra cui 5 giorni di ferie durante il Capodanno lunare).

Quando viene concesso il congedo di infelicità

Voglio che ogni membro dello staff abbia la libertà. Tutti hanno momenti in cui non sono felici, quindi, se non sei felice, non venire a lavorare. Questo congedo non può essere negato dalla direzione. La negazione è una violazione“, ha spiegato l’imprenditore. L’iniziativa ha ottenuto un incredibile sostegno sui social, visto che sempre più spesso gli orari lavorativi stanno diventando “invadenti” e limitanti. Cosa dice la normativa italiana in casi come questi? Solo il lavoratore affetto da depressione (con un apposito certificato medico che dimostra il suo stato) può godere di un periodo di astensione dal lavoro retribuito. La depressione, infatti, è riconosciuta dalla legge come una condizione invalidante che ha un impatto così significativo sulla vita quotidiana che può rendere anche impossibile andare al lavoro.

 

Fonte: fanpage.it

 

 




Referendum avanti tutta: superate le 500mila firme

In tutto le sottoscrizioni raccolte finora sono 582.244. Giove, Cgil: “Ci ha colpito l’assoluta trasversalità delle adesioni”. La campagna non si ferma


 

Quasi 600mila firme raccolte. Il requisito minimo richiesto per i quesiti sul lavoro presentati dalla Cgil è raggiunto e superato (ne servivano 100mila in meno) dopo poche settimane. In tutto le sottoscrizioni sono 582.244. Il giro di boa arriva a metà percorso. Davanti a noi un altro mese abbondante di banchetti che migreranno verso il mare per continuare a macinare adesioni. Con l’obiettivo dichiarato che il Quadrato rosso non ha mai nascosto, mettere insieme più firme possibili, al di là di quel che richiede la legge, che a questo punto è già al sicuro in cassaforte.

“Vado al massimo, vado a gonfie vele”, potremmo canticchiare, rubando l’immortale ritornello di Vasco, per accompagnare l’impegno generoso dell’organizzazione e delle mille strutture che si diramano sul territorio. Perché nessuno ha mai temuto di non riuscire a prenderle queste 500mila firme, ma non era neanche facile o scontato che in poche settimane l’obiettivo minimo sarebbe stato superato.

 

 

(CLICCA QUI PER FIRMARE)

 

Fonte: collettiva.it




Aggiornato il simulatore Inps: i trentenni andranno in pensione a 70 anni

L’Inps ha recentemente fatto un aggiornamento del proprio simulatore: secondo i calcoli, i trentenni andranno in pensione a 70 anni.


 

C’è ancora tanta strada da fare per la pensione dei trentenni di oggi: secondo i calcoli, infatti, la pensione arriverà a 70 anni.
È quanto indicato dal simulatore Inps “Pensami”, aggiornato recentemente, con le nuove regole della Legge di Bilancio.

Come sottolineato in un messaggio dell’Istituto, i requisiti sono stati aggiornati, secondo gli adeguamenti agli incrementi alla speranza di vita, in riferimento allo scenario demografico Inps mediano (base 2022), relativo alle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico.

Ecco cosa c’è da sapere.

Aggiornamento simulatore pensione Inps: ecco cosa c’è da sapere

Con l’aggiornamento del simulatore di pensione Inps, è possibile inserire i propri dati anagrafici, il tipo di lavoro che si svolge e i dettagli della tipologia di contribuzione, per avere un’idea di quando si potrà andare in pensione e quanti anni di contributi saranno necessari.

Ovviamente, nel calcolo, è importante segnalare anche altri dati: attività usuranti, lavoro precoce, servizio militare, riscatto di titoli di studio universitari o accredito figurativo della maternità obbligatoria fuori dal rapporto di lavoro. Si tratta di dati, infatti, che possono cambiare il calcolo degli anni necessari per la pensione.

Secondo quanto calcolato, chi oggi ha 30 anni e ha cominciato a lavorare da poco riuscirà ad andare in pensione

  • Tra i 66 anni e 8 mesi (nel caso abbia versato 20 anni di contributi e maturato un assegno superiore a tre volte l’importo mensile dell’assegno sociale nel 2024, pari a 1603,23 euro)
  • E i 74 anni (se non si riescono a versare almeno 20 anni di contributi).

