Non è un fisco per donne: ecco perché le incentiva a restare a casa

Effetto generato dal gender gap sugli stipendi. “E buste paga più basse degli uomini anche in lavori qualificati”


La chiamano la “child penalty”, cioè la penalizzazione in termini di stipendi, carriere e pensioni delle donne che decidono di mettere al mondo dei figli. E che non dipende soltanto dalle scelte delle donne, dello loro famiglie e delle aziende, ma da un sistema che sembra disegnato apposta per incentivare per le madri la scelta di rimanere a casa. A partire dalla storica “detrazione per il coniuge a carico”, rileva Francesca Carta, ricercatrice di Bankitalia, nel corso del convegno “Le donne, il lavoro e la crescita economica”, organizzato da via Nazionale per presentare i risultati di uno studio avviato su questi temi nel 2020. «La detrazione di fatto è un incentivo per il coniuge secondo percettore di reddito, cioè la donna, a rimanere a carico», afferma Carta.

E fosse solo questo: anche l’Isee, ragiona lo studio di Bankitalia, scoraggia il lavoro delle donne, soprattutto quello regolare, nel momento in cui mette sullo stesso piano gli aumenti del reddito familiare riconducibili all’unico percettore rispetto a quelli dovuti al rientro nel mondo del lavoro della donna. Trasferimenti importanti come i sostegni alle rette degli asili nido, che per i redditi bassi arrivano a 3.000 euro, si dimezzano proprio quando servirebbero di più, e cioè quando le madri scelgono di tornare al lavoro, e quindi l’Isee sale. E inoltre, osserva ancora Bankitalia, gli incentivi al lavoro per le donne che hanno un coniuge percettore di reddito sono più bassi di quelli di cui godono le single.

Ma il meccanismo disegnato per tenere le donne a casa non si ferma qui. Le madri che rientrano dopo aver messo al mondo un figlio, a meno che non avessero già da prima un contratto a tempo indeterminato, che consente loro di rientrare alle stesse condizioni, finiscono per accettare contratti peggiori. Che abbondano tra quelli “incentivati”, sottolinea nel corso dello stesso convegno Maria Cecilia Guerra, deputata e responsabile Lavoro del Pd. «Gli incentivi spingono le donne verso un “brutto lavoro”, – afferma Guerra – con ampie quote di part-time e in settori marginali, che non sarebbero cioè altrimenti profittevoli in assenza degli incentivi, e quindi con basse retribuzioni e bassa produttività».

I risultati si vedono da un’analisi delle carriere: tra le madri occupate, a 15 anni dalla nascita del figlio, la retribuzione annua è circa la metà di quella delle donne senza figli, principalmente a causa del numero inferiore di settimane lavorate, in misura minore a causa della scelta del part-time. La penalizzazione è solo delle madri: d’altra parte, viene sottolineato nel corso del convegno, le donne in Italia hanno cinque mesi di congedo obbligatorio se mettono al mondo un figlio, gli uomini dieci giorni di congedo facoltativo che spesso di “dimenticano” di prendere. La “child penalty” esiste anche negli altri Paesi, ma viene assorbita con gli anni, mentre da noi è eterna.

E se a essere penalizzate sono soprattutto le donne delle famiglie a reddito più basso, il sistema Italia svantaggia notevolmente anche le donne ad alto reddito. Che pagano più delle altre il gender gap, sottolinea la vicedirettrice di Bankitalia Alessandra Perrazzelli: «Verso la fine della carriera lavorativa, le donne che appartengono al decimo superiore della distribuzione salariale guadagnano in media il 30 per cento in meno rispetto agli uomini che si trovano nell’ultimo decimo». Mentre il gender pay gap medio è “solo” del 10%, con un tasso di occupazione femminile che non riesce ancora neanche a raggiungere il 60%.

 

www.repubblica.it




Banca d’Italia: flexible benefits e ferie solidali – Firmati Accordi

Nella giornata di ieri abbiamo apposto la nostra firma agli accordi che – finalmente – introducono l’istituto delle ferie solidali, da tempo richieste dalla Fisac CGIL, oltre ad apportare miglioramenti ai flexible benefits, anche in recepimento delle ultime previsioni normative, in primis introducendo nuove casistiche per l’utilizzo del credito disponibile come la possibilità di pagare le bollette domestiche del servizio idrico integrato, dell’energia elettrica, e del gas naturale, ottenendo il rimborso attraverso la piattaforma online.

Ricordiamo che tali nuove casistiche non devono, insieme a quelle già previste in precedenza, superare i 3.000 euro previsti dalla vigente disciplina fiscale, onde non incorrere in tassazione. Tale controllo è rimesso al dipendente: la Fisac CGIL è a disposizione del personale per ogni eventuale necessità di consulenza su questo aspetto.

Con l’occasione, come specificatamente richiesto dalla CGIL, la Banca si è impegnata formalmente ad adeguare il credito welfare all’IPCA (LEGGI).

Tra l’altro, la Banca ha confermato che anche il credito welfare “libero” per i pensionati, riferito al 2022, sarà prorogato fino al 2024, per le comprensibili difficoltà di accesso alla spesa.

Sui flexible benefits abbiamo ribadito la necessità che la Banca renda disponibile, attraverso il portale, la proroga dei termini per la fruizione dei crediti Welfare.

Con riferimento alle ferie solidali, abbiamo inserito una dichiarazione a verbale, ribadendo che tra le causali che consentono la loro fruizione andranno inseriti, in futuro, anche le esigenze dei dipendenti per se stessi, oltre a quelle inerenti i loro familiari.

Roma, 20 giugno 2023

 

 

La Segreteria Nazionale

 

 

ALLEGATI:




Bankitalia striglia le banche: basta modifiche unilaterali a danno dei clienti

Lo avevamo chiesto, per non dire invocato, e alla fine è arrivato. Il monito lanciato in settimana da Banca d’Italia non lascia spazio a interpretazioni. Il messaggio è chiaro. Le banche sono state esortate a porre estrema attenzione nel proporre modifiche unilaterali dei contratti di conto corrente a sfavore dei clienti motivate esclusivamente dall’andamento al rialzo dell’inflazione.

Inoltre gli istituti sono stati sollecitati a rivedere la remunerazione dei depositi e a ribassare gli oneri aumentati negli anni scorsi, con la «scusa» della discesa dei tassi d’interesse ai minimi termini. Ma per ora degli effetti del rialzo dei tassi sembrano beneficiarne concretamente solo i bilanci delle banche.

Due criticità che Plus24, il settimanale di Finanza personale del Sole 24 Ore, aveva fatto emergere a più riprese con una vasta casistica nei mesi scorsi.

Solo alcune banche hanno finora ripristinato le condizioni di maggior favore per il cliente. Dalle inchieste di Plus24 è emerso che le prime a muoversi in tale direzione in via generalizzata per tutti i clienti sono state Credem e Banco Bpm. Altre banche hanno poi seguito l’esempio, ma si tratta solo di rare eccezioni.

Pur non essendo le variazioni in melius disciplinate dall’art. 118 del Tub, è evidente che il ripristino delle condizioni originarie fa parte dei princìpi di buona fede e correttezza che una banca deve avere nei confronti della clientela e su cui Banca d’Italia è chiamata a vigilare.

Per di più ci sono istituti – il primo è stato UniCredit – che hanno addirittura alzato e non diminuito i costi dei conti correnