“Adesso basta!”: manifestazione nazionale il 20 aprile a Roma

Sabato 20 aprile a Roma è in programma una manifestazione organizzata da Cgil Nazionale e UIL Nazionale per rivendicare salute e sicurezza, diritto alla cura e sanità pubblica, riforma fiscale e tutela dei salari e delle pensioni.

Il concentramento è fissato per le ore 9.00-9.30 presso Piazzale Ugo La Malfa (Circo Massimo) e la partenza del corteo è prevista da Viale Aventino per le ore 10.30. Il comizio conclusivo si terrà in Piazzale Ostiense con Maurizio Landini, Segretario generale nazionale CGIL e Pierpaolo Bombardieri, Segretario generale nazionale UIL.

Questo il percorso del corteo:

  • Piazzale Ugo La Malfa
  • Via del Circo Massimo
  • Viale Aventino
  • Piazza Albania
  • Viale della Piramide Cestia
  • Piazza di Porta San Paolo
  • Piazzale Ostiense.

La manifestazione si concluderà alle ore 13.30 circa.

Saranno organizzati pullman e treni dalle principali località abruzzesi e molisane. Contattate il vostro rappresentante Fisac per prenotarvi.


 

Per approfondire le ragione della mobilitazione:

Cgil e Uil, giovedì 11 aprile sciopero generale di 4 ore per tutti i settori privati

 




Vite in subappalto

Anche quando tutto è per così dire in regola, cioè quando non ci sono lavoratori clandestini senza carte presi a giornata, morti che da vivi chiamavi solo per nome, Mustafà, Karima, Gezim, ché non ne hai mai saputo il cognome. Anche quando sono subappalti, esternalizzazioni, contratti a progetto a norma di legge vigente: quando insomma l’azienda madre preferisce far fare ad altri un lavoro che in origine faceva fare ai suoi. Ecco: anche quando è tutto a posto c’è qualcosa, in questo sistema, che non va.

Bisognerebbe fermarsi un momento, mettersi seduti e ragionarci in modo semplice, chiaro. Quello che conviene all’azienda madre non è detto che convenga ai lavoratori (quasi mai) né ai consumatori, a noi.
Paghiamo forse meno le bollette, le prestazioni mediche, i libri o i giornali da quando le aziende – pubbliche o private – hanno deciso di chiudere interi comparti, mandare a casa decine di dipendenti e affidare a ditte esterne il lavoro che prima facevano gli interni?
Non  i pare. Non mi pare che il ticket per un’ecografia costi meno se a farla è un medico contrattista, cioè un medico che guadagna di più a fare da esterno (chiamato a contratto, anche giornaliero) la stessa cosa che faceva o avrebbe fatto da interno. Noi paghiamo lo stesso prezzo, il medico prende di più a giornata ma perde in garanzie, in continuità assicurazione pensione, tutele. Lavora a cottimo, diciamo. Meglio un uovo oggi, eccetera.
L’azienda spende meno e ci guadagna, almeno apparentemente: almeno fino a che non arriva un disastro, un’inchiesta, una domanda di risarcimento milionaria. Il lavoro è più precario. Il servizio è meno accurato.

In certe aziende editoriali e culturali, il settore che conosco meglio, storici editori e produttori hanno da molti anni chiuso comparti come l’archivio, ora automatizzato, la moderazione dei commenti (prima era la risposta alle lettere), la produzione di video, la post produzione (montaggio, suono, colore), la correzione dei testi, la traduzione, la segretaria organizzativa e a volte la produzione stessa di eventi dal vivo. Si affidano a professionisti esterni. Ottimo, no? Perché così lavorano persone che non avrebbero mai lavorato, nessuno ti assume più come interno se non con la pistola del sindacato puntata alla tempia e sempre in cambio di prepensionamenti più o meno “volontari”, il cosiddetto “snellimento” della forza lavoro.

Ma il risultato della dieta non è sempre lo stesso. Un conto è alzare il telefono e parlare con qualcuno che ne sa più di te perché in azienda fa quel mestiere da anni, ti orienta e ti tutela, un altro è mandare una mail a Kevin che oggi non è di turno e ti risponderà domani Loredana che però non è al corrente del problema perché non era di turno ieri, e comunque è ormai troppo tardi, il rullo corre, è andata com’è andata e speriamo bene.
Il prezzo finale del prodotto, ripeto, non cambia. Anzi talvolta aumenta: La sua qualità s’impoverisce. I lavoratori sono a cottimo. Chi risparmia è uno solo.

“La sicurezza sul lavoro è un dovere. Non è un costo né un lusso” ha detto il cardinale Matteo Maria Zuppi a Bologna a proposito della tragedia di Suviana.
Meno male che Zuppi c’è, citando. La sicurezza, la continuità, le tutele. Quello che conviene all’azienda – pagare gente fuori per non tenere gente dentro – non è detto, vedete, che convenga a chi lavora.

Non dico che, se fossero stati interni, i sette lavoratori morti nell’esplosione della centrale di Bargi non sarebbero morti. Dico che avrebbero avuto , le famiglie , più semplice e diretta tutela legale. Pensione, assicurazione legale, risarcimento. Per quel che conta, e conta molto, sarebbe stata l’azienda a farsene carico. Non un’inchiesta giudiziaria che dovrà appurare, nei tempi biblici della giustizia, responsabilità e regolarità dei subappalti: è sempre qualcun altro il colpevole.

