Il coraggio di Guido

Erano in più di 250.000, ai funerali di Guido Rossa.

Perché da subito fu chiara a tutti l’enormità della vicenda.
Prima venne il coraggio di Guido, operaio sindacalista a Genova; il delirio omicida, i cinque colpi di pistola che dovevano punire il “traditore”, poco dopo.
A 40 anni dal suo tragico delitto, è d’obbligo ricordare il senso delle sue scelte e del suo sacrificio.

Denunciare chi predicava e praticava violenza fu un gesto di giustizia e, di certo, non una scelta avventata o di cui avesse sottovalutato le possibili conseguenze: in uno dei momenti più duri degli anni di piombo, a poco più di sei mesi dall’omicidio di Aldo Moro, Guido Rossa da Cesiomaggiore, Belluno, non esitò.

Ancora oggi, in anni di conflitti meno accesi, ricordare Guido Rossa può aiutarci a rammentare che una scelta di coraggio e di giustizia può veramente fare la differenza.
La sua morte, infatti, definì in modo inequivocabile una frattura tra chi lotta lealmente e realmente per un ideale e per difendere i lavoratori, e chi invece usa il terrore come strumento di propaganda e di controllo.

Il suo gesto e il suo sacrificio contribuirono a cambiare il corso della storia.

Perché, con quei cinque colpi di pistola, le Brigate Rosse decretarono la propria fine.
Non quella di Guido, operaio sindacalista.

Roma, 24 gennaio 2019

 

La Segreteria Nazionale Fisac/Cgil Banca d’Italia

 

Fonte: www.fisacbancaditalia.it

 

Leggi anche:

Guido Rossa 40 anni dopo (www.rassegna.it)




Banca d’Italia: conclusione della trattativa. Una scelta a tutela dei colleghi

Nella giornata del 21 dicembre, abbiamo sottoscritto accordi inerenti le Divisioni Delocalizzate di Vigilanza, il Welfare aziendale, l’Efficienza aziendale, la Rappresentatività sindacale.

La Fisac CGIL ha scelto di firmare gli accordi viste le migliorie apportate a vantaggio dei colleghi, a seguito di nostre molteplici sollecitazioni.

Riepiloghiamo sinteticamente gli elementi salienti di ciascuna tematica, rinviando per maggior dettaglio ai testi degli accordi, disponibili sul nostro sito internet. 

DIVISIONI DISTACCATE DI VIGILANZA

La soglia dei 7 addetti verrà calcolata solo al momento della chiusura e vi concorreranno non solo i dipendenti che avranno scelto di rimanere presso l’unità ma anche quelli che hanno optato per il telelavoro.

Il telelavoro verrà accordato con durata biennale e sarà garantito il rinnovo per il biennio successivo. I rientri mensili per i colleghi in telelavoro vengono portati, facoltativamente, da 4 a 2 giorni, con la possibilità di fruire dei due giorni anche in modo “consecutivo”.

WELFARE AZIENDALE, STRUTTURE PEDAGOGICHE DELLA BANCA E CASC

È stata rivista la tabella degli importi erogati nell’ambito dei Flexible benefits relativi all’introduzione del Welfare aziendale.

In particolare, è stata accolta la nostra proposta di rivedere in modo più vantaggioso le somme destinate ai figli dei dipendenti iscritti all’Università e più in generale quelle destinate all’istruzione.

È stato altresì rivisto il contributo per i figli dei dipendenti tra i 3 e i 6 anni e quello per i pensionati, non più legato al sistema, poco efficace, del “bonus”.

Molto positiva, a nostro avviso, è l’introduzione della possibilità di spendere gli importi erogati non solo tramite “offerte” del portale, ma anche come rimborso delle spese sostenute direttamente dal dipendente, seppur nei casi previsti dalla normativa fiscale.

Questa possibilità sembra in parte superare, a nostro avviso, le più volte richiamate perplessità sul funzionamento del portale e sull’offerta di servizi in esso inclusa.

Importante è anche la previsione di adeguamenti periodici degli importi erogati, sulla base dei parametri economici prevalenti, come la nostra O.S. aveva suggerito.

Per il funzionamento delle iniziative di carattere culturale e sportivo del CASC è stata mantenuta la somma attualmente stanziata dalla Banca, oltre alle quote associative, fissando uno stanziamento minimo complessivo derivante dalla loro somma, garantito dalla Banca: questo dovrebbe continuare a garantire la fondamentale funzione aggregativaper i colleghi.

Sul futuro riassetto del CASC è stata prevista la creazione di una “commissione mista” Banca-Organizzazioni Sindacali (per le sole OO.SS. firmatarie) per definire una proposta da esaminare successivamente al tavolo negoziale: la Fisac CGIL ha ritenuto fondamentale garantire la propria partecipazione, a tutela dei colleghi.

La previsione di incrementare le rette delle strutture pedagogiche della Banca è stata trasformata da una “certezza” in una “possibilità di aumento graduale” e non ha previsto l’introduzione di importi fissati.

EFFICIENZA AZIENDALE

Per il 2018 la componente retributiva legata al raggiungimento di obiettivi di produttività, qualità, efficienza ed efficacia (pari all’1,6% del monte salari 2017) viene così erogata:

  • una somma una tantum pari allo 0,9% (corrispondente all’1,27 dello stipendio annuo lordo);
  • una strutturalizzazione pari allo 0,4%, con effetto dall’1.1.2019.

