BCC Abruzzo e Molise: premio di risultato 2018

Il 26 settembre 2018, presso la Federazione Abruzzo e Molise Bcc, è stato sottoscritto l’Accordo che consentirà il pagamento del PDR relativo al bilancio 2017.
La liquidazione del PdR avverrà con la busta paga del mese di ottobre al personale in servizio nel mese di erogazione e che abbia prestato attività lavorativa nel corso dell’anno di misurazione 2017.

Nel caso di inizio del rapporto di lavoro durante l’anno di misurazione il Premio di Risultato verrà erogato in proporzione ai mesi di servizio prestati, considerando come mese intero l’eventuale frazione superiore ai 15 giorni.

Quest’anno la tassazione Irpef del Premio usufruirà dell’agevolazione al 10% fino al limite reddituale di euro 80.000 e per una soglia di premio massimo pari ad euro 3.000.
L’importo definito a titolo di Premio di risultato 2018 sarà maggiorato del 5%, a carico dell’Azienda, per i dipendenti che opteranno, come sopra, per le prestazioni di Welfare riportate in seguito.

Per quanto riguarda la formula di calcolo è stata adottata la stessa dell’anno scorso.

E’ stata confermata la possibilità di optare, in luogo dell’erogazione in busta paga, in tutto o in parte, comunque su basi volontarie, al rimborso di prestazioni sostenute a titolo di welfare.

A titolo indicativo le prestazioni assoggettabili a rimborso riguardano:

  • rette, tasse, iscrizioni asili/scuole/università comprese le mense scolastiche;
  • campus estivi e invernali;
  • testi scolastici/universitari;
  • assistenza anziani o non autosufficienti
  • Contributo al Fondo Pensione.

Chi fosse interessato ad usufruire del PdR in modalità “welfare” dovrà inserirlo in Procedura Zucchetti entro la data che verrà comunicata in seguito dalla Federazione.

 

Le Segreterie Regionali
FABI                    FIRST/CISL                    FISAC/CGIL

 

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ABI e BCC: indennità annuali. Provvidenze per motivi di studio

Come ogni anno, in coincidenza con la riapertura delle scuole, è il momento di inoltrare la richiesta relativa alle somme spettanti ai lavoratori per ciascun figlio o equiparato fiscalmente a carico che frequenti la scuola media inferiore o superiore o l’università. L’indennità spetta anche ai lavoratori studenti.

Ricordiamo che l’accredito delle provvidenze non avviene in automatico, quindi è necessario che ogni lavoratore presenti la domanda.

Le indennità sono previste dai CCNL ABI e Federcasse con modalità e importi leggermente diverse; per questo invitiamo i lavoratori a rileggere i post che riguardano la loro casistica.

https://www.fisaccgilaq.it/banche/abi-indennita-annuali-provvidenze-per-motivi-di-studio.html

https://www.fisaccgilaq.it/bcc/bcc-indennita-annuali-provvidenze-per-motivi-di-studio.html

 




Gli assegni diventano digitali: ecco cos’è cambiato

​L’assegno digitale sostituisce l’assegno originale cartaceo ed ha piena validità ad ogni effetto di legge, riducendo i rischi operativi legati al suo scambio materiale e lavorazione manuale.
La CIT (Check Image Truncation) non incide sulle modalità di utilizzo e versamento degli assegni da parte dei clienti: l’emissione e la circolazione degli assegni rimangono infatti in forma cartacea, e il versamento avviene presso gli sportelli delle agenzie o presso gli ATM multifunzione come previsto da ciascuna banca.
Dal 9 luglio 2018 la CIT è l’unica procedura utilizzabile dalle banche per il pagamento degli assegni.
Le 4 cose da sapere e a cui fare attenzione
  1. Quando si emette l’assegno o quando lo si riceve, è importante verificare che esso sia completo di tutti gli elementi obbligatori:
    1. luogo e data di emissione;
    2. importo in lettere e in cifre;
    3. nome del beneficiario;
    4. firma del correntista che emette l’assegno bancario (cosiddetta firma di traenza) o della banca che emette l’assegno circolare.
    Gli assegni privi di uno di questi requisiti non sono regolari, non possono essere incassati con la nuova procedura CIT e devono essere nuovamente emessi.
    Da non dimenticare, inoltre, che sugli assegni di importo pari o superiore a 1.000 euro deve essere presente la clausola “non trasferibile”, solitamente già presente sui moduli di assegni rilasciati dalla banca o da apporre a mano, a cura del correntista, qualora non presente su moduli di assegni “vecchi” e non ancora utilizzati, per non incorrere in sanzioni.
  2. Per facilitare il processo di digitalizzazione dell’assegno e il suo incasso, è opportuno:
    – compilare l’assegno con una scrittura quanto più possibile chiara e comprensibile;
    – apporre le firme di traenza e di girata, gli eventuali timbri e le altre informazioni rilevanti negli spazi appositi, evitando che i vari dati si sovrappongano e diventino difficilmente leggibili;
    – custodire con cura l’assegno, evitando che si danneggi o si consumi.Qualora non sia possibile per la banca creare una immagine digitale valida, l’assegno è sottoposto ad un processo di lavorazione più lungo, di cui il cliente viene informato tempestivamente dalla propria banca.
  3. Se un assegno non viene pagato, la banca non restituisce al cliente l’assegno cartaceo originario (privo di valenza giuridica e che può essere distrutto una volta che la banca ha generato l’immagine digitale), bensì una copia cartacea conforme al documento elettronico con le informazioni relative al mancato pagamento. Le banche rilasciano una sola copia cartacea conforme che può essere utilizzata dal cliente al posto dell’originale cartaceo.
  4. È sempre bene diffidare di chi chiede di inviare la fotografia di un assegno per completare un acquisto, magari a distanza o sul web. Gli assegni continuano a circolare in modalità cartacea e sono le banche a creare le immagini digitali. Spesso la richiesta di foto di assegni nasconde tentativi di truffa.

Fonte: www.abi.it




Esiste un “rischio Grecia” per l’Italia?

Domenica 26 agosto il “Fatto Quotidiano” ha pubblicato il grafico che riportiamo. Un grafico che deve preoccuparci e non poco.

Ad essere rappresentata è la relazione tra il rating dei paesi dell’Area Euro ed il tasso che gli stessi pagano sui titoli di stato a 10 anni.

Prima di addentrarci nell’esame del grafico, facciamo un po’ di chiarezza sui concetti di rating e di spread, a beneficio di chi ha meno esperienza in materia di temi economici.

 

IL RATING

Possiamo considerare il rating come l’equivalente di un voto scolastico, espresso in lettere anziché in numeri. Ad assegnare questi voti procedono delle agenzie specializzate come Moody’s, Standard & Poors, Fitch ecc…

Cosa misura il rating? E’ una valutazione che sintetizza la capacità di uno Stato di ripagare i suoi debiti. Più viene ritenuto affidabile lo Sato, migliore sarà il “voto”.

Come si leggono questi “voti”? Facciamo riferimento alla classificazione utilizzata da Standard & Poors e Fitch: quella di Moody’s è leggermente differente.
La valutazione migliore possibile è AAA: in Europa la sola Germania viene ritenuta meritevole della tripla A, tanto da essere presa come punto di riferimento. A scendere c’è AA (Francia e Regno Unito), poi la A (Irlanda). Si passa poi a BBB, scendendo a BB e così via fino ad arrivare alla valutazione D, che indica le nazioni ormai in stato d’insolvenza che non ripagheranno i loro debiti (non a caso la D è anche l’iniziale di default).

Il rating attualmente attribuito all’Italia è BBB: come vedremo rappresenta un valore soglia.

 

L’ANDAMENTO DEI TASSI E LO SPREAD

Immaginate di avere due amici che vi chiedono un piccolo prestito.
Il primo ha un buon lavoro, uno stipendio fisso ed è molto oculato nel mettere soldi da parte. Ha bisogno di sostenere una spesa imprevista alla quale non può al momento far fronte avendo vincolato i suoi risparmi.
Il secondo lavora in modo saltuario, ma appena guadagna qualcosa lo spende subito. Ha bisogno di soldi perché non riesce a pagare le bollette.

Vi sentireste più tranquilli a prestare soldi al primo amico o al secondo? La risposta appare fin troppo facile.
Cosa può fare il secondo amico, quello meno affidabile, per convincervi? Magari, oltre a promettere che metterà la testa a posto, potrebbe offrirvi qualcosa per ripagarvi del prestito. Potrebbe ad esempio promettere di regalarvi quell’oggetto da collezione che ha in casa, sul quale da tempo avete messo gli occhi.
La situazione cambia; potreste anche decidere che valga la pena di correre il rischio di non vedersi restituire i soldi, a questo punto ripagato dalla prospettiva dal “premio” che l’amico ci sta promettendo.

Il mondo della finanza funziona in modo non molto diverso.
Gli Stati emettono titoli del debito pubblico per finanziarsi, pagando ovviamente degli interessi agli investitori.
Se l’emittente si chiama Germania, con affidabilità quasi assoluta, il tasso d’interesse sarà molto basso dal momento che i titoli saranno sicuramente sottoscritti. Se invece l’emittente è un altro Stato, con affidabilità inferiore a quella tedesca, per convincere gl’investitori a sopportare il maggior rischio dovrà “premiarli” pagando loro un tasso più alto.
Normalmente peggiore sarà il rating (cioè “il voto” all’affidabilità dell’emittente), più alto sarà il tasso da pagare agli investitori.
La differenza di tasso che una nazione paga rispetto alla Germania è il cosidetto spread, e rappresenta il “premio” per ripagare il maggior rischio rispetto al Paese più affidabile.

Come fa ad aumentare o diminuire lo spread?
Si è parlato spesso di complotti, di poteri forti, di oscure manovre… la verità è molto più semplice.
In estrema sintesi: chi investe in titoli di stato lo fa con lo scopo di guadagnare, o al limite di minimizzare le perdite se le cose vanno male. Questo vale per il piccolo investitore, e vale a maggior ragione per gli Investitori Istituzionali
Se un grande investitore ha acquistato titoli di uno Stato che, per un motivo o per un altro, smette di ispirargli fiducia, cercherà di sbarazzarsene appena possibile. Anzi, cercherà di farlo prima degli altri.
Quando si diffonde il sentore che le condizioni economiche di uno Stato possano peggiorare, parte un’ondata di vendite sui titoli di quello Stato. Ovviamente, se ci sono tanti venditori avranno un solo modo per liberarsi di quello che ritengono un prodotto avariato: ridurre il prezzo.
Perché qualcuno dovrebbe acquistare questi titoli?
Perché acquistandoli con lo “sconto”, nel caso in cui l’operazione andasse a buon fine e si concludesse con il regolare rimborso, avrebbe ottenuto un buon guadagno, tale da giustificare il maggior rischio.
Ecco come il rendimento di quei titoli cresce, costringendo l’emittente ad adeguarsi ed alzare i tassi delle successive emissioni per non ritrovarsi a vendere titoli che nessuno vuole.

Possiamo quindi passare ad esaminare il grafico pubblicato riportato all’inizio.
L’asse X riporta le classi di rating. L’asse Y il tasso sui titoli di stato pagato dai Paesi dell’Eurozona.
Viene tracciata una linea mediana tra i vari tassi che dimostra che, come sarebbe lecito aspettarsi, ciò che paga ogni singolo Stato è sostanzialmente coerente con la sua classe di rating.
Un solo valore risulta totalmente fuori scala: quello dell’Italia.

In sintesi: o stiamo pagando un tasso troppo alto, o abbiamo un rating troppo generoso.
Perché sta succedendo questo?

Nei soli mesi di maggio e giugno la quantità di titoli di Stato italiano in mano ad investitori stranieri è diminuita di 72 miliardi; nel corso dell’estate l’ondata di vendite si è rafforzata.
Evidentemente i mercati hanno la sensazione che le prospettive per il nostro Paese siano decisamente fosche. Questo non dipende dall’andamento attuale della nostra economia (il PIL 2018 sarà comunque in crescita) quanto dalle incertezze legate ai programmi ed alle divisioni del nuovo Governo.
I mercati ritengono possibile il “rischio Grecia” per l’Italia.

 

COSA POTREBBE SUCCEDERE?

L’anomalo disallineamento tra tassi pagati e rating dell’Italia è ovviamente sotto la lente d’ingrandimento delle Agenzie di rating. Tutte stanno aspettando l’autunno e la legge di bilancio per vedere quali provvedimenti saranno adottati dal Governo.
Se la manovra si rivelerà convincente, lo spread scenderà e l’attuale rating sarà confermato; in caso contrario ci aspetta un declassamento che, come vedremo, può avere conseguenze disastrose.
Intanto, in attesa delle mosse del Governo, quasi tutte le Agenzie ci hanno assegnato un outlook (cioè la previsione a medio-lungo termine) negativo.
In sintesi: siamo valutati BBB con tendenza al peggioramento.

Perché sarebbe tanto devastante un declassamento del nostro rating?
Come detto, il valore BBB rappresenta una soglia minima per considerare un titolo meritevole di essere acquistato.
Se la valutazione dell’emittente scende a BB, tutte le sue emissioni diventano junk bonds (titoli spazzatura),  cioè titoli ad alto rendimento ma con forti rischi per l’investitore.

Non possono detenere junk bonds i fondi pensione o i fondi d’investimento a basso rischio, quindi un’eventuale declassamento a BB dei titoli di stato Italiani comporterebbe l’immediata vendita di un’enorme quantitativo degli stessi, con conseguente forte aumento dei tassi d’interesse.
Non dimentichiamoci che gli interessi che lo Stato paga sono comunque soldi da tirare fuori: soldi da reperire con maggiori tasse, o tagliando i servizi ai cittadini.

Ma non sarebbe questa la conseguenza peggiore.

 

Come si finanziano le banche?

Per prestare soldi alle aziende o alle famiglie che ne fanno richiesta, le banche attingono prima di tutto alle somme depositate dai clienti, rispettando una serie di limiti che la normativa impone loro. Ma questo non basta.
Per avere ulteriore liquidità si rivolgono allora alla BCE, che fornisce le somma richieste chiedendo che le anticipazioni vengano garantite da titoli di stato.

E qui sta il vero guaio: la BCE non può accettare come garanzia titoli con rating BB o inferiore.
Per farla breve: se il rating dei nostri titoli di Stato scendesse a livello di junk bond, le banche italiane sarebbero nell’impossibilità di finanziarsi. A quel punto dovrebbero tagliare improvvisamente le linee di credito alle imprese, con effetti terribili sull’economia del Paese, o dovrebbe finanziarsi chiedendo soldi alla linea di emergenza della BCE (Emergency Liquidity Assistance).
Fare cioè quello che è stata costretta a fare la Grecia.

Sappiamo cos’è successo in quel Paese: in cambio dei finanziamenti concessi agli Ellenici, la BCE ha imposto sacrifici durissimi per essere sicura che i prestiti fossero restituiti.
In otto anni ci sono stati tagli drastici all’occupazione, stipendi decurtati in modo drammatico, pensioni ridotte anche al disotto della soglia di sussistenza.

Come si scongiura tutto questo?
Presentando una legge di bilancio seria e ben fatta, che convinca l’Unione Europea e soprattutto i mercati sull’affidabilità del nostro Governo. In quel caso invece di peggiorare il rating sarebbe lo spread a tornare su livelli più bassi.

Questo è lo scenario. A questo punto dobbiamo porci qualche domanda.

Possiamo davvero pensare ad una manovra finanziaria che contenga da un lato una serie di aumenti di spesa (revisione legge Fornero, reddito di cittadinanza) e dall’altra una riduzione delle entrate (flat tax, sterilizzazione dell’aumento IVA)?
Possiamo permetterci una manovra in linea con le premesse elettorali di chi è attualmente al governo?

Tra tanti dubbi, c’è una sola certezza: volendo scegliere un momento per sfidare l’Europa, minacciando di non versare più le quote di nostra competenza o preannunciando lo sforamento dei limiti di deficit previsti dagli accordi vigenti, non se ne poteva scegliere uno più sbagliato di questo.

 

 

 

 

 

 




BCC: attuazione della riforma e rinnovo del CCNL

Il futuro del Credito Cooperativo e della sua biodiversità

Sono trascorsi circa quattro anni dal primo tentativo del legislatore di riformare il Credito Cooperativo e dall’ultimo sciopero della categoria per rivendicare il rinnovo dei patti di lavoro.

Nel gennaio del 2015 il Governo, con un decreto legislativo, tracciava le linee programmatiche dell’intervento di riforma del TUB per il Credito Cooperativo che poi si sarebbe trasformato nel percorso di “autoriforma” completatosi con la Legge 8 aprile 2016 n. 49.

Nel marzo del 2015 le lavoratrici ed i lavoratori incrociavano le braccia in quello che era lo sciopero della consapevolezza: riappropriarsi di Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (dai quali Federcasse in maniera unilaterale aveva dato il recesso) e salvaguardare la specificità della cooperazione di credito ed il valore della democrazia economica.

Oggi, nonostante le dichiarazioni datoriali di soddisfazione per gli esiti della riforma del 2016, e nonostante le nostre continue sollecitazioni, constatiamo che nulla sembrerebbe essere cambiato:
riforma e contratto restano al palo!

L’incapacità, nei fatti, di fare sintesi tra le diverse componenti di questo sistema, unita al perseguimento, poco lungimirante, di evocate “autonomie” ha determinato una riforma arrivata tardi, disegnata da altri, che ancora oggi non si concretizza e resta in balia dei diversi governi che si succedono e delle diverse sollecitazioni che ad essi pervengono.
E’ auspicabile rivedere alcuni aspetti riguardanti ad esempio le regole del patto di coesione, il ruolo della parte associativa, così come i criteri di progressività e proporzionalità della valutazione del rischio in ciascuna BCC per affermare un modello bancario vicino al territorio e aderente alle sue esigenze, sarebbe invece dannoso, a questo punto, allungare eccessivamente i tempi di avvio della riforma.

Come FISAC CGIL abbiamo cercato di affrontare con grande senso di responsabilità il travagliato periodo di definizione della riforma e l’applicazione della nuova normativa europea (BAIL IN) in materia di fallimenti delle banche, comprese le BCC, incalzando continuamente Federcasse per un rinnovo necessario e non più rinviabile dei patti di lavoro e di adeguamento delle norme dell’ammortizzatore di settore.

In ciascuna azienda ed in ogni territorio, dove si sono verificate situazioni di crisi la FISAC CGIL ha sempre ricercato, coerentemente e senza speculazioni, le soluzioni previste dalla contrattazione nazionale e dalla legge, a difesa dell’occupazione e del reddito, evitando processi di mobilità territoriali e soprattutto difendendo la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del Credito Cooperativo.

Ancora oggi le criticità in molte aziende del Credito Cooperativo sono ben lontane dall’essere risolte ed il rinvio dell’attuazione della riforma rischia di aggravarle e di ritardarne la soluzione.