C’era un tempo, me lo ricordo bene perché mio nonno lavorava in fabbrica, in cui se qualcosa ti capitava era l’azienda a prendersi cura di te, della tua famiglia, dei figli a cui talvolta la ditta assicurava la continuità negli studi e persino un lavoro. Era un altro mondo, lo so.
Ma era peggiore di questo? Siamo andati verso un progresso sociale, collettivo, con le esternalizzazioni e le liberalizzazioni o solo verso l’interesse economico dell’imprenditore?

Non so se avete visto le immagini del luogo del disastro, a Bargi. Sono le stanze degli incubi. Ventimila leghe sotto il lago. Una miniera – minatori – ma sott’acqua. Senza luce naturale, senza aria viva, la pressione del lago alle pareti. Lavoravano a 54 metri sotto la superficie. A meno otto, meno nove sono esplose le turbine (o quel che è successo, l’inchiesta dirà).
Erano tutti esperti, erano quasi tutti esterni. Uno dei morti, Mario Pisani, aveva 73 anni. Era andato in pensione e ora lavorava come consulente con una sua società. Va bene così?

“Non c’è nessun  problema nell’affidare lavori in subappalto” ha detto il Procuratore che indaga. E’ previsto dalla legge, si può. Resta da chiedersi perché, a vantaggio di chi.
Se vendo dieci pezzi a cento euro o dodici pezzi a novanta guadagno lo stesso, sempre mille sono. Ma mi conviene venderne dieci a cento, perché altrimenti dovrei lavorare di più; dodici manovre sono più di dieci, costano turni, personale. contributi. Se subappalto un collaudo spendo meno.
Poi ci sono le vite. Il ricatto del lavoro, o così o niente, ci sono le famiglie, le storie ferite, i lutti con cui per sempre d’ora in avanti fare i conti.
Ci siamo noi. Il mondo che abbiamo immaginato, quello che abbiamo lasciato diventasse. Senza protestare troppo perché in fondo – persino ventimila leghe laggiù sott’acqua – o così o niente.

Che terribile orizzonte di speranza stiamo lasciando a chi arriva.

Articolo di Concita De Gregorio su Repubblica del 14/4/2024

 




Le stragi sul lavoro, morti per conto terzi: è il profitto, bellezza

A ogni strage sul lavoro ci domandiamo come scriverne, cosa dire che non sia già stato detto centomila volte, come andare oltre la rabbia e l’indignazione, il cordoglio e la vicinanza ai parenti delle vittime. È successo ad agosto, quando a Brandizzo 5 operai sono morti travolti da un treno in corsa, poi a febbraio quando altri 5 lavoratori sono stati schiacciati da una trave nel cantiere dell’Esselunga a Firenze.
Martedì un’esplosione nella centrale idroelettrica di Bargi, nel bacino artificiale di Suviana, sull’appennino Tosco-emiliano, si è portata via Mario, Vincenzo e Pavel, ma il bilancio non è ancora definitivo: ci sono quattro dispersi, otto feriti di cui uno in gravi condizioni. Li chiamano “incidenti” perché sono eventi inattesi, ma nei primi due mesi del 2024 si sono registrate 119 vittime rispetto alle 100 del primo bimestre 2023 (5 vittime in più rispetto al 2022, 15 in più sul 2021 e 11 rispetto al 2020) all’elenco dei caduti mancano ancora quelli di marzo e aprile. Le chiamano morti bianche perché il bianco è il colore della purezza, il contrario del nero, il colore del lavoro sommerso. Le chiamano morti bianche perché sennò dovrebbero definirle “omicidi sul lavoro”.
A parte le stragi, che invadono le prime pagine dei giornali, i morti sul lavoro del giorno per giorno sono al massimo dei trafiletti in cronaca: è un bollettino di guerra, e in guerra la morte è un’abitudine. Oggi, non solo a Bologna, ci saranno manifestazioni per chiedere più sicurezza, più ispezioni, più garanzie.

Dopo Firenze, il governo ha introdotto con un decreto la patente a punti per le imprese, come quella dell’automobile: si parte con 30 punti, si può lavorare con un minimo di 15: se ti muore un operaio te ne tolgono 20, 15 in caso di infortunio grave. Ma, frequentando corsi di aggiornamento e formazione, si possono ripristinare 5 punti (con un morto più un corso di formazione, si arriva di nuovo a 15 punti e si può lavorare): i crediti riacquistati “non possono superare complessivamente il numero di quindici”. Una presa in giro, soprattutto perché il decreto non ha toccato il nodo centrale dei subappalti, che proprio questo governo ha deregolamentato. Così, con i subappalti a cascata, la ditta che vince la gara può affidarsi a una serie infinita di altre aziende o ditte individuali; così i lavoratori a cascata spesso non hanno il contratto di categoria relativo alle mansioni che svolgono (e per i quali, come nell’edilizia, sono previsti presidi di sicurezza più stringenti) o magari nessun contratto. E questo accade, di fatto, anche negli appalti pubblici, sempre grazie al governo Meloni che ora promette di tornare indietro. Le aziende risparmiano sui costi del lavoro e della sicurezza, ci rimettono i dipendenti, anche se sarebbe meglio chiamarli schiavi visto che i diritti sono sempre meno e il salario pure.
L’unica logica è il profitto, a qualunque costo: guadagnare il più possibile, il resto non conta. Nemmeno le vite.

Su La Stampa di ieri si poteva leggere che la diga di Suviana (senza cui, quattro decenni dopo non si sarebbe potuta realizzare la centrale di Bargi) è stata costruita un secolo fa, negli anni Trenta del Novecento: i lavori di scavo della montagna, “portarono a movimentare 85.000 metri cubi di rocce e 45.000 metri cubi di materie alluvionali e terrose in questa zona allora impervia dell’alto appennino tosco-emiliano a cavallo tra Bologna e Pistoia, avevano comportato un grande sacrificio di vite umane. Tredici operai morti oltre a una innumerevole quantità di infortuni”. Cento anni dopo, nella Repubblica fondata sul lavoro, siamo più o meno nelle stesse condizioni.
Almeno gli operai degli anni Trenta sapevano per chi lavoravano e morivano, oggi sono morti per conto terzi.

 

Articolo di Silvia Truzzi su Il Fatto Quotidiano dell’11/4/2024




Bollette, ora è ufficiale: l’addio alle tutele è una gran fregatura

Clienti divisi in 4 categorie, prezzi più alti, incertezza e il paradosso dei vulnerabili penalizzati: ecco com’è la “riforma”


Ora che il disastro è compiuto, i giornali parlano di “beffa bollette”, le associazioni dei consumatori s’infuriano e l’Autorità per l’energia (Arera) richiama gli operatori. In realtà era tutto già scritto. Forse solo gli storici potranno raccontare quale follia collettiva sia stata la fine del cosiddetto “mercato tutelato dell’energia” attuata dal governo Meloni e che oggi ha segmentato la clientela domestica in 4 categorie, consegnandoci un meccanismo che di mercato non ha nulla se non la certezza che milioni di clienti vedranno in futuro salire i costi in bolletta, anche chi era già penalizzato.

La fine del mercato tutelato è stata decisa nel 2017 (ministro Carlo Calenda) e poi sempre rinviata nella consapevolezza che fosse, appunto, una follia. È stato il governo Draghi a blindarla – inserendola come “riforma abilitante del Pnrr” – su spinta del consigliere economico Francesco Giavazzi e senza spiegare perché (le riforme sono così): il solco tracciato è stato infine difeso, nel governo Meloni, dal ministro del Pnrr Raffele Fitto, per evitare grane con l’Ue essendo stata inserita come obiettivo della terza rata del piano. A disastro compiuto, Meloni è riuscita solo a lamentarsi con le opposizioni per averle “legato le mani” votando il Pnrr al tempo di Draghi.

La decisione comporterà la deportazione forzata di 5 milioni di clienti dal cosiddetto “servizio a maggior tutela” verso il libero mercato, cioè in una giungla dove 700 e rotti operatori si contendono i clienti a suon di chiamate moleste e offerte incomprensibili. Il passaggio però non avverrà subito: i clienti finiranno prima, da luglio, nelle “tutele graduali”, cioè saranno serviti per tre anni da operatori che se li sono accaparrati con delle aste.

Il mercato tutelato era nato con la stessa liberalizzazione del settore decisa nel 1999 dal ministro Pier Luigi Bersani e prevede che la corrente la acquisti una società statale, l’Acquirente Unico, che poi la rivende agli operatori a prezzi stabiliti dall’Arera. L’AU non è sovvenzionato, funziona come un enorme gruppo d’acquisto collettivo che può (o meglio poteva) strappare i prezzi migliori. Si badi bene: ulteriore cifra della disonestà è data dal fatto che dalla deportazione nel libero mercato sono stati esentati quasi 5 milioni di clienti cosiddetti “vulnerabili”, cioè i malati, gli over 75, gli alluvionati e i terremotati. Gente a cui si vuole evitare di finire in pasto alle centinaia di operatori di mercato, ammettendo implicitamente che di giungla si tratta.

E veniamo all’oggi. Nei giorni scorsi il presidente di Arera, Stefano Besseghini, è andato in audizione alla Camera e, a domanda dei parlamentari, ha lanciato la bomba: i dieci milioni di clienti che oggi sono ancora nel mercato tutelato pagano molto meno in bolletta di quelli nel mercato libero. Da qui i titoli dei giornali sulla “beffa”. Il problema è che è sempre stato così. Dal 2012 al 2020 (dati Arera) il risparmio medio è variato da 0,8 a 4,39 centesimi per kilowattora (il 16% del prezzo totale); nel 2019, al netto delle imposte, i clienti del mercato tutelato hanno pagato in media il 13% in meno di quelli passati al libero, nel 2020 il 24% in meno (189 euro contro 234).

L’unica inversione di tendenza si è avuta nel 2021 (i prezzi si sono di fatto equivalsi) e nel 2022 quando l’esplosione dei prezzi energetici ha invertito il trend. Questo è avvenuto perché nel 2016 si è deciso di “azzoppare l’acquirente Unico”, per usare le parole di Bersani, costringendolo a comprare l’energia solo a prezzi “spot”, cioè sul mercato giornaliero, senza poter operare in quello “a termine” potendo valutare così i prezzi convenienti per il futuro. Da allora le tariffe del mercato tutelato sono decise da Arera sulla base dei prezzi spot trimestrali, che sono esplosi nel 2021-22 mentre sul libero sono stati bloccati dalla decisione del governo Draghi di non consentire agli operatori di rivedere i contratti (una decisione “anti-mercato”).

Besseghini ha spiegato che nella seconda metà del 2023 il trend è tornato quello storico e cioè “molto significativamente a favore del mercato tutelato”, dove il prezzo medio totale pagato dai clienti è stato di 28 centesimi il kilowattora contro i 39 del mercato libero (una differenza del 39%). La causa, secondo Arera, è dovuta alla “componente energia”, cioè alla materia prima, i cui prezzi nel mercato libero sono saliti del 4,5%, mentre nel tutelato sono crollati del 59% anche se nel primo gli operatori non hanno le mani legate come l’Acquirente unico. Non solo. Besseghini ha spiegato anche che, da luglio, i clienti che finiranno nelle “tutele graduali” pagheranno molto meno di quelli sul libero mercato, ma meno persino di quelli “vulnerabili” rimasti nella “maggior tutela”: in media 130 euro nel 2024. Un paradosso per cui, di nuovo, si è strillato alla “beffa”, ma che è scontato visto il meccanismo infernale voluto dal governo nel passaggio.

Semplificando molto, oggi il prezzo applicato ai clienti nel “mercato tutelato” è fatto dalla materia prima (l’energia) – che è quello che l’Acquirente Unico paga sul mercato giornaliero – più una voce stabilita da Arera che remunera l’operatore che vende l’energia. Le aste per accaparrarsi i 5 milioni di clienti “non vulnerabili” che finiranno nelle tutele graduali avevano di fatto come base la remunerazione del “mercato tutelato”: siccome gli operatori hanno fatto offerte a forte sconto per prendersi i clienti, è normale che i prezzi saranno più bassi di quelli applicati ai vulnerabili rimasti nel mercato tutelato.

Se vi sembra una follia, avete perfettamente ragione, ma non è finita qua visto che si è deciso che anche i vulnerabili andranno all’asta dal 2025.

La dozzina di operatori (Enel, Hera, A2a, Illumia, Edison, eccetera) che si sono accaparrati “gli ex tutelati” ha fatto offerte davvero scontate, addirittura negative per quasi tutti i lotti, in media -70euro l’anno a contatore. Qualcosa potranno recuperare sulla componente energia e, ovviamente, tra tre anni potranno alzare i prezzi.

Il senso comune e il parere degli operatori di settore, però, suggeriscono che difficilmente società di mercato decidono di lavorare sottocosto per un triennio. L’ipotesi più probabile – ma in realtà è una cosa che sta già avvenendo e su cui Arera ha promesso di vigilare – è che quei clienti “in perdita” vengano poi tempestati di proposte per farli passare subito al mercato libero. L’altra ipotesi è che le compagnie si rifaranno piazzandogli altri servizi – internet, abbonamenti a pay tv, etc – sempre a colpi di telefonate.

Resta un’ultima ipotesi, e cioè che parte delle perdite venga fatta pagare ai clienti già nel libero mercato attraverso un ulteriore aumento dei prezzi. Problema: fino a luglio chi è nel libero mercato può chiedere di rientrare nel tutelato e finire poi nelle “tutele graduali” per tre anni risparmiando così sulla bolletta. Sarebbe una scelta logica, che infatti secondo alcune sigle di consumatori avrebbe già compiuto un milione di clienti, numeri però non confermati da Arera.

Se succedesse, sarebbe una bizzarra eterogenesi dei fini per la riforma Calenda-Giavazzi-Meloni, ma in ogni caso resterebbe una follia.

 

Fonte: Il Fatto quotidiano dell’8/4/2024




Concluse le assemblee: approvato il CCNL ABI

3 - Fisac Cgil

La consultazione sull’ipotesi di accordo per il rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Credito si è conclusa con la sua approvazione.

Una buona partecipazione al voto nella storia della categoria, favorita anche dalla campagna di informazione e consultazione molto capillare e con lo svolgimento di tantissime assemblee su tutto il territorio nazionale.

I SÌ al contratto sono pari al 99,1%, i NO allo 0,4%, mentre gli astenuti si attestano allo 0,5%.

Prossimo appuntamento avrà ad oggetto gli incontri per la stesura del Testo Coordinato.

Roma, 4 aprile 2024

 

Le Segreterie Nazionali
FABI – FIRST CISL – FISAC CGIL – UILCA – UNISIN

 

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CCNL ABI: concluse le assemblee in Abruzzo e Molise.




La disfatta dei paesi economicamente sottosviluppati dell’Africa

Partiamo da una asserzione spesso presente oggi sui social: se esporti armamenti nei paesi africani in via di sviluppo, poi, non puoi lamentarti di importare profughi.

Ora, per poter rendersi conto di cosa effettivamente accade oggi nei paesi sottosviluppati dell’Africa, occorre necessariamente ricorrere a qualche nozione di storia economica con particolare riferimento alla colonizzazione, la quale venne attuata tramite i due stadi del Capitalismo, ossia la fase del capitalismo mercantile e quello del capitalismo industriale. Possiamo ricordare il primo processo, che si svolge dal 1500 alla metà del 1700; esso fu reso avverabile grazie a rilevanti innovazioni nel campo della navigazione, che portarono a rendere possibile  tre propositi: la ricerca di oro (e di altri metalli preziosi),  la costituzione di empori per la vendita in monopolio di merci della madre patria e per l’acquisto di merci esotiche da rivendere solo nel paese colonizzatore, e la fondazione di piantagioni per produrre, per mezzo di schiavi,  merci coloniali (come zucchero, caffè, tabacco, cacao) da vendere poi nella madre patria.

E’ evidente che esiste una differenza sostanziale tra i paesi che si sono sviluppati per primi ed i paesi ritardatari; aggiungiamo che, purtroppo, con il passare del tempo si sono definiti freni sempre maggiori ad uno sviluppo industriale essenzialmente privato, come quello che abbiamo osservato in Inghilterra nel periodo a cavallo tra il 1750 e il 1850. Sappiamo che lo sviluppo avviene per stadi: nel primo, troviamo nel settore industriale diverse produzioni di base come l’elettricità, l’acciaio, il cemento, diverse produzioni chimiche e meccaniche, con produzioni di beni durevoli di consumo, mentre, nel settore dei servizi, troviamo ferrovie e servizi di credito di base;  nel secondo stadio troviamo lo sviluppo della agricoltura intensiva, il trionfo del commercio di beni di consumo durevoli,  le industrie tessili indirizzate verso la produzione di massa di tessuti di uso popolare, la diffusione delle automotive,  la rivoluzione nei trasporti, l’esplosione dell’edilizia e poi, nei tempi più vicini, l’affermazione delle comunicazioni radiotelevisive, dell’elettronica e dell’informatica. Ora, nei paesi ritardatari, una proporzionata offerta interna di prodotti e di servizi di base rappresenta uno dei prerequisiti dello sviluppo produttivo moderno. Possiamo pensare che, se i vantaggi dei paesi arretrati sono rappresentati dalla possibilità di accedere a sicure tecnologie e ad assodati metodi organizzativi efficienti e moderni, ai quali le regioni progredite sono arrivate attraverso prolungate evoluzioni, gli svantaggi dipendono da tre ordini di “progresso”: il salto della tecnologia, il salto del mercato e il salto imprenditoriale.

È evidente che questi salti sono stati notevoli soprattutto nei paesi che avviarono per primo uno sviluppo industriale moderno, come l’Inghilterra. Infatti, era stato possibile uno sviluppo graduale in tutte le industrie, date le conoscenze tecniche del tempo; era pacifico che anche aziende relativamente piccole fossero in grado di produrre in modo economico, cioè a costi inferiori ai prezzi di mercato, ed era quindi possibile un passaggio sequenziale, dalla piccola azienda artigianale con poche attrezzature e gestione familiare, all’azienda industriale basata sulle macchine. In sostanza, in questo processo di espansione non si incontrava la concorrenza di grandi aziende, che allora non esistevano, né in Inghilterra, né in altri paesi. Parallelamente, uno sviluppo graduale era possibile rispetto al mercato, questo perché le nuove aziende avevano a disposizione il mercato locale, nel quale si ampliavano a spese delle unità artigianali, le quali entravano in crisi. Inoltre, per espandere le vendite sui mercati esteri, le nuove aziende dovevano battere nella concorrenza i prodotti delle aziende artigianali di altri paesi con il perfezionarsi dei metodi produttivi, in una competizione facile in quanto i metodi usati dagli artigiani non mutavano nel tempo e questi fino ad un certo limite potevano difendersi soltanto con il vendere a prezzi decrescenti subendo di conseguenza redditi decrescenti. Poi, sotto l’aspetto sociale, era stata possibile la formazione graduale di imprenditori nel senso moderno della definizione, con capacità gradualmente acquisite di dirigere grandi aziende in molti rami della produzione.

Oggigiorno questo sviluppo graduale non è più possibile, in quanto vi è un salto imposto dalla tecnologia nei casi in cui, per produrre economicamente, le dimensioni delle unità produttive debbono essere grandi. Vi è poi un salto nella conquista del mercato perché il mercato locale, per certi beni, in certe aree, è già stato conquistato da grandi imprese moderne, le quali sono ubicate altrove e per competere con le quali occorrono una vasta organizzazione commerciale e costose campagne pubblicitarie. Stesso discorso se pensiamo alle esportazioni; anche in questo ambito le difficoltà sono ancora maggiori, perché si tratta di battere sui mercati esteri i prodotti di aziende moderne di altri paesi, che in quei mercati sono già affermati. Infine, citiamo la difficoltà di un salto nella formazione delle persone capaci di diventare imprenditori industriali.