La restante quota dell’efficienza, pari allo 0,3% verrà invece destinata al finanziamento del fondo per la Lump Sum per i colleghi post ’93 aderenti.

La Fisac CGIL ribadisce la propria contrarietà al meccanismo di alimentazione della Lump Sum, per la modifica del quale la Fisac CGIL continua la battaglia nell’interesse di tutti i Colleghi.

Si tratta infatti di un meccanismo che – tra l’altro – lede gli incrementi retributivi di tutti i Lavoratori ed è comunque insufficiente a garantire in modo certo e stabile nel tempo la creazione di una liquidazione di ammontare adeguato a favore dei “post ’93”.

Alla luce delle critiche espresse abbiamo introdotto una dichiarazione a verbale ad hoc.

Abbiamo comunque ritenuto che la strutturalizzazione dello 0,4% della produttività costituisse un vantaggio oggettivo, immediato e duraturo per i colleghi.

La liquidazione della somma avrà luogo nel mese di febbraio  e comunque non oltre il mese di marzo 2019.

RAPPRESENTATIVITA’ SINDACALE

La Banca ha accolto la nostra istanza di prendere in seria considerazione la definizione di una nuova Convenzione per i diritti sindacali. Sulla base di questo, negli accordi è stata concordata una sede tecnica, entro marzo, per valutare le modifiche da apportare.

SERVIZIO BANCONOTE

È stato elevato da 1 a 5 euro l’importo giornaliero del compenso per team leader presso il Servizio Banconote, a decorrere dall’1.10.2018. Tale importo sarà aggiornato a partire dal 2020.

Inoltre, è stato introdotto un meccanismo di calcolo della produttività aziendale che consente – anche – ai giovani neoassunti presso il Servizio BAN di beneficiare della stessa pure in presenza di una presa di servizio in corso d’anno.

Roma, 22 dicembre 2018

 

La Segreteria Nazionale

 

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Troppo freddo in ufficio? Hai diritto ad andartene senza perdere la retribuzione.

L’arrivo dell’inverno ripropone, come ogni anno, il problema del riscaldamento: molte filiali, agenzie o uffici presentano impianti datati o inaffidabili, con il rischio concreto di ritrovarsi a lavorare al freddo

Proprio in previsione di questi casi particolari, la legge ci viene incontro consentendoci l’astensione dal lavoro senza vedere neanche un euro sottratto dal nostro stipendio. Questo discorso vale nel caso in cui l’ambiente lavorativo risulti molto freddo ma anche se, al contrario, fosse troppo caldo.

L’articolo 2087 del Codice civile, infatti, impone al datore di lavoro l’obbligo di tutelare salute e integrità fisica e morale del proprio dipendente adottando “tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica” si rendono necessarie a garantirle.

A rafforzare questo orientamento interviene anche il T.U. 81/2008 sulla salute e sicurezza del lavoratore che obbliga il datore di lavoro a valutare tutti i rischi per la salute e per la sicurezza del lavoratore che possono derivare dall’esposizione ad agenti fisici quali, ad esempio, un rumore eccessivo oppure le condizioni climatiche.
Nella redazione del documento per la valutazione dei rischi il datore è quindi obbligato a tenere in considerazione anche il clima sul luogo di lavoro.

La legge non stabilisce in modo preciso quali siano le temperature ammesse in ufficio. Un decreto del 2008 dice che “la temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano”.
L’INAIL raccomanda di mantenere all’interno degli uffici una temperatura tra i 18 e i 22 gradi in inverno, mentre in estate la differenza tra temperatura interna ed esterna non dovrebbe superare i 7 gradi.

Nel caso in cui la temperatura si discosti in modo significativo da questi valori si può parlare di inadempienza da parte del datore di lavoro, con conseguente diritto dei lavoratori ad astenersi dal lavoro senza alcuna penalizzazione.

La giurisprudenza non lascia spazio a dubbi a tal proposito.

Nel 2015 la Cassazione rigettò il ricorso di un datore contro un gruppo di dipendenti che si erano rifiutati di restare in ufficio a causa del freddo intenso dovuto alla rottura della caldaia. Ad aggravare la situazione, la temperatura esterna molto bassa e l’apertura temporanea di un varco da cui passava aria fredda, necessario a realizzare un’uscita di sicurezza.
Il datore fu comunque costretto a versare ai dipendenti lo stipendio completo senza trattenute: questo perché, secondo la Suprema Corte, al lavoratore non possono derivare conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore”.

 

A proposito di freddo, leggi anche

https://www.fisaccgilaq.it/banche/assenze-per-maltempo-va-provata-limpossibilita-di-recarsi-al-lavoro.html




Torturati dalle riunioni: inutili, noiose, controproducenti.

Prendete una classica riunione in ufficio di metà mattina: nella stragrande maggioranza dei casi, dopo appena cinque minuti, ci sarà qualcuno con lo sguardo rivolto allo schermo del cellulare. Non mancherà chi farà battute per aumentare l’empatia tra colleghi, o chi si impegnerà in un intervento di mezz’ora per legittimare il suo status o la sua qualifica e chi non farà altro che annuire di fronte al capo.

«Siamo torturati dalle riunioni» ha scritto un po’ di tempo fa L’Economist. Perché il rischio della vita in ufficio è che le giornate si trasformino in affollate sequele di impegni e appuntamenti di lavoro. Riunioni appunto, che spesso però finiscono per rendere tutti meno produttivi e ammazzare la creatività.
Come ha ammesso Fiorello parlando del suo impegno in radio e del suo lento allontanamento dalla tv: «La tv mi costa fatica — ha spiegato al Corriere — perché è un continuo uscire da una riunione per entrare in un’altra. Con i produttori, con gli autori, con gli scenografi, con le maestranze… L’ultima cosa a cui si pensa è lo spettacolo e io alla seconda riunione mi sono già stufato.»

Jeff Bezos, il fondatore e amministratore delegato di Amazon, applica in azienda una regola di base: mai programmare un meeting in cui due pizze non siano sufficienti per sfamare l’intero gruppo di partecipanti. Il motivo è semplice: più alto è il numero dei partecipanti, più aumenta la probabilità di insuccesso.
Steve Jobs ai tempi della Pixar, per capire cosa andava storto in azienda, organizzava gli incontri con i vari team facendo due precise domande: «Dimmi cosa non funziona». La persona rispondeva e Jobs chiedeva agli altri se erano d’accordo. Poi sceglieva un altro dipendente e chiedeva: «Dimmi cosa funziona».

Secondo molti esperti, è il tempo la chiave del successo di qualsiasi riunione.
Nel 1957, C.Northcote Parkinson, professore e leggendario esperto di management, ha elaborato una regola molto efficace: «più tempo a disposizione si avrà in riunione, più se ne sprecherà». Gran parte del problema sta nel fatto che spesso, sebbene i lavoratori detestino partecipare alle riunioni, sopportino ancora meno il fatto di esserne esclusi. «Nulla è così efficace nell’indurre paranoia e malessere di un meeting di lavoro a cui tu sei stato escluso» ha scritto l’Economist.
Succede così che per evitare malcontento generale, i manager cerchino di invitare alle riunioni quante più persone possibili, con un rischio di insuccesso che può arrivare al 99,9%. È dimostrato infatti che più la riunione coinvolge piccoli team di persone, più è alta la probabilità di successo. Perché i partecipanti tenderanno a essere brevi, efficaci, e si aggiorneranno a turno sui progressi del loro lavoro senza perdere tempo.

C’è poi la regola di HIPPO: nell’80% delle riunioni, tutte le decisioni prese sono in linea con quello che dice mr HIPPO. Ossia l’«highest-paid person’s opinion»: il manager. Colui che ha indetto la riunione, il capo o meglio quello che nel meeting è il più alto in grado e guadagna di più. E così meno della metà delle persone presenti si prenderà la briga di parlare perché sa già di sprecare solo fiato. E la metà del gruppo si impegnerà diversamente con lo smartphone.

Secondo Maurice Schweitzer, professore di management alla Wharton School dell’Università di Pennsylvania, le riunioni sono destinate al successo quando la preparazione è già fatta prima ancora di iniziare. «Informare in anticipo le persone sull’agenda impedisce loro di essere colti alla sprovvista, le sorprese spesso portano a una reazione negativa ai piani. Purtroppo — ha aggiunto — è un impegno neanche così divertente e per questo il management raramente lo fa».
Stabilire un obiettivo dovrebbe essere prioritario: bisogna spingere lo staff ad andare avanti su un progetto oppure solo aggiornare il team? Si vogliono capire i problemi dei dipendenti o conoscere le loro idee? Si vuole stimolare il lavoratore a condividere idee e soluzioni? Ma soprattutto, la domanda regina, quella da farsi più e più volte prima di mandare una convocazione è: ma questa riunione è davvero necessaria?

 

Fonte: www.corriere.it




La voce e il corpo delle donne

“Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”

esclamava Nanni Moretti in una memorabile scena del film “Palombella rossa”.

Le parole contano.
C’è una parola inglese, ad esempio, che non è un neologismo ma il cui uso, negli ultimi tempi, è diventato più significativo: BOSSY.
Com’è facile immaginare, questa parola deriva da “boss”, “capo”, e secondo il sito internet del Cambridge dictionary una persona “bossy” è una che dice sempre alle persone cosa devono fare.
In astratto si tratta dunque di un aggettivo che può essere predicato sia rispetto ad un uomo che ad una donna.
Proviamo però a perdere qualche minuto per leggere gli esempi che lo stesso Cambridge dictionary fa per spiegarci la parola “bossy”:

  • Lei è forte senza essere bossy.
  • Smettila di essere così maestrina e bossy!
  • Blake potrebbe sembrare bossy, ma devo dirti che è Lisa che porta veramente i pantaloni in quella relazione.
  • La mia sorella maggiore era molto bossy.
  • Le ragazze di quell’età possono essere piuttosto bossy.

L’aggettivo negativo bossy, nella pratica, viene dunque riferito prevalentemente, se non esclusivamente, a soggetti di sesso femminile.
È chiaro: l’essere un BOSS è una prerogativa necessariamente maschile, quindi una donna in una posizione apicale non può che essere BOSSY, prepotente, e tentare di scimmiottare le qualità maschili.
Niente di strano: da che mondo è mondo, se si vuole fare un complimento ad una donna ed elevarla al rango degli uomini si dice che “ha le palle”, o che è “cazzuta”.
Difficile imbattersi in complimenti altrettanto efficaci che non implichino il possesso di genitali maschili.
Una donna, per essere idonea al comando, deve comportarsi, vestirsi, esprimersi come un uomo.