Avevamo proposto con forza, e siamo ancora convinti della sua utilità, l’apertura di un tavolo permanente di confronto fra le parti sociali che avesse come tema sia il percorso di riforma, che il rinnovo dei CCNL e la revisione del regolamento del Fondo di settore.
Invece la mancata informativa dei piani industriali da parte, prima di Federcasse e poi delle capogruppo, le ingiustificate dichiarazioni di fantasiosi numeri di esubero di lavoratori nella categoria, i tentativi di smantellare i contratti collettivi di categoria ed i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, hanno reso impossibile qualsiasi confronto utile al rinnovo dei contratti ed alla gestione condivisa ed omogenea delle criticità.

Rivendichiamo con forza quello che abbiamo sempre affermato:

“La riforma si fa con le lavoratrici ed i lavoratori del Credito Cooperativo NON contro di loro”

Riforma e Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, rilancio di relazioni industriali improntate alla partecipazione, alla responsabilità ed al fattivo confronto sono dunque oggi una priorità inderogabile.
E’ ora il momento di abbandonare qualsivoglia strumentalizzazione per affrontare finalmente:

  • la salvaguardia occupazionale;
  • la valorizzazione del lavoro, del reddito e dello sviluppo delle professionalità;
  • lo sviluppo del sistema Credito Cooperativo;
  • la salvaguardia di un modello di democrazia economica.

Ci aspettiamo che Federcasse riapra al più presto il confronto per il rinnovo dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, insieme alla rivisitazione dell’ammortizzatore sociale di settore (Fondo di Sostegno al Reddito) che va reso rispondente alle esigenze della categoria, efficace ed effettivo, abbandonando qualsivoglia tentativo di trovare soluzioni originali che gravino sui lavoratori. Come pure è indispensabile affrontare e risolvere le ripercussioni che la riforma potrebbe implicare in tema di previdenza ed assistenza sanitaria integrative a carattere di solidarietà nazionale.

Non permetteremo che il mancato rinnovo dei CCNL fornisca alibi a chiunque. Ribadiamo che la contrattazione collettiva di categoria ha contribuito a tenere insieme fino ad oggi questo variegato ed originale sistema creditizio che, con tutti i suoi limiti, ha svolto e svolge ancora un ruolo importante a supporto dell’economia reale del nostro paese, con l’apporto indispensabile delle lavoratrici e dei lavoratori del Credito Cooperativo.

Se sarà necessario, insieme alle altre organizzazioni sindacali, valuteremo opportune iniziative di mobilitazione.

Roma luglio 2018

Il Coordinamento Nazionale FISAC CGIL Credito Cooperativo
Michele CERVONE – Fabrizio PETROLINI

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BCC, sulla riforma solo ritocchi

La riforma delle banche di credito cooperativo non sarà sospesa: subirà solo alcuni “ritocchi”, dando più tempo agli istituti per aderire ai gruppi bancari. Lo ha spiegato ieri in Senato, il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Una decisione non in linea con Lega e M5S, che chiedevano di fermare l’iter con una moratoria ad ampio raggio. “Significa eliminare la riforma, ma non sembra che questa richiesta provenga dalla maggioranza del credito cooperativo”, ha tagliato corto il ministro, che punta a evitare interventi drastici per far poi pesare a Bruxelles il suo no al pacchetto sull’unione bancaria.

Nel 2016 il governo Renzi ha approvato la riforma che impone alle 300 e dispari Bcc di aderire a una capogruppo. Il testo è stato scritto da Bankitalia pensando che tutte le banche avrebbero aderito a Iccrea holding, braccio operativo della Federcasse, storico feudo romano che ha dettato legge nel sistema cooperativo. Molte Bcc, le più sane, hanno invece aderito alla trentina Cassa Centrale Banca, mentre quelle altoatesine hanno creato, grazie a un’apposita deroga (tornata utile per candidare Maria Elena Boschi a Bolzano) al gruppo provinciale Raiffeisen. Il guaio è che finiranno sotto la vigilanza della Banca centrale europea, le cui rigide regole sulla valutazione della clientela renderebbero complicata la vita a molti istituti. Per questo Lega e M5S hanno chiesto una moratoria, trovando favorevoli soprattutto le Bcc altoatesine (che rischiano anche loro di finire sotto la vigilanza della Bce).

Secondo Tria non si può più tornare indietro. Anche perché Francoforte e Bankitalia, per mettere pressione al governo hanno accolto nei giorni scorsi la candidatura delle tre capogruppo. Probabile invece che venga solo allungato – via decreto – il tempo a disposizione degli istituti per aderire ai gruppi. Nel mentre sarebbero possibili, secondo il ministro, almeno due modifiche: la prima è rivedere la soglia di capitale delle capogruppo in mano alle Bcc aderenti, fissato al 51% da Bankitalia, alzandolo al 60-70%, cifra inizialmente prevista ma fermata da Via Nazionale, preoccupata di rendere appetibili i gruppi agli investitori esteri; la seconda è alleggerire per le sole Bcc i nuovi requisiti professionali per gli amministratori delle banche previsti dalla direttiva Ue Crd IV, che però l’Italia non ha mai applicato visto che il Tesoro tiene chiuso nel cassetto il decreto attuativo da oltre due anni.

Nelle scorse settimane, Bankitalia ha ammesso che la vigilanza della Bce sarebbe un problema non da poco. Da mesi il sistema del credito cooperativo è scosso da tensioni interne: chi ha voluto la riforma oggi tentenna e viceversa. Il problema più urgente, però, è che diverse Bcc se la passano male. Secondo una mozione della Lega un terzo sono “ad alto rischio” e un quarto “mediamente a rischio”. Anche i sassi sanno che la spinta di Bankitalia alla riforma, più che da un progetto sistemico, nasce dalle tante situazioni di crisi lasciate incancrenire a lungo.