Come precisato dall’Inps

“fino al 2028, l’età per l’accesso alla pensione di vecchiaia resta ferma a 67 anni perché non si sono registrati aumenti della speranza di vita mentre dovrebbe crescere a 67 anni e un mese dal 2029”.

Come si usa il simulatore Inps per la pensione

Pensami Inps è un sistema di simulazione della pensione futura, che ha l’obiettivo di dare una previsione indicativa sulla pensione, sia sulle tempistiche e sia sul valore dell’assegno.

Si può accedere al simulatore Inps senza credenziali e basterà inserire i propri dati anagrafici e sul tipo di lavoro che si svolge (dipendente pubblico, impiegato, lavoratore autonomo, etc.).

Si può indicare anche se si aderisce a gestioni separate o a casse professionali, oltre ad altre informazioni (già citate precedentemente) come l’eventuale attività usurante o il servizio militare.

Qui è possibile accedere al simulatore e calcolare quando si andrà in pensione.




La ASL dell’Aquila vieta la raccolta delle firme per i referendum

I padroni della ASL1 provano ad impedire i diritti costituzionali

Pensavamo di aver assistito al peggio, ma come dice il proverbio “ al peggio non vi è mai fine”. Ed infatti nel loro ruolo di “potenti di turno” i vertici della ASL 1 della Provincia dell’Aquila oggi hanno superato sé stessi.

La Cgil è impegnata in questi giorni in una campagna capillare, sul territorio  nazionale, per la raccolta firme per la promozione di 4 referendum abrogativi di norme particolarmente odiose e pregiudizievoli per il mondo del lavoro.
Anche la Cgil della Provincia dell’Aquila è impegnata con tutte le proprie risorse nella straordinaria campagna con iniziative sul territorio. Come da prassi e rispetto istituzionale il giorno 5 giugno abbiamo inviato formale comunicazione di preavviso alla Direzione Generale della ASL1 annunciando la nostra presenza nel piazzale antistante il Cup dell’Ospedale San Salvatore dell’Aquila, con un nostro banchetto dedicato
alla raccolta firme. Procedura, peraltro, già svolta in precedenti due occasioni con straordinaria partecipazione popolare alla sottoscrizione dei quesiti referendari.
In questa occasione però i vertici della ASL 1, che normalmente non si adoperano celermente alla risoluzione dei tanti ed annosi problemi del sistema sanitario provinciale, hanno voluto dare dimostrazione di tempestiva efficienza. 

Infatti, a poche ore dalla nostra comunicazioni ci siamo visti recapitare una “simpatica missiva” a firma congiunta del Direttore Sanitario e del Direttore Amministrativo, che con due stringatissime righe hanno negato il permesso. Tempestività ed efficienza non riscontrabili nella gestione quotidiana dell’azienda soffocata dal passivo di bilancio, da liste d’attesa interminabili, da mobilità passiva in crescita esponenziale e da un saldo negativo di mobilità che ha visto raggiungere il suo
massimo storico, da carenza di personale e desertificazione sanitaria delle aree interne.

Certamente avranno pensato che il banchetto Cgil potesse provocare “moti e subbugli tali da non essere governabili.
Certamente hanno dimostrato, se ve ne fosse ancora bisogno, la loro distanza siderale dall’esercizio della democrazia, hanno in definitiva esercitato un “potere” loro concesso pro tempore ”infischiandosene“ del fatto che in quel banchetto avremmo solo promosso un diritto costituzionalmente garantito.
Hanno agito con il potere del “padrone” sulla esigibilità di spazi che sono pubblici, destinati ad un servizio pubblico ed afferenti ad un bene comune, dimostrando ancora una volta di essere corpi estranei alla nostra comunità.
Loro sono così. Distanti anni luce dal sentire comune, loro vivono arroccati nel palazzo, privi di qualsivoglia sensibilità verso i bisogni ed i diritti delle persone.