Margaret Thatcher prendeva lezioni per rendere la voce più profonda, ed ancora oggi, nei corsi di leadership, si raccomanda alle donne di abbassare il tono della voce per renderla più calda, più “maschile”.
La voce delle donne è sempre stato un problema.
Si pensi ad uno dei capisaldi della letteratura occidentale: l’Odissea.
Ad un certo punto, Penelope, moglie di Ulisse, che è lontano perché impegnato in uno dei suoi lunghissimi viaggi, scende dalle sue stanze private e si reca nella grande sala della reggia, dove un cantore allieta i presenti cantando le avversità che gli eroi greci affrontano per tornare a casa.
Penelope, turbata e rattristata dal tema della canzone, si rivolge al cantore chiedendogli di cantare qualcosa di più lieto.
E lì, il figlio Telemaco – che è di fatto un ragazzino – interviene e, dopo aver giustificato il cantore, così la liquida: “Madre, va’ nella stanza tua, accudisci ai lavori tuoi, il telaio, la conocchia e comanda alle ancelle di badare al lavoro. La PAROLA spetterà qui agli uomini, a tutti e a me soprattutto, che ho il potere qui in casa”.
È probabile che questo rappresenti il primo episodio letterario di un uomo, in questo caso un ragazzino, che mette a tacere una donna, indipendentemente dall’età, dal grado sociale e dal rispetto dei ruoli familiari.
Perché, per anni, il privilegio di poter parlare in pubblico è stato solo ed esclusivamente degli uomini. Oppure la voce delle donne porta sventure, come nell’arcinoto caso di Cassandra.

Secondo il mito, la giovane era stata a lungo corteggiata dal dio Apollo, che le aveva donato il potere di prevedere il futuro; tuttavia, alla fine del corteggiamento, Cassandra rifiutò di concedersi ad Apollo, e per questo il dio del sole e di tutte le arti la “maledì” condannandola a prevedere, sì, il futuro, ma a non essere mai creduta.
Immaginate dunque lo strazio di questa povera Cassandra, che si trova ad annunciare il disastro del cavallo di Troia, ma viene liquidata dal padre Priamo come un menagramo.
Le sciagure di Cassandra non sarebbero però terminate lì; la poveretta, infatti, verrà stuprata nel tempio di Atena, diventerà la schiava di Agamennone e poi verrà uccisa.
Tutto per non essersi sottomessa al volere di Apollo.

Ci sono le storie, la mitologia, la letteratura, che ci raccontano della (non) voce delle donne.
E poi ci sono le norme, che dispongono della vita delle donne.
Il diritto penale, ad esempio, è una specie di termometro della società, perché, più di qualsiasi altro, ci dice moltissimo di un paese e di un ordinamento giuridico, e ci racconta, tra le righe, come questo si evolve nel tempo.
Perché il diritto penale, quando ci dice “questo è vietato”, stabilisce le priorità di una comunità e i suoi valori; in un mare di libertà, ritaglia una serie di isole, ognuna delle quali rappresenta una cosa che non possiamo fare: è vietato rubare, è vietato uccidere, è vietato stampare banconote false… Si tratta di un equilibrio difficile da trovare, quello tra divieto e libertà, perché più si espande quello che è penalmente rilevante, cioè la superficie delle isole, meno mare di libertà ci rimane.
Ma il diritto penale è anche l’indicatore di come le donne vengono trattate in una società perché è il modo con cui si dispone della libertà delle donne e anche del corpo delle donne.
E anche qui le parole contano.

La legge che 40 anni fa depenalizzò l’aborto, abrogò l’art. 547 del codice penale, che era inserito in un titolo denominato “Dei delitti contro la integrità e la sanità della STIRPE”.
STIRPE.
Il bene protetto, dunque, non era la salute della donna: la norma non intendeva scoraggiare la donna dall’intraprendere azioni che avrebbero potuto pregiudicare la sua salute o addirittura la sua vita, tant’è che la donna che si procurava un aborto (se sopravviveva) era punibile con la reclusione da uno a quattro anni.
La finalità era esclusivamente quella di proteggere la DISCENDENZA dell’uomo: cioè il nome dell’uomo, il patrimonio dell’uomo, ecc. ecc.
Le giovani donne che nel 1978 hanno esultato per la battaglia vinta per la legalizzazione dell’aborto non avrebbero mai pensato che già le loro figlie si sarebbero trovate nell’urgenza di combattere contro un governo che mette, quasi quotidianamente, in discussione un diritto che sembrava acquisito.