Secondo i dati di Via Nazionale, a dicembre 2017 il credito cooperativo vantava 22,6 miliardi di crediti deteriorati su 131 totali erogati alla clientela, il 17,2%, sopra la media del sistema bancario scesa al 14,1%, anche se i numeri sono in miglioramento. Il numero di Bcc si è notevolmente ridotto dalle quasi 400 di qualche anno fa. Si stima che entro un anno scenderà a poco più di 200. Solo Cassa Centrale Banca, per dire, dalle iniziali 115 Bcc aderenti è scesa a 95 e calerà entro l’anno a 90 per effetto delle fusioni messe in atto per salvare quelle in difficoltà. Iccrea affronta una situazione anche più complessa. Secondo i dati comunicati in un incontro di ottobre con Bankitalia e Bce, a giugno 2017 le circa 160 Bcc aderenti al suo gruppo avevano nel complesso 18 miliardi di crediti deteriorati, il 19,8% del totale, coperti con accantonamenti più bassi rispetto alla media del sistema cooperativo. I giudizi ispettivi di Bankitalia sul 2016 e il primo quadrimestre 2017 si sono chiusi nel 43,9% dei casi mettendo la banca nell’“Area di attenzione” (rischiano di essere commissariate dalla capogruppo) e nel 10% con esito “sfavorevole”, condizione che di norma porta alla richiesta di fondersi con un istituto più solido.

 

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 18/7/2018

 

leggi anche:

https://www.fisaccgilaq.it/bcc/credito-cooperativo-pronti-ad-attuare-la-riforma.html

 

https://www.fisaccgilaq.it/bcc/bcc-la-riforma-deve-fermarsi-governo-pronto-al-decreto.html

 




Credito Cooperativo: pronti ad attuare la riforma

Di seguito riportiamo il comunicato stampa congiunto di Confcooperative, Federcasse ed i tre costituendi Gruppi Bancari Cooperativi.

Confcooperative, Federcasse e i tre Gruppi Bancari Cooperativi disponibili al dialogo con Parlamento e Governo.

(US 25.6.2018) Le BCC, le Casse Rurali e le Raiffeisenkassen affondano le proprie radici nella storia economica e sociale italiana distinguendosi per la propria natura mutualistica.

E’ un movimento che conta oggi 1 milione e trecentomila soci, con oltre 270 Banche locali radicate nei territori dei quali sono espressione, con quote di mercato rilevanti nel finanziamento dell’economia reale, delle famiglie e delle imprese.
Sono banche autonome ma legate da tempo da un sistema associativo e di servizi sussidiari, da sistemi bancari ed industriali e dai fondi di garanzia che operano in una logica solidaristica.
Supporto indispensabile per le economie locali, hanno basato il proprio inimitabile modello di impresa sui valori fondanti della mutualità, della centralità delle persone e delle proprie comunità.

I valori restano nel tempo. I modelli organizzativi e le persone passano, cambiano e si evolvono.

La salvaguardia ed il rafforzamento di un modello di “fare banca”, che caratterizza il credito cooperativo, realmente vicino alla gente, alle famiglie ed alle imprese, è condizionata dalla capacità di raccogliere e vincere le sfide di un mercato sempre più complesso e competitivo.
L’evoluzione dell’industria bancaria, la normativa, la tecnologia incidono, vincolano, stravolgono i modelli industriali ed organizzativi e la capacità di interpretare la mutualità con efficacia e con efficienza, generando quella redditività indispensabile per garantire ulteriore solidità e le necessarie risorse per investire nel futuro.

La tecnologia ed il susseguirsi incalzante di strumenti sempre più sofisticati modificano le abitudini delle persone e fanno nascere nuovi comportamenti, diverse ed intermediate modalità di relazione che aprono le porte a competitors “alternativi” che vogliono occupare spazi di mercato fino ad oggi prerogativa delle banche.

Non c’è e non ci potrà essere una buona Banca di Credito Cooperativo, una buona Cassa Rurale, una buona Raiffeisenkasse se non sarà una banca coerente e competitiva. Questo è il tema al centro di tutto.
La Riforma del Credito Cooperativo, avviata dalle Autorità all’inizio del 2015, è divenuta legge nella primavera 2016. L’interlocuzione e il coinvolgimento del credito cooperativo sono stati talmente intensi che si è arrivati a definirla “Autoriforma”. Questa infatti recepisce pressoché integralmente le richieste della Categoria ed è stata oggetto di generale approvazione in occasione del XV Congresso Nazionale del Credito Cooperativo tenutosi nell’estate 2016.
La Riforma del 2016 conferma tutti i connotati delle BCC, Casse Rurali, Raiffeisenkassen: intermediari caratterizzati da finalità mutualistica, localismo, democraticità di funzionamento, esclusione di speculazione privata.
Sono i cardini della cooperazione costituzionalmente riconosciuta (art. 45).

Al fine di ovviare ai vincoli normativi e operativi tipici delle imprese cooperative, la riforma impone alle banche a mutualità prevalente l’appartenenza a gruppi bancari cooperativi. Ciò consentirà di dare forza adeguata alla necessaria riorganizzazione e modernizzazione per superare le inefficienze di un elevato frazionamento del sistema e – pur mantenendo il controllo nelle mani delle BCC, garantito dall’art. 37-bis del TUB – di accedere al mercato dei capitali per ragioni sia di opportunità strategica sia di necessità. Obiettivi che gli IPS non permetterebbero di raggiungere.
La nascita dei tre Gruppi Bancari Cooperativi – Iccrea Banca, Cassa Centrale Banca, Cassa Centrale Raiffeisen – segna l’inizio di una nuova fase della storia che il Credito Cooperativo italiano vuole inaugurare.
Una visione e una progettualità innovative che stanno nascendo dopo anni di percorso faticoso ed impegnativo, di investimenti ingenti, di un lavoro riorganizzativo a tutto campo in continuo contatto e confronto con la Vigilanza italiana ed europea.

Tutte le componenti del Movimento hanno dato il loro fondamentale contributo: le Banche locali, le Federazioni e Federcasse, Confcooperative e le Società di sistema. I soci di tutte le Banche di Credito Cooperativo hanno deliberato l’adesione ai gruppi in occasione delle
assemblee che si sono tenute tra aprile e maggio 2017.

I tre Gruppi bancari hanno già presentato istanza formale alla Vigilanza e sono oggi pronti a partire.
Nasce così il modello del Gruppo Bancario Cooperativo, un modello tutto nuovo nel panorama nazionale. Un Gruppo Bancario in cui è forte la tensione finalizzata ad ottimizzare il rapporto fra Capogruppo e le banche affiliate che, da una parte ne rimarranno le proprietarie e, dall’altra, accetteranno di sottoscrivere un contratto che definisce le regole che una buona banca, in una logica di sana e prudente gestione, dovrà rispettare.

Ciascuna delle tre Capogruppo avrà un ruolo di coordinamento e d’indirizzo, ma avrà doveri forti e responsabilità precise.