Al principio del 1900, questi ostacoli potevano essere sorpassati dalle imprese private con un aiuto relativamente limitato e, in ogni caso, esterno diretto dell’autorità pubblica, soprattutto con infrastrutture e dazi protettivi; oggi, per le economie (africane) sottosviluppate, questi ostacoli sono divenuti così problematici da reclamare dei salti che le forze private locali trovano impossibile effettuare. Unica via azzardata per superare le difficoltà è stata quella che apriva le porte all’ingresso di grandi società straniere. Ma questa opzione ha posto nuovi problemi per i paesi africani economicamente arretrati, principalmente di tipo politico ed istituzionale, con rischi di inevitabili interferenze esterne e nuovi problemi economici legati allo sfruttamento della classe lavoratrice e delle risorse naturali.  Anche i tentativi di utilizzare come strategia di contenimento le società sussidiarie, ossia aziende locali che fanno parte di un gruppo internazionale, non hanno risolto alcun problema. È così che i sindacati che operano nel terzo mondo si sono ritrovati a dover cercare di adottare delle politiche tali da ridurre non solo i rischi economici, ma anche i rischi politici, registrando, purtroppo, che coloro che lavorano per conto di società a carattere multinazionale sono difficilmente raggiungibili e corporatizzati, perché isolati dal contesto generale di forte disoccupazione.

Possiamo sicuramente associarci a chi sostiene l’impossibilità di utilizzare la scienza economica occidentale ai paesi africani meno sviluppati, in quanto gli strumenti offerti sono risultati inapplicabili; ad esempio, possiamo ritenere che l’analisi keynesiana della sottoccupazione non si adatti ai paesi meno sviluppati. In questi stati, il rapporto tra esportazioni e il PNL (prodotto nazionale lordo) varia in maniera rilevante in relazione alla loro dimensione economica; in alcuni paesi, molto piccoli, esso supera il 50% e le loro esportazioni sono dirette prevalentemente ai paesi sviluppati. Esse consistono soprattutto di beni primari, che vengono dati in cambio di manufatti, carburanti e materiali industriali necessari per il funzionamento della economia e per lo sviluppo economico. Malauguratamente molti paesi sono specializzati in uno oppure in un piccolo numero di beni privati: ad esempio abbiamo l’economia del petrolio o l’economia delle banane, o del cacao, o del caffè. Inoltre, i proventi delle esportazioni ballano considerevolmente in conseguenza delle variazioni dei raccolti o dei prezzi mondiali o della domanda estera (che tende a diminuire per ragioni tecnologiche: pensiamo, ad esempio, ai materiali sintetici prodotti in numero crescente dai paesi avanzati, che sostituiscono le fibre e le altre materie prime). Come conseguenza, le variazioni delle esportazioni dei paesi meno sviluppati sono la causa principale di instabilità economica e, quindi, di crisi sociale e di crescita della povertà. Se aggiungiamo che molti paesi africani vengono indotti ad acquistare armi e condotti a praticare la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali, spesso causate dall’interferenza dei paesi imperialisti, ci rendiamo conto che non vi è alcuna possibilità per l’Africa (del terzo mondo) di riscatto dallo sfruttamento economico perpetrato dalle potenze capitalistiche.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Fisac Cgil Chieti




Il sovranismo rivisitato: sostituzione etnica no, a meno che…

Ma chissà perché con salari fermi da trent’anni, l’inflazione che si mangia il carrello della spesa, i giornali che invocano la guerra, i diritti in ritirata, la sanità pubblica gravemente ammalata e un dieci per cento della popolazione che balla intorno alla soglia di povertà, gli italiani fanno sempre meno figli. È davvero un mistero, porca miseria, chi l’avrebbe mai detto? Vabbè, comunque auguri ai 379.000 piccoletti nati nel 2023, pochi ma buoni, benvenuti! E mentre loro se ne stanno beati e ignari nelle loro culle e carrozzine, noi, qui, dobbiamo fare i conti con i giovani italiani che mancano, dannazione.

Questo è un problema che ci esporrà a enormi rischi, per esempio quello di leggere altri tweet del ministro Valditara, una specie di incontro di wrestling con la grammatica e la sintassi, dove la grammatica e la sintassi hanno la peggio. Oppure – altro rischio molto sbandierato – di essere vulnerabili ad assalti stranieri all’arma bianca. Nel caso qualcuno ci attaccasse, il nostro esercito è fatto quasi tutto da graduati adipe-muniti, età media altina, reddito basso ma sicuro. Perché, come pare si stia riflettendo negli ambienti della Difesa, non ricorrere ad arruolamenti tra gli immigrati? Una specie di legione straniera, insomma. Non saranno gli “otto milioni di baionette” del Puzzone, d’accordo, ma qualcosa si può fare, e già si ventila – secondo numerose indiscrezioni – di attirare volontari con la promessa della concessione della nazionalità italiana. Insomma, ai “patrioti” che ci governano, che i soldati di truppa abbiano un’altra patria non importerebbe granché. E così assisteremmo al divertente paradosso che se imbracci un fucile ti facciamo diventare italiano, mentre se sei uno straniero – anche nato in Italia – e frequenti le elementari, o le medie, o le superiori, o ti laurei e diventi dottore no, non sei pronto.

Naturalmente non è una cosa nuova, questa di prendere stranieri e di fargli fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, basta dare un’occhiata a qualunque cantiere, a qualunque consegna di cibo a domicilio, a qualunque lavoro sottopagato, senza formazione e meno ancora diritti. Insomma, al fronte gli stranieri li mandiamo già, fronte interno, basti vedere i funerali dei lavoratori caduti al cantiere Esselunga di Firenze poco più di un mese fa: per quattro quinti di provenienza straniera (Tunisia e Marocco), alcuni fuori da ogni regola, che meriterebbero almeno una lapide: “Caduti sul fronte appalti & subappalti”.