Le parole sono importanti.
L’art. 525 del codice penale – ora abrogato – diceva che le pene stabilite per reati come il ratto (cioè IL SEQUESTRO DI PERSONA) a fine di matrimonio o a fine di libidine erano diminuite se il colpevole, prima della condanna, senza aver commesso alcun atto di libidine in danno della persona rapita, la restituiva spontaneamente in libertà, riconducendola alla casa donde la tolse o a quella della famiglia di lei, o collocandola in un altro luogo sicuro, a disposizione della famiglia stessa.
La parola chiave qui è “COLLOCANDOLA”. La donna poteva essere “tolta” da un luogo e “collocata” in un altro, né più e né meno come si farebbe con un soprammobile.
Questa norma diceva in pratica che il sequestro di persona era meno grave se un uomo si “prendeva” una donna, se la portava via, e poi, se per una qualsiasi ragione non la violentava, la riportava dove l’aveva presa, restituendola alla famiglia (leggi: il di lei padre o marito), oppure COLLOCANDOLA in un luogo sicuro a disposizione della famiglia.
Tutto questo senza che la volontà e le sensazioni della vittima venissero minimamente indagate.
Com’è noto, il codice penale italiano è stato adottato nel 1930, e questa è dunque una norma che risale al periodo fascista. Ma è altrettanto vero che l’articolo in questione è stato abrogato nell’assai poco lontano 1996.

È vero, le parole sono importanti, ma le immagini forse lo sono altrettanto.

 

C’è una bella e famosissima foto, che circola speso sui social media, che ritrae una giovane corridora di nome Kathrine Switzer mentre corre la maratona di Boston nel 1967.
All’epoca le donne non potevano correre quella ed altre maratone, e quindi la Switzer si iscrisse soltanto con le iniziali del nome per nascondere il suo genere.
Dopo pochi chilometri dalla partenza, però, i giudici di gara notarono che c’era una donna nel gruppo, e uno di loro scese dalla macchina che seguiva i corridori e si scagliò contro la Switzer, cercando di strattonarla per farla ritirare.
Ed è proprio in quel momento che viene scattata la celebre foto, quando due “angeli custodi” che correvano accanto a Kathrine, il suo allenatore e il suo ragazzo, fanno scudo con i loro corpi e addirittura attaccano il giudice di gara per proteggere la ragazza.
La grandezza di quella foto non sta solo nel cogliere benissimo l’azione del momento e le espressioni dei soggetti: è anche un’allegoria di quello che, secondo molte donne, dovrebbe essere il femminismo e di come dovrebbe portarsi avanti la lotta per i diritti delle donne e per la parità di trattamento.
Perché, anche se noi donne non costituiamo una minoranza nel senso strettamente numerico del termine, veniamo trattate come se lo fossimo.

E allora, per combattere le nostre battaglie, difendere il nostro corpo e far sentire la nostra voce, abbiamo bisogno anche dell’aiuto dei nostri uomini.

Roma 6 novembre 2018

Angela Di Martino
Segreteria Nazionale Fisac CGIL Banca d’Italia




No, Banca d’Italia non si candiderà alle prossime elezioni

Secondo il Ministro del Lavoro la Banca d’Italia, non essendo stata eletta, non deve permettersi di sindacare le politiche poste in essere dal Governo. Ma è davvero così? Quali sono i compiti di Bankitalia?

Le principali funzioni della Banca d’Italia sono dirette ad assicurare la stabilità monetaria e la stabilità finanziaria, requisiti indispensabili per un duraturo sviluppo dell’economia.
La Banca concorre alle decisioni della politica monetaria unica nell’area dell’euro e svolge gli altri compiti che le sono attribuiti come banca centrale componente dell’Eurosistema.
Al fine di rendere più efficace l’espletamento dei compiti di politica monetaria e delle altre funzioni istituzionali, la Banca d’Italia svolge una intensa attività di analisi e ricerca in campo economico-finanziario e giuridico.

(Fonte www.bancaditalia.it)

Se questi sono i suoi compiti istituzionali, la Banca d’Italia può esprimere il suo parere in merito alla politica economica del Governo?
Non soltanto può: ha il dovere di farlo.

Il corretto funzionamento di uno stato democratico prevede una serie di funzioni, tutte necessarie per tutelare le istituzioni e metterle al sicuro da abusi ed errori.
Esistono funzioni elettive, composte da elementi che cambiano a seguito delle varie tornate elettorali, esistono ruoli che vengono assegnati a persone che dovrebbero conoscere molto bene l’ambito nel quale dovranno operare, con mandato a termine.
Ed esistono funzioni di controllo e garanzia: a svolgere questi ruoli ci sono tecnici che dovrebbero necessariamente essere al di fuori delle logiche politiche o di partito, e che per le competenze richieste non possono avere un incarico a tempo.

La democrazia resta la migliore forma possibile per il Governo di un paese, ma negli ultimi anni ha mostrato tutti i suoi limiti, se è vero che abbiamo votato partiti capaci di scegliere un Ministro per la Pubblica Ammnistrazione che aveva copiato la sua tesi di laurea, un Ministro della Pubblica Istruzione che non era neanche diplomato, ed oggi ci ritroviamo un Ministro della Salute che alimenta dubbi sull’utilità dei vaccini o un Ministro del Lavoro che in realtà per il mondo del lavoro non è neanche passato, salvo farsene un’idea su Facebook o Twitter.