Dovrà riconoscere e salvaguardare le finalità mutualistiche delle BCC, Casse Rurali e Raiffeisenkassen, accrescendo la loro capacità di sviluppare lo scambio mutualistico con i soci e lo sviluppo delle comunità. Dovrà garantire prodotti, servizi, investimenti e tecnologia all’avanguardia. Dovrà vigilare sulla qualità della gestione e spingere sulla capacità competitiva, sullo sviluppo delle banche locali e sulla loro reale attenzione ai territori ed alle proprie comunità. Dovrà assicurare qualità dando esempio concreto di trasparenza, competenza e spirito di servizio verso le banche affiliate. Dovrà garantire la corretta
applicazione del modello risk based che definisce in maniera oggettiva il livello di qualità complessiva della Banca di Credito Cooperativo e che è la base dell’applicazione del principio di proporzionalità interna ai Gruppi Cooperativi. Principio che tutela la buona banca locale, che non solo potrà ma dovrà continuare a esercitare a pieno titolo, anzi rafforzare, il ruolo
insostituibile di sostegno alle proprie economie di riferimento.
Il Gruppo Bancario Cooperativo sarà coerente e competitivo tanto quanto riuscirà a valorizzare la centralità delle BCC, Casse Rurali, Raiffeisenkassen che ne sono il vero motore e la ragione di esistere. Banche mutualistiche in cui lavorano uomini e donne orgogliosi e consapevoli dell’importanza della loro attività al servizio della propria gente.
Questo è lo spirito costituente del Gruppo Bancario Iccrea, del Gruppo Cassa Centrale Banca e del Gruppo Raiffeisen. Questo è lo spirito che caratterizza la sfida evolutiva del Credito Cooperativo in Italia e che dobbiamo cogliere e vincere nell’interesse di tante famiglie e imprese, di milioni di soci e clienti e di decine di migliaia di collaboratrici e collaboratori presenti su tutto il territorio nazionale.

Le riforme hanno bisogno di tante condizioni per avanzare e consolidarsi. Anche quella del Credito Cooperativo necessita, in tutte le sedi e da tutti gli interlocutori, di attenzione costruttiva, di sensibilità ed aiuto per poter partire e realizzarsi. In questa fase di delicata definizione degli strumenti normativi interni e degli assetti organizzativi è necessario che le Istituzioni e la Vigilanza, italiana ed europea, favoriscano con sensibilità l’attuazione di quanto
previsto dalla legge di riforma e dalle norme secondarie.

In particolare agevolando, con buon senso:
o la specificità territoriale e mutualistica delle BCC, ancorata all’economia reale;
o il principio di proporzionalità correlata alla rischiosità (risk based) delle singole BCC;
o la possibilità per le basi sociali delle Banche Locali “virtuose” di esprimere gli amministratori;
o un modello di vigilanza sui Gruppi Bancari Cooperativi e sulle BCC, individualmente
considerate, proporzionato e coerente con le peculiarità del credito cooperativo senza appesantirle di ulteriori oneri regolamentari ed amministrativi.
Confcooperative, Federcasse, Iccrea Banca, Cassa Centrale Banca, Cassa Centrale Raiffeisen nell’interesse delle BCC, Casse Rurali, Raiffeisenkassen chiedono che il Governo e il Parlamento confermino la linea salvaguardata e valorizzata dalla Riforma che tutela l’identità mutualistica, il ruolo e la capacità competitiva delle BCC, Casse Rurali e Raiffeisenkassen affinché queste possano continuare ad essere anche per il futuro protagoniste nel concorrere alla costruzione del “bene comune”.
Siamo pronti ed auspichiamo un confronto costruttivo con il Governo e il Parlamento italiano finalizzato a condividere tutti questi obiettivi.

Sarà un’occasione preziosa.

Allo stesso tempo ci auguriamo che il Governo italiano possa contribuire – nei confronti del Parlamento Europeo e della Commissione UE – a riequilibrare una produzione normativa e regolamentare in favore di una legislazione realmente proporzionale e adeguata rispetto a banche che hanno dimensioni, complessità e finalità imprenditoriali differenti. In particolare, sarà rilevante rivedere in un’ottica di coerenza le misure relative alle BCC contenute nella bozza di decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze sui requisiti degli esponenti e quanto contenuto nel decreto legislativo di recepimento della Mifid II in materia di trattamento delle azioni emesse dalle Banche di Credito Cooperativo.

È interesse di tutti, ed in particolare delle banche affiliate, dei soci, delle imprese e delle comunità territoriali, che la Riforma parta nei tempi attualmente previsti dalla normativa, con l’avvio dei Gruppi Bancari Cooperativi programmato al più tardi per il 1° gennaio 2019.

Siamo convinti che l’attuazione della Riforma è per il Credito Cooperativo italiano un passo decisivo verso il futuro. La grande maggioranza delle BCC, Casse Rurali, Raiffeisenkassen è pronta a raccogliere questa sfida al servizio e per lo sviluppo del nostro Paese.

 

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https://www.fisaccgilaq.it/bcc/bcc-la-riforma-deve-fermarsi-governo-pronto-al-decreto.html




Il welfare aziendale è una iattura

Riceviamo spesso dai lavoratori richieste di consigli in merito all’opportunità di destinare al welfare aziendale le somme derivanti dai premi di produttività.

A questa domanda risponde Alberto Perfumo con il volume “Il welfare aziendale è una iattura” (dal quale abbiamo tratto il titolo del post).
L’autore è responsabile di un’azienda che si occupa di consulenza in materia di welfare aziendale; tuttavia, invece di sostenere a spada tratta i vantaggi del welfare, riferisce correttamente anche dati e informazioni negative. Che la sua opinione sia controcorrente si comprende sin dall’introduzione, della quale riportiamo un estratto:

“Il welfare aziendale è una iattura”, mi ha detto un candidato durante un colloquio, riportando la frase di un amico impiegato presso una grande azienda. Ma come? Durante la selezione per una società che offre servizi e consulenza in ambito welfare aziendale e mentre in giro non si parla d’altro, un lavoratore dice che si tratta di “una iattura”?
In realtà, l’affermazione non mi ha sorpreso: da mesi rifletto sul boom del fenomeno welfare aziendale. Con i miei 16 anni di esperienza nel settore ho sentito la necessità di una riflessione seria sull’argomento. E mi piace pensare che questa riflessione possa essere utile ad altri.