Noi andremo avanti, terremo i nostri banchetti in altri luoghi, noi lavoriamo a tener viva la Costituzione di questo paese. La nostra straordinaria mobilitazione, lo vogliamo ricordare ai due Direttori, è finalizzata a superare le norme che impediscono il reintegro delle Lavoratrici e dei Lavoratori illegittimamente licenziati, ad abrogare le norme che facilitano i licenziamenti nelle piccole imprese, ad abrogare le norme che facilitano l’utilizzo del lavoro precario, ed a ripristinare la responsabilità solidale dell’appaltante sugli infortuni sul lavoro.

Una straordinaria mobilitazione per riconsegnare dignità al lavoro secondo i principi di equità, solidarietà, giustizia ed uguaglianza.

L’Aquila, 6 giugno 2024

Il Segretario Generale Cgil L’Aquila
Francesco Marrelli

Il Segretario Cgil L’Aquila
Domenico Fontana




No, il Jobs Act non ha fatto aumentare l’occupazione

Il referendum Cgil ha risvegliato i fan della riforma: rimettiamo in fila i numeri (Istat) che ne mostrano il fallimento


È almeno dal 2018 che i fan più accaniti della stagione renziana sostengono una teoria fantasiosa: il Jobs Act – dicono – ha “creato” un milione di posti di lavoro in tre anni e la gran parte di questi a tempo indeterminato. Se qualcuno chiede loro la fonte, la risposta è pronta: l’Istat. Ecco, in realtà proprio dalla banca dati dell’Istituto nazionale di statistica emerge una verità opposta: due terzi dell’occupazione dipendente creata nel triennio tra il 2015 e il 2018 – quello di massima operatività del Jobs Act, prima che Corte costituzionale e primo governo Conte avviassero una leggera controriforma – è precaria, a tempo determinato: solo il 35% della nuova occupazione creata era invece a tempo indeterminato. Più del Jobs Act del 2015 poté il decreto Poletti del 2014, che aveva “liberalizzato” il ricorso al lavoro a termine.

Pareva un dibattito chiuso, ma ora che la Cgil propone un referendum per abrogare il decreto attuativo del Jobs Act che ha cancellato il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (il vecchio articolo 18), i fan della riforma renziana – che in realtà fu dettata da Confindustria parola per parola – tornano a scatenarsi e si dicono ancora convinti, malgrado le evidenze statistiche e scientifiche, del bengodi occupazionale seguito alla maggior libertà di licenziare decisa da Renzi (in realtà era uno dei “consigli” all’Italia contenuti nella lettera della Bce del 2011).

Qui cercheremo di fare il punto usando un po’ di numeri, ma prima dobbiamo intenderci sul significato del verbo “creare” in relazione ai posti di lavoro. È bizzarro che qualcuno possa essere convinto che i posti di lavoro si “creino” con una semplice riforma dei licenziamenti. In realtà la salita dell’occupazione di quegli anni, che c’è stata, deriva da una serie di fattori economici, il primo dei quali è la (lenta e frammentata) fuoriuscita dalla doppia crisi del 2008 e del 2011/12.

E allora ecco i numeri. A marzo 2015 gli occupati dipendenti in Italia erano 16,6 milioni, così suddivisi: 14,3 milioni a tempo indeterminato e 2,3 milioni a tempo determinato (dato che, peraltro, segnava già una crescita rispetto al 2014). Il Jobs Act è entrato in vigore il 7 marzo 2015 e, nel frattempo, erano già stati previsti ricchi incentivi alle assunzioni stabili. Queste scelte di politica economica si sono inserite in un contesto già di per sé favorevole: la doppia crisi era alle spalle, si tornava a intravvedere il segno “più” in diversi indicatori e soprattutto la Bce aveva avviato una politica monetaria espansiva (il quantitative easing).

Questo ha ovviamente comportato un aumento dell’occupazione sostanzioso e dopo un triennio, a novembre 2018, i posti di lavoro dipendenti in Italia risultavano cresciuti di poco più di un milione. Una dinamica simile a quella del resto degli altri Paesi europei (Grecia esclusa), che pure non avevano certo approvato il Jobs Act renziano.