Il fatto che molte delle norme elaborate da questi soggetti si rivelino scritte in modo grossolano, e vengano poi cancellate dalla Corte Costituzionale non sorprende, ma dimostra due realtà incontrovertibili:

  1. Il voto dei cittadini non premia necessariamente i migliori (per certi versi, negli ultimi anni è successo esattamente il contrario).
  2. Proprio per questo servono organi di controllo che, pur nel rispetto dell’autonomia politica di Parlamento e Governo, vigilino per impedire provvedimenti palesemente sbagliati o in contrasto con i principi costituzionali. Per fare questo è necessario avvalersi di persone con assoluta competenza: non serve gente che ha preso i voti promettendo l’impossibile, ma qualcuno che ci capisce”.

Torniamo alla Banca d’Italia.
Nel caso specifico il suo è un ruolo puramente consultivo, senza potere di veto, ma che deve doverosamente svolgere.
Si può ovviamente discutere la legittimità nelle nomine dei vertici, il fatto che spesso le figure apicali non siano realmente autonome rispetto alla politica.
Il problema della meritocrazia è sicuramente una delle questioni più importanti per il nostro Paese: non sembra, tuttavia, che il “Governo del Cambiamento” abbia molta voglia di cambiare le cose, visto che le scelte fin qui fatte per tutti i ruoli dirigenziali continuano a seguire le vecchie logiche della lottizzazione.

Le opinioni espresse dai vertici di Banca d’Italia sono ovviamente criticabili: nessun uomo può essere infallibile e quindi qualsiasi parere è soggetto ad osservazioni. Però bisogna farlo entrando nel merito, con dati e fatti concreti: capacità che evidentemente al Ministro del Lavoro manca.

E allora ecco l’ennesimo slogan, se possibile ancor più assurdo ed insensato dei precedenti (per non parlare dell’ormai abituale congiuntivo mancante)

Se la Banca d’Italia vuole un governo che non tocca la Fornero, si presenti alle elezioni con questo programma.

Notevole anche la conclusione, da giustiziere mascherato più che da Ministro:

Giustizia è fatta. Indietro non si torna.

Questo modo di comunicare è offensivo: offensivo nei confronti di tecnici che basano la loro competenza su anni di studi ed esperienza sul campo, offensivo nei confronti dei cittadini, che si continua a trattare da bambini poco intelligenti, bombardandoli di slogan per non dover parlare di fatti concreti.

L’Italia sarà anche il Paese in cui chiunque può diventare ministro (e lui e Salvini lo dimostrano efficacemente.
Ma quando si tratta di conoscenze e capacità tecniche “Uno NON vale uno”

 

 

 




Banche piene di titoli di Stato: perché lo spread fa paura

Gli istituti, in 7 mesi, hanno aumento di 50 milardi il debito pubblico in pancia. C’è il rischio di una nuova tornata di aumenti di capitale e del taglio dei prestiti a famiglie e imprese.

 

Il timore di tornare indietro di sette anni

Di fatto con i loro acquisti le banche italiane hanno rimesso in moto il triste copione della crisi del debito sovrano del 2011. Lo spread volato sopra i 500 punti indusse infatti molti detentori esteri a liberarsi delle posizioni sull’Italia e il nostro sistema finanziario, banche e assicurazioni, finì per immolarsi sull’altare della stabilità. Senza l’apporto degli acquisiti controcorrente delle banche chissà cosa sarebbe accaduto ai destini della tenuta del nostro debito da 2.300 miliardi. Un ruolo improprio che ha fatto di necessità virtù ma con un contraccolpo feroce: appaiare sempre più il rischio sovrano a quello bancario. Come in un’osmosi perfetta. E pericolosa. Come non ricordare che al picco della crisi post 2011 il sistema bancario era arrivato a superare i 400 miliardi di titoli di Stato nei bilanci? Il doppio dei livelli abituali pre-crisi. Consegnando mani e piedi delle banche ai capricci dello spread. Un legame vizioso e perverso che se da un lato ha evitato il crac del Paese ha reso le banche vulnerabili. E ora con 50 miliardi in più acquistati negli scorsi mesi il sistema bancario è sempre più vicino a replicare lo schema del 2011.

Del resto non sembrano esserci molte alternative. Chi può sostituire i fondi d’investimento stranieri in fuga? Le famiglie forse? Ora, ogni volta che lo spread prende il volo verso l’alto le banche segnano perdite sul loro patrimonio. Gli analisti stimano che per ogni 100 punti base di rialzo del differenziale di rendimento le banche accusino svalutazioni del loro capitale di base per 30 punti base. E se il capitale viene eroso accadono due cose: le banche potrebbero essere costrette a una nuova tornata di aumenti di capitale e soprattutto si creano le premesse per un nuova stretta creditizia su imprese e famiglie.

 

I bond sono due volte il capitale degli istituti

Quel numero del controvalore dei Btp in pancia alle banche da solo dice poco. Ma se rapportato al capitale ci racconta che gli oltre 370 miliardi di titoli di Stato valgono come aggregato quasi 2 volte il patrimonio degli istituti. Un peso notevole che le espone molto ai capricci del rialzo dei rendimenti che svaluta i titoli e intacca il patrimonio. Solo le prime 5 banche italiane possedevano a fine giugno quasi la metà dello stock complessivo. Intesa la prima banca italiana per redditività e solidità ha tra portafoglio bancario e assicurativo 82 miliardi di titoli del debito italiano. UniCredit ne ha per 55 miliardi; Monte dei Paschi di Siena ne possiede 21 miliardi, in crescita sui 17,6 miliardi di fine 2017; Ubi ha 9,9 miliardi e BancoBpm ne possiede per 19 miliardi.