Insomma, la “sostituzione etnica” tanto temuta dal ministro cognato è in atto, e riguarda soprattutto i lavori di merda, rischiosi e sottopagati. Un vero peccato che non si possano mettere gli stranieri a fare anche altre cose che gli italiani non vorrebbero fare. Per esempio i malati. Quel 6,6 per cento di italiani che hanno dovuto chiedere prestiti per pagarsi cure che la Costituzione gli garantirebbe gratis, oppure quei 9 milioni che si dichiarano in difficoltà perché non riescono ad accedere alla sanità pubblica, non potrebbero essere sostituiti da pazienti stranieri? In cambio potremmo dargli la cittadinanza, dopo il funerale. O ancora, oltre al soldato, o all’operaio edile, o al consegnatore di pizze, agli stranieri potremmo affidare anche lavori che gli italiani non sono in grado di fare con i necessari requisiti di “dignità e onore”, come per esempio il ministro del Turismo.

È possibile che tra Ghana, Togo e altri Paesi esotici se ne trovi uno non iscritto al registro degli indagati. Proviamo!

 

Articolo di Alessandro Robecchi sul Fatto Quotidiano del 3 aprile 2024




Da aprile stop allo smart working semplificato

Dal 1° aprile 2024 è scattato lo stop allo smart working agevolato anche nel privato, dove era ancora in vigore per i dipendenti fragili e con figli under 14: non significa che il lavoro agile ora sparirà del tutto, ma che per potervi fare ricorso serviranno accordi individuali tra il lavoratore e il datore di lavoro.


 

Dal 1° aprile 2024 è scattato lo stop per le agevolazioni allo smart working, ancora in vigore nel settore privato per alcune categorie di dipendenti. I lavoratori dovranno quindi tornare in ufficio, ma resta sempre aperta la strada dell’accordo individuale con il datore di lavoro. La norma scaduta lo scorso 31 marzo (dopo diverse proroghe) permetteva ai dipendenti del privato con figli minori di 14 anni e a quelli considerati “fragili” di lavorare da remoto: ora questa possibilità non è totalmente cancellata, ma servirà la sottoscrizione di un accordo individuale tra impresa e lavoratore per accedervi.

In altre parole, la possibilità di ricorrere al lavoro agile non è più riconosciuta come una sorta di diritto del dipendente – come avveniva nei mesi della pandemia – ma dovrà essere definito tramite un accordo sulle “modalità di esecuzione della prestazione”.

Lo smart working agevolato era stato introdotto durante la pandemia di coronavirus come misura per limitare i contagi. Dopo la fine del lockdown e delle chiusure legate all’emergenza sanitaria era stato comunque prorogato diverse volte sia nel settore pubblico che in quello privato. Le agevolazioni per i dipendenti pubblici erano scadute il 31 dicembre 2023, mentre nel privato la proroga finale era stata sancita nel decreto Anticipi dello scorso ottobre e fissava la scadenza per due categorie di dipendenti – i “fragili” e i genitori di under 14, appunto – al 31 marzo 2024.

Dello smart working e dei suoi benefici si è discusso ampiamente in questi anni: con la fine delle agevolazioni non è detto che il lavoro agile scompaia del tutto, ma non sarà più così immediato farvi ricorso. Come detto, il datore di lavoro che vorrà fare ricorso alla modalità flessibile dovrà firmare con ogni dipendente un accordo individuale. Nella disciplina ordinaria dello smart working, alcune categorie di lavoratori manterranno comunque una priorità: si tratta delle richieste dei dipendenti con figli piccoli (al di sotto dei 12 anni di età) o che presentano disabilità (in tal caso senza limiti anagrafici), caregiver o disabili gravi. Rientrare in queste categorie, però, non prevede un automatico diritto al lavoro agile: molto dipende dal datore di lavoro e dal suo riconoscimento o meno di questa modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.

 

Fonte: Fanpage

 




Come funziona il sistema previdenziale: proviamo a spiegarlo in modo semplice

Nonostante le tante promesse di questo Governo in campagna elettorale, di fatto con la Legge di Bilancio l’Esecutivo è riuscito a peggiorare ulteriormente l’impianto previdenziale. E’ un tema di forte attualità presso le nostre aziende, sia per le numerose uscite per pensionamento che per gli accordi di esodo.

Per questo motivo, il Dipartimento Previdenza della Fisac Cgil ha predisposto una serie di slides che possono aiutare a comprendere i meccanismi alla base del nostro sistema pensionistico.

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Report Fisac Cgil, inflazione cala ma redditi da lavoro non recuperano

Susy Esposito: “Il mondo del lavoro fatica sotto il peso di un fisco ingiusto, 11 aprile sciopero”

Inflazione in calo, grazie alla flessione dei prezzi energetici, ma che tende a mantenersi alta nel carrello della spesa. Salari in recupero per effetto della contrattazione ma ancora abbondantemente lontani dal compensare il divario inflattivo. È il quadro delineato dalla nota congiunturale di marzo dell’Ufficio Studi  & Ricerche della Fisac Cgil che si inserisce in un quadro macroeconomico definito “high for longer“, ovvero fatto di tassi di interesse elevati per molto tempo.