A questo punto possiamo tornare a guardare alla qualità dell’occupazione creata in quel periodo. Partiamo dal perché abbiamo scelto come riferimento per confrontare i dati il novembre del 2018: in quel mese entrarono in vigore le prime norme del cosiddetto “decreto Dignità”, che modificavano alcune parti del Jobs Act e del decreto Poletti, aumentando gli indennizzi per i lavoratori licenziati e riducendo le possibilità di stipulare contratti precari. Non solo: a fine settembre 2018 la Consulta aveva bocciato il contratto a tutele crescenti, principale creatura del Jobs Act, laddove prevedeva indennizzi fissi e legati alla sola anzianità di servizio per i licenziamenti illegittimi. Tradotto: a partire dall’autunno del 2018 la riforma renziana iniziava a perdere pezzi, abitudine che in seguito non ha mai perso.

Ecco allora com’era messa l’occupazione a novembre 2018: 14,67 milioni di occupati stabili e quasi 3 milioni precari. Rispetto all’entrata in vigore del Jobs Act, insomma, due terzi dei nuovi posti di lavoro era a tempo determinato e poco più di un terzo permanente. Ne consegue che la ragione con cui si giustificò il Jobs Act – le imprese assumeranno a tempo indeterminato perché possono licenziare – è stata smentita dai numeri e chi la ripete oggi è disinformato o un mentitore.

In realtà, gli effetti degli interventi di Renzi e soci sul lavoro sono anche peggiori di così. Scomponendo i dati si nota che, nel corso del 2015, i contratti a tempo indeterminato avevano compiuto una netta avanzata: quell’anno le assunzioni stabili hanno superato i due milioni. Il motivo è semplice: nel 2015 gli incentivi alle assunzioni hanno coperto il 100% dei contributi a carico dell’azienda. Quando però, nel 2016, lo sgravio è sceso al 40%, il rallentamento è stato netto: meno di 1,3 milioni di assunzioni stabili.

In sostanza, il governo ha sovvenzionato con 10 miliardi di euro assunzioni che ci sarebbero state comunque, mentre nel medio periodo il mercato del lavoro ha sfornato per la gran parte precariato. Dal 2019 (anno in cui, peraltro, l’aumento dei lavoratori dipendenti è stato minimo) non ha alcun senso analizzare il mercato del lavoro sotto la lente del Jobs Act: i molti pezzi persi per strada dalla legge renziana e le mille cose successe al mondo (Covid, guerre, sospensione del Patto di stabilità Ue, Pnrr, eccetera) lo rende un esercizio inutile a livello intellettuale, ancorché non si possa impedire a nessuno di fare propaganda di bassa lega.

Parlando più in generale, in letteratura è un fatto ormai scontato che la precarizzazione non migliori la qualità del mercato del lavoro e finisca per peggiorare anche la produttività. L’economista Andrea Roventini qualche giorno fa ha ricordato una serie di studi sul tema: una pubblicazione del Fondo Monetario Internazionale, ad esempio, ha mostrato come questo tipo di riforme abbiano aumentato la volatilità e la disuguaglianza delle retribuzione, rallentando l’accumulo di capitale umano e contribuendo al rallentamento della produttività. Uno studio della Banca d’Italia ha analizzato la riforma dei contratti a termine approvata nel 2001 dal governo Berlusconi, concludendo che ha aumentato i rapporti precari senza far crescere l’occupazione, sfavorendo i giovani e facendo salire i profitti delle imprese.

Cambiare il mercato del lavoro, peraltro, ha conseguenze sulla vita tutta. Nel 2020 uno studio condotto da tre ricercatori ha mostrato come la maggiore incertezza del lavoro si sia tradotta in minore propensione delle donne ad avere figli: dall’indagine è emerso, in particolare, che le donne assunte dopo il Jobs Act, quindi senza il paracadute dell’articolo 18 in caso di licenziamento, prendevano i congedi di maternità con frequenza ben minore rispetto a quelle assunte prima di marzo 2015.

Riassumendo, e non prima di aver ribadito l’impossibilità di legare l’andamento del mercato del lavoro a una riforma dei contratti, non risulta che il Jobs Act abbia favorito una crescita dei posti stabili, mentre è oggettivo che abbia ridotto le tutele dei lavoratori fino a farle diventare del tutto insufficienti a proteggerne i diritti. Ecco perché, negli scorsi anni, è stato spesso e volentieri censurato nei tribunali, a partire dalla Corte costituzionale, e da altri organi di diritto internazionale come il Comitato europeo per i diritti sociali.