Le due grandi banche hanno mantenuto nel primo semestre più o meno identici i pesi, mentre Mps ha incrementato di 3,5 miliardi gli acquisti e Ubi e BancoBpm hanno alleggerito di un 10% entrambe l’esposizione. Il tema di fondo non è il peso in sé ma il suo rapporto con l’attivo di bilancio e il capitale soprattutto. Mps che non a caso è banca pubblica ha il rapporto più sbilanciato: i 21 miliardi di bond governativi italiani in portafoglio valgono il 230% del capitale e il 15% dell’intero attivo di bilancio. Ovvio che la banca di Siena finisce per essere la più esposta ai rialzi dello spread.

 

Il rischio di un nuovo credit crunch

Ma il tema del legame simbiotico con il debito pubblico non riguarda solo eventuali deprezzamenti di capitale. Riguarda anche il futuro dell’industria del credito e dei suoi rapporti con l’economia reale. Le banche, come fatto in tutte le precedenti crisi, possono a fronte di incertezze future sul capitale stringere i cordoni del credito. Fare delevereging come si dice in gergo. Un nuovo credit crunch potrebbe riapparire sulla scena. Non che quello vecchio sia passato. Tuttora mancano all’appello 70 miliardi di stock di prestiti a imprese e famiglie. Il monte crediti era nel 2013 di 1.414 miliardi. A fine 2017 siamo fermi a 1.347 miliardi. In caduta i prestiti alle imprese per almeno 100 miliardi compensati in parte dal buon andamento dei mutui alle famiglie. Solo per dare un’idea UniCredit ha ridotto dal 2013 al 2017 i crediti alla clientela per 55 miliardi; Mps per 40 miliardi su uno stock di 131 miliardi (-30% in 5 anni). Solo Intesa è andata controcorrente incrementando del 19% il suo stock di crediti passato da 344 miliardi del 2013 a 411 miliardi di fine 2017. Una nuova stretta del credito per un Paese che sta frenando sulla crescita può aprire le porte a una nuova recessione.

 

Articolo di Fabio Pavesi su “Il Fatto Quotidiano” del 10/10/2018

 




Sugo amaro

LA BALLATA DEI BERRETTI ROSSI

Mattina presto, e i berretti rossi si radunano nella piazzola in attesa del caporale.

POMODORI PELATI IN LATTINA DA 500 g. A 0,65!

Il furgone verso i campi non ha finestrini e l’aria non entra ma è ancora fresco, di primo mattino, e si respira.

SOTTOCOSTO! PASSATA DI POMODORO A 0,78 EURO A BOTTIGLIA!!

Il sole è alto: nei campi roventi i berretti rossi tirano su pomodori, perché quel singolo euro di paga per ogni quintale fa gola a tutti.

INCREDIBILE! POLPA A PEZZI A 1,90 EURO PER TRE LATTINE DA 210 GRAMMI!!!

Fine della giornata e i berretti rossi risalgono sul furgone per tornare a casa: quella scatoletta di metallo ora è rovente e c’è odore di pomodori schiacciati a terra e sudore, e proprio non passa un filo d’aria.

SUGO PRONTO IN BARATTOLO A 2,30 EURO AL KG!!

Il furgone sbanda e poi frena, dentro tutti i berretti rossi finiscono l’uno sull’altro, poi il furgone sbatte contro qualcosa – che brutto rumore – e i berretti rossi cadono, e poi le lamiere si piegano, e poi…

POMODORI SAN MARZANO A 0,55 EURO AL KG!!

 

Roma, 7 agosto 2018

 

La Segreteria Nazionale FISAC Banca d’Italia

 

Scarica il volantino originale

 




Il welfare aziendale è una iattura

Riceviamo spesso dai lavoratori richieste di consigli in merito all’opportunità di destinare al welfare aziendale le somme derivanti dai premi di produttività.

A questa domanda risponde Alberto Perfumo con il volume “Il welfare aziendale è una iattura” (dal quale abbiamo tratto il titolo del post).
L’autore è responsabile di un’azienda che si occupa di consulenza in materia di welfare aziendale; tuttavia, invece di sostenere a spada tratta i vantaggi del welfare, riferisce correttamente anche dati e informazioni negative. Che la sua opinione sia controcorrente si comprende sin dall’introduzione, della quale riportiamo un estratto:

“Il welfare aziendale è una iattura”, mi ha detto un candidato durante un colloquio, riportando la frase di un amico impiegato presso una grande azienda. Ma come? Durante la selezione per una società che offre servizi e consulenza in ambito welfare aziendale e mentre in giro non si parla d’altro, un lavoratore dice che si tratta di “una iattura”?
In realtà, l’affermazione non mi ha sorpreso: da mesi rifletto sul boom del fenomeno welfare aziendale. Con i miei 16 anni di esperienza nel settore ho sentito la necessità di una riflessione seria sull’argomento. E mi piace pensare che questa riflessione possa essere utile ad altri.

Si è ormai affermata, da più parti, la convinzione che il welfare aziendale sia la soluzione ideale per tutti e che convenga ad aziende e dipendenti.
In realtà il welfare aziendale è ingannevole: vengono sbandierati vantaggi fiscali e contributivi, ma nel complesso la scelta è economicamente in perdita.