In generale, osserva la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito, “l’ipotizzato rischio di forte recessione non si è, al momento, palesato nonostante una inflazione in lenta diminuzione e una politica monetaria che continua a essere restrittiva. Ma il mondo del lavoro fatica sotto il peso di un fisco ingiusto, che grava su dipendenti e pensionati e che incentiva l’evasione mentre intere categorie economiche continuano a non pagare le imposte dovute. Ed è anche per questo che sciopereremo l’11 aprile insieme alla Uil, perché ‘Adesso Basta!’, è ora di una giusta riforma fiscale”.

Inflazione e salari

L’incremento dei salari, spiega la nota congiunturale della Fisac Cgil, “seppur in recupero grazie alla contrattazione, è ancora abbondantemente lontano dal compensare pienamente il divario inflattivo: la decisa decelerazione dell’inflazione nel corso del 2023 ha ridotto la distanza tra la dinamica dei prezzi (Ipca) e le retribuzioni contrattuali a circa tre punti percentuali, meno della metà di quella osservata nel 2022”. Importante rilevare come questo dato, si legge, “sia fortemente influenzato dai rinnovi contrattuali dei settori pubblici, meno da quelli dei settori privati”.

Inoltre, prosegue la nota dell’Ufficio Studi & Ricerche Fisac Cgil, “alla fine del 2023, nei 44 contratti in vigore per la parte economica solo il 47,6% dei dipendenti totali (48% del monte retributivo) risultava coperto mentre ben 6,5 milioni di lavoratori (il 52,6%) attendono il rinnovo dei loro 29 contratti nazionali. Altro dato allarmante, rilevato sempre dall’Istat, è quello per cui il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi del dicembre 2023, in sintesi è andato perduto un ulteriore anno”.

Tassi bancari, depositi e prestiti

Tassi in calo, riporta la Fisac Cgil. L’Euribor a 3 mesi, che a novembre registrava una media del 3,98%, con un picco del 4% di metà mese, si attesta a un livello del 3,90%. Il tasso EurIRS a 10 anni, più sensibile alle dinamiche di lungo periodo, è collocato al 2,63% in discesa rispetto ai livelli di novembre 2023 (pari ad una media superiore al 3%). L’intera curva per durata di questi indicatori si trova oggi abbondantemente sotto la soglia del 3%; l’indicatore trentennale registra, a marzo 2024, valori intorno al 2,3%.

Il calo dei tassi di riferimento però, si rileva nella nota, “non ha ancora determinato una inversione di tendenza: il credito alle famiglie e alle società non finanziarie risulta, a febbraio 2024, ancora in contrazione del 2,7%. Secondo dati rilevati da Crif per il 2023 la domanda di mutui delle famiglie si è ridotta del 17,2% rispetto al 2022 mentre a settembre dello stesso anno i nuovi mutui erogati segnavano il -24% (-5,2% le surroghe)”. Interessante notare “come il 38,8% dei mutui richiesti sia di durata tra i 25/30 anni e che l’età dei richiedenti sia attestata tra i 45 ed i 75 anni per più di un terzo (35,4%) mentre i più giovani ne rappresentino meno del 30%”.

Qualità del credito e sofferenze

Nel primo mese del 2024 risultano in aumento le sofferenze bancarie al netto delle svalutazioni, come rilevato da Abi. L’incremento, pari a 2,2 miliardi di euro (+14,2% rispetto a dicembre 2023) è certamente collegato alle crescenti difficoltà del comparto piccole imprese nel far fronte al costo del credito. “Tuttavia, in termini assoluti, siamo ancora molto lontani – spiega la nota della Fisac Cgil – rispetto al picco di 88,8 miliardi di euro di sofferenze nette raggiunto dal sistema bancario italiano nell’ultimo trimestre 2015”.

Considerazioni

“Viviamo un momento di grandi contraddizioni – osserva la segretaria generale della Fisac Cgil, Susy Esposito -. Alti tassi di interesse fanno aumentare il rischio di un ‘hard landing’, di un atterraggio critico, che presuppone recessione, perdita di posti di lavoro e impoverimento delle famiglie. Eppure queste conseguenze non si sono determinate: siamo in una dimensione di ‘soft landing’ dove però aumentano diseguaglianze e povertà e dove la ricchezza è sempre più polarizzata”.

Il nostro Paese, spiega Esposito, “è completamente immerso in queste contraddizioni, acuite dalle storiche carenze strutturali. Dopo alcuni ed eccezionali anni di crescita, frutto di politiche post pandemia, siamo tornati a valori poco superiori allo zero mentre viene consegnata agli effetti del Pnrr (e dei suoi ritardi ed incognite) una qualche risposta. Le politiche del Governo, che celebra apparenti tassi di occupazione e reddito più elevati, mentre la disoccupazione giovanile continua ad essere la seconda più elevata d’Europa e la precarietà imperversa, ignorano i bisogni della maggioranza di lavoratrici, *lavoratori e *pensionate/i, favorendo viceversa, attraverso il fisco, le fasce più benestanti della popolazione.

Adesso Basta: l’11 aprile sarà sciopero generale, conclude Esposito.

 

Scarica la nota congiunturale a cura dell’Ufficio Studi & Ricerche della Fisac Cgil