 

Articolo di Roberto Rotunno sul Fatto Quotidiano del 27 maggio 2024

 




BdM. Valutati da un algoritmo: quando i numeri contano più delle persone!

Come ogni anno è arrivato il momento in cui vengono portate alla conoscenza dei colleghi le valutazioni sull’operato dell’esercizio precedente e, mai come quest’anno, non sono mancate le sorprese!

Ci preme sottolineare, prima di raccontarvi le novità, che questo momento di confronto tra il responsabile ed il collaboratore dovrebbe rappresentare un’opportunità̀ per valutare, incoraggiare e sviluppare il contributo di ciascuno ed è dunque un elemento chiave per la valorizzazione delle persone, argomento che dovrebbe essere tanto caro all’Azienda, soprattutto se si tratta di un’azienda a partecipazione pubblica!

Ma quest’anno, grazie all’introduzione del tanto sbandierato “Performance management”, nuovo sistema di valutazione presentato al di fuori delle procedure ex CCNL ed adottato a fine 2023, ovvero al termine dell’anno di riferimento, e con obiettivi, addirittura, assegnati a gennaio 2024, il processo valutativo non è stato condotto diciamo in modo “lineare” perché il 75% della valutazione (si avete capito bene…il 75%!) è dipesa non dal giudizio espresso dal Responsabile della struttura ma dai famigerati “Deliverables”….ovvero dal raggiungimento di obiettivi di budget! Relegando quindi il giudizio del valutatore ad un mero 25% che nessun peso ha e può avere sull’esito finale della valutazione.

Riteniamo che chi lavora fianco a fianco con il collega valutato sappia molto bene qual è il suo valore, qual è il suo impegno e qual è il suo rendimento in un ambiente che, come abbiamo più volte denunciato, non aiuta l’organizzazione del lavoro. Nella nostra Banca invece si valuta il personale “leggendolo” solamente tramite un “algoritmo” che tiene conto degli scostamenti di determinati parametri dai budget assegnati: in pratica siamo valutati per i risultati e non per i mezzi, in piena violazione dell’Art.80 del CCNL che lo vieta espressamente, risultati che danno solo un’immagine limitata e parziale delle “persone”!

Ci chiediamo come sia possibile, in un Gruppo che si vanta di valorizzare le persone, standardizzare le valutazioni in questo modo basandole solo sui risultati e non sull’effettiva professionalità̀ dei colleghi, con possibili effetti negativi anche sul pagamento del sistema incentivante e sul premio aziendale. Sorvolando poi sul fatto che non sono stati rispettati i termini contrattuali che prevedono la consegna delle valutazione entro il primo quadrimestre dell’anno successivo.

Ricordiamo che il vigente CCNL prevede che la prestazione di lavoro subordinato sia una prestazione di mezzi e non un’obbligazione di risultato, e che il mancato raggiungimento degli obiettivi quantitativi commerciali, di per sé non può determinare una valutazione negativa e non costituisce inadempimento dei doveri contrattuali (Art. 80).

Consigliamo a tutti i colleghi, che ritengano di aver ricevuto un giudizio della valutazione professionale per il 2023 non rispondente alla prestazione svolta, di presentare ricorso alla direzione aziendale facendosi assistere dai rappresentanti sindacali aziendali.

Peraltro La nostra Azienda continua a macinare numeri assai soddisfacenti grazie allo straordinario impegno delle lavoratrici e dei lavoratori anche in questi primi mesi del 2024.
Nonostante ciò (speriamo di non dover dire “a causa di ciò”) né la nostra Direzione nè la Capogruppo danno ancora riscontro alle numerose istanze in sospeso ormai da mesi.

Bari/Orvieto, 23 Maggio 2024

 

ODC BDM BANCA
FABI – FIRST/CISL – FISAC/CGIL – UILCA – UNISIN

RR.SS.AA. CASSA DI RISPARMIO DI ORVIETO
FABI FIRST/CISL FISAC/CGIL