Nel settore privato le aziende premono affinché i lavoratori destinino al welfare i premi variabili di risultato anziché riceverli in busta paga. Apparentemente, per chi fa questa scelta ci sono vantaggi tangibili.
Incassare i premi direttamente in busta paga significa pagare il 9,19% di contributi previdenziali e il 10% d’imposta (comunque ridotta rispetto all’aliquota ordinaria Irpef che va dal 23% al 43%.)
Destinarli al welfare significa evitare ogni contributo o imposta. Ecco perché questa seconda opzione è apparentemente quella più conveniente.

C’è però un aspetto che può sfuggire al lavoratore. Versando il premio di produzione nel welfare, anche il datore di lavoro è esentato dal versare la sua quota di contributi previdenziali, pari all’incirca al 24% della retribuzione.

Ricapitolando: destinando i premi di risultato al Welfare il lavoratore si trova una maggiorazione immediata del 19% (subito vanificata nel caso la somma venga utilizzata per spese mediche o per altre spese potenzialmente detraibili, che a quel punto non possono essere detratte perdendo il beneficio fiscale che ammonta esattamente al 19%).
Così facendo però perde contributi INPS nella misura complessiva del 33%. 
Per invogliare i lavoratori a scegliere di utilizzare comunque il welfare, le aziende tendono ad offrire maggiorazioni a chi sceglie questa opzione, che possono arrivare al 10-15%: comunque inferiori al risparmio ottenuto dal mancato versamento dei contributi.

E’ bene ricordare che i contributi previdenziali non sono soldi persi: più contributi versati comportano una pensione più alta.
Perfumo cita uno studio secondo cui mille euro l’anno in welfare per 37 anni causano una decurtazione della pensione di 873 euro l’anno.

Quindi qual è la scelta migliore?

Se si riesce ad utilizzare il welfare per sostenere spese che non beneficerebbero di detrazione fiscale (es. acquisto di libri scolastici) ed in presenza di incentivi aziendali, la scelta tra welfare e incasso in busta paga è pressoché equivalente se il bonus per chi opta per il welfare arriva al 15%.

Ragionando con un’ottica di lungo periodo, e comunque in tutti i casi in cui le somme accantonate dovrebbero essere destinate a spese potenzialmente detraibili, appare preferibile incassare il premio in busta paga.
Al momento della scelta va tenuto conto anche del fatto che i soldi destinati a welfare non si recuperano subito, e può non essere semplicissimo utilizzarli tutti.

 

In passato avevamo sviluppato l’analisi dell’argomento welfare giungendo alle medesime conclusioni. Anche se riferito in parte ad uno specifico Istituto Bancario, invitiamo tutti coloro che volessero approfondire la questione a rileggere il post .

https://www.fisaccgilaq.it/banche/bper-welfare-aziendale-2017.html




Banca d’Italia: la Grande Guerra delle Filiali

Dopo svariati mesi trascorsi ad errare per la periferia, più o meno remota, della Banca d’Italia, il Vertice è tornato a casa, soddisfatto perché convinto di aver pacificato le Province, anche quelle più turbolente.

Le domande scomode, durante le visite, non sono mancate. Soprattutto circa il destino che avranno le Filiali, ed in special modo quelle più piccole.

Le rassicurazioni del Vertice non hanno giovato più di tanto all’umore generale: erano forse troppo simili a quelle che avevano preceduto le prime due ristrutturazioni territoriali?
Nel frattempo la vita nelle Filiali somiglia sempre più a quella di trincea: lunghi periodi di noia intervallati da improvvisi momenti di panico.
Perché, da un lato, la Banca ha rinunciato a svolgere alcune delle sue attività “tipiche”, oppure ha deciso di avocarle dalla periferia al centro. Dall’altro, nonostante quanto appena detto, sono sempre più frequenti i picchi “ciclici” di operatività che la Filiali si trovano ad affrontare con compagini decimate da pensionamenti senza turn over e missioni operative in entrata disposte col contagocce.
L’umore delle truppe, lì al fronte, non è dei migliori; e la domanda che tutti si fanno non è più “se”, ma “quando” la chiusura riguarderà anche loro.

Discorso a parte meritano le 10 UST, Filiali “a scadenza” con chiusura programmata a di-cembre 2018.
Queste realtà, condannate alla chiusura perché, a dire del Vertice, oramai inutili, si trovano oggi a fronteggiare una mole di lavoro del tutto spropositata rispetto al numero degli addetti: dalle Sedi Regionali viene delegata, ad esempio, la lavorazione di migliaia e migliaia di esposti e di richieste di accesso alla Centrale dei Rischi, così come moltissimo impegno richiede la lavorazione in “subappalto” delle pratiche ABF.
La domanda, allora, sorge spontanea: ma non si era detto che quelle Filiali erano inutili?
O forse l’idea del Vertice è che, trattandosi di Filiali “a scadenza programmata”, i colleghi addetti a quelle realtà siano da trattarsi alla stregua di yogurt, e dunque “da CONSUMARSI entro il 31.12.2018”?

Quale fiducia possiamo avere nel nostro futuro, volendo parafrasare le recenti parole del Governatore, se in quelle Filiali si sta “come d’autunno, sugli alberi, le foglie”?

 

Fonte: www.fisacbancaditalia.it