Si è ormai affermata, da più parti, la convinzione che il welfare aziendale sia la soluzione ideale per tutti e che convenga ad aziende e dipendenti.
In realtà il welfare aziendale è ingannevole: vengono sbandierati vantaggi fiscali e contributivi, ma nel complesso la scelta è economicamente in perdita.

Nel settore privato le aziende premono affinché i lavoratori destinino al welfare i premi variabili di risultato anziché riceverli in busta paga. Apparentemente, per chi fa questa scelta ci sono vantaggi tangibili.
Incassare i premi direttamente in busta paga significa pagare il 9,19% di contributi previdenziali e il 10% d’imposta (comunque ridotta rispetto all’aliquota ordinaria Irpef che va dal 23% al 43%.)
Destinarli al welfare significa evitare ogni contributo o imposta. Ecco perché questa seconda opzione è apparentemente quella più conveniente.

C’è però un aspetto che può sfuggire al lavoratore. Versando il premio di produzione nel welfare, anche il datore di lavoro è esentato dal versare la sua quota di contributi previdenziali, pari all’incirca al 24% della retribuzione.

Ricapitolando: destinando i premi di risultato al Welfare il lavoratore si trova una maggiorazione immediata del 19% (subito vanificata nel caso la somma venga utilizzata per spese mediche o per altre spese potenzialmente detraibili, che a quel punto non possono essere detratte perdendo il beneficio fiscale che ammonta esattamente al 19%).
Così facendo però perde contributi INPS nella misura complessiva del 33%. 
Per invogliare i lavoratori a scegliere di utilizzare comunque il welfare, le aziende tendono ad offrire maggiorazioni a chi sceglie questa opzione, che possono arrivare al 10-15%: comunque inferiori al risparmio ottenuto dal mancato versamento dei contributi.

E’ bene ricordare che i contributi previdenziali non sono soldi persi: più contributi versati comportano una pensione più alta.
Perfumo cita uno studio secondo cui mille euro l’anno in welfare per 37 anni causano una decurtazione della pensione di 873 euro l’anno.

Quindi qual è la scelta migliore?

Se si riesce ad utilizzare il welfare per sostenere spese che non beneficerebbero di detrazione fiscale (es. acquisto di libri scolastici) ed in presenza di incentivi aziendali, la scelta tra welfare e incasso in busta paga è pressoché equivalente se il bonus per chi opta per il welfare arriva al 15%.

Ragionando con un’ottica di lungo periodo, e comunque in tutti i casi in cui le somme accantonate dovrebbero essere destinate a spese potenzialmente detraibili, appare preferibile incassare il premio in busta paga.
Al momento della scelta va tenuto conto anche del fatto che i soldi destinati a welfare non si recuperano subito, e può non essere semplicissimo utilizzarli tutti.

 

In passato avevamo sviluppato l’analisi dell’argomento welfare giungendo alle medesime conclusioni. Anche se riferito in parte ad uno specifico Istituto Bancario, invitiamo tutti coloro che volessero approfondire la questione a rileggere il post .

https://www.fisaccgilaq.it/banche/bper-welfare-aziendale-2017.html




Bcc, la riforma deve fermarsi. Governo pronto al decreto

Il governo punta a congelare la riforma delle banche di credito cooperativo (Bcc). Il ministro dell’Economia Giovanni Tria dovrebbe annunciare, forse già in settimana, una moratoria per l’applicazione della riforma renziana che, per quegli strani giri di potere delle riforme dettate d’urgenza, oggi non ha più padri. Chi l’ha voluta, la Banca d’Italia, frena; chi l’ha approvata, il Pd a trazione renziana, tace ma nei territori tifa per lo stop. L’obiettivo del governo è però più pragmatico: sottrarre i nuovi gruppi alla vigilanza della Bce. Andiamo con ordine.

A febbraio 2016 il governo Renzi ordina per decreto alle oltre 360 Bcc di aderire a una capogruppo visto che, denuncia Bankitalia, il credito cooperativo è afflitto da degenerazioni clientelari. Renzi acconsente, ma ritaglia una controversa deroga per chi non vuole confluire nel cappello unico (di cui approfitterà la Bcc di Cambiano cara a lui e Luca Lotti) e una pure per le Casse Raiffeisen in Trentino Alto Adige consentendo loro di farsi un gruppo provinciale (la cosa è piaciuta alla Südtiroler Volkspartei ed è tornata utile per candidare Boschi a Bolzano).

Il testo viene scritto a Via Nazionale pensando che tutte le Bcc si sarebbero fuse dentro Iccrea Holding, braccio operativo della Federcasse, storico feudo romano-democristiano che per anni ha tessuto indisturbata le degenerazioni che ora Bankitalia scopre. A sorpresa la Cassa Centrale Banca di Trento, punto di riferimento delle Raiffeisenkasse, si è candidata a fare un secondo gruppo, alternativo al colosso nazionale. Le Bcc più sane, temendo di finire stritolate nella spartizione romana, hanno scelto la secessione trentina. Oggi cira 160 Bcc sono con Iccrea; 90 con Ccb. Problema: viste le dimensioni, i due gruppi finiranno sotto la vigilanza della Banca centrale europea.

La cosa è a questo punto: ad aprile le due capogruppo hanno presentato la candidatura a Bankitalia e Bce, che hanno 120 giorni per decidere. In teoria c’è tempo fino a settembre, ma la vigilanza di Francoforte sembra voler accelerare. Il premier Giuseppe Conte si è detto favorevole a una revisione e la Lega ha presentato una mozione per chiedere la moratoria. A sorpresa, nei giorni scorsi il dg di Bankitalia, Salvatore Rossi, ha ammesso che il passaggio dei nuovi gruppi alla vigilanza di Francoforte sarebbe un problema: “È possibile che stia emergendo, in virtù dell’applicazione dei requisiti patrimoniali pensati per le banche ‘significant’, la circostanza che i costi della riforma così congegnata possano superare i benefici”. Ha corretto il tiro qualche giorno dopo: “Continuiamo a ritenere la riforma opportuna”.

La questione della vigilanza è in realtà più complessa dei requisiti patrimoniali. C’è il rischio che alle singole Bcc dei due gruppi (le bolzanine sono in teoria escluse) vengano applicate le rigide regole del Comprehensive Assessment, il meccanismo con cui la Bce verifica lo stato di salute delle grandi banche. Tra questi ci sono i sistemi di valutazione della clientela (rating) pensati per le grandi industrie, ma le Bcc finanziano prevalentemente artigiani, ditte individuali e micro-imprese: molte di loro, specie al Sud, sarebbero costrette ad abbandonare la clientela.

Per evitarlo il governo è di fronte a un bivio: tornare indietro o negoziare una deroga sistemica con la Bce (oggi riservata a singole banche). La prima strada è quella proposta da Lega e 5Stelle, che spingono per gli Ips (institutional protection schemes), sistemi di mutua protezione e garanzia tra banche associate usate dagli istituti locali tedeschi (Sparkassen e Volksbanken), che infatti sono fuori dalla vigilanza Bce. L’ipotesi Ips non è nuova ma per anni ha diviso il mondo delle Bcc. Oggi quelle più sane temono di dover pagare per quelle malandate (circa il 10% del totale, secondo Mediobanca). Per dare l’idea, il fondo di garanzia temporaneo previsto dalla riforma è stato bloccato dopo che era intervenuto per aiutare alcune banche da cui provengono i vertici di Iccrea Holding.

In questo caos succedono cose strane: chi era contrario alla riforma ora la difende e viceversa. Le Bcc bolzanine, le più tutelate, premono per lo stop visto che – risulta al Fatto – la Bce ha fatto intendere di considerare il gruppo provinciale ugualmente “significant”; Federcasse e Ccb si schierano invece per la prosecuzione.

Venerdì scorso l’associazione “Articolo 2” di San Casciano ha comprato un pagina sul Corriere per chiedere al governo di fermare la riforma. Tra i suoi fondatori – rivela il Gazzettino del Chianti – ci sono pure gli ex vertici di Chianti Banca vicini alla Federcasse toscana guidata da Matteo Spanò, amico d’infanzia di Matteo Renzi, che adesso non spende una parola per difendere la sua riforma.

 

Articolo di Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano del 24/6/2018

 




Licenziati per un commento sui social

Si moltiplicano le sentenze sui lavoratori per i post contro le proprie aziende: “Rompono la fiducia col datore”.

Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione: licenziamento per giusta causa nei confronti di una impiegata di Forlì che sul suo profilo Facebook si era lasciata andare a uno sfogo contro la sua azienda:

“Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”

è il post riportato sulla sentenza. Secondo i giudici, di carattere diffamatorio e tale da aver definitivamente incrinato il rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro. Non è però la prima volta né l’unico caso di licenziamenti e sanzioni disciplinari dovuti ai social network. Basta una breve ricerca per rintracciare una esplicativa casistica, come quella riportata dal sito Workengo, che si occupa di reputazione online. Ma partiamo da Forlì.

La vicenda risale al 2012. La donna pubblica sul suo profilo Facebook un post che nella sentenza della Cassazione viene riportato tra virgolette: “Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”. Tra i suoi amici virtuali, però, c’è anche un collega nonché il legale della società. La donna cancella il post ma viene licenziata e la sanzione viene confermata in primo e in secondo grado.
“La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone – scrivono i giudici della Suprema Corte – pertanto la condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo”. Giusta causa, dunque. La difesa ha provato a spiegare che la donna, 43 anni e invalida al 67%, non era consapevole della eco che avrebbe avuto il suo sfogo, che credeva corrispondesse a una chiacchierata con un gruppetto di amici. La fine del rapporto di fiducia, spiegano i giudici, c’è indipendentemente dalla natura colposa della diffamazione. E anche se l’azienda non era citata direttamente, il destinatario era facilmente identificabile.

 

A Nichelino (Torino) nel 2015, una dipendente di una mensa scolastica condivide sul proprio profilo Facebook il post di un politico che denuncia il ritrovamento di insetti nella purea servita agli alunni. Si limita a commentare:

“Mah… io una polenta con aggiunta di scarafaggi non la mangerei volentieri”.

L’azienda se ne accorge e la licenzia (guadagnava 370 euro al mese) nonostante non avesse nominato la mensa in cui lavorava direttamente e nonostante avesse condiviso il post in un profilo con impostazioni di privacy private.

 

Nel 2014 era toccato invece a una dipendente della Perugina, licenziata per aver criticato un capo-reparto con un post su Facebook. Nel messaggio raccontava di aver sentito che diceva a un collega che per lui era necessario il collare. Nonostante le proteste sindacali, l’azienda non si era scomposta e, contro la dipendente (che era oltretutto una sindacalista) aveva sostenuto che il caporeparto stesse riprendendo il dipendente per la scarsa osservazione delle norme di sicurezza e igiene. “Da un esponente sindacale – aveva spiegato la Nestlé – che ha la responsabilità di rappresentare centinaia di persone che lavorano nel più grande stabilimento del Gruppo Nestlé in Italia, ci si attendeva il sostegno e non la critica agli sforzi rivolti a salvaguardare la sicurezza sul posto di lavoro, l’igiene e la qualità del prodotto”.

 

E ancora. Nel 2012 un operaio abruzzese era stato adescato su Facebook dal proprio capo “sotto mentite spoglie”. Il titolare aveva creato un falso profilo femminile sulla piattaforma e si era accorto che il dipendente aveva preferito chattare invece di occuparsi di una lamiera incastrata sotto una pressa. La Cassazione aveva riconosciuto legittimo lo strumento di “investigazione” anche perché il lavoratore avrebbe avuto anche in precedenza atteggiamenti d’allarme: “Il lavoratore – si legge nella sentenza – era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositivo elettronico utile per conversazioni via Internet”.

 

I motivi dei licenziamenti a causa dei social sono, comunque, molti. “Attenzione anche a usare troppo i social durante l’orario di lavoro, non è una grande idea”, si legge su Workengo.

L’esempio è una sentenza del 2016 del Tribunale di Brescia in cui il datore di lavoro aveva calcolato che la sua dipendente ogni tre ore effettuava circa 16 accessi a Facebook sottraendo, secondo il giudice, tempo all’attività lavorativa e incrinando così il rapporto di fiducia tra lei e il suo datore di lavoro.
“Se poi siete assenti dal lavoro e pubblicate foto mentre fate aperitivo o siete al mare invece di essere sotto le coperte e stravolti dalla febbre come avevate assicurato – spiegano ancora gli esperti di Workengo – beh… non si può dire che il vostro licenziamento sia immotivato da molteplici punti di vista”.
E ricordano il caso del dipendente di Veneto Banca licenziato perché, dopo aver richiesto un permesso per stress psicofisico, era poi andato al concerto di Madonna.

Articolo di Virginia Della Sala su “Il Fatto Quotidiano” dell’8/6/2018

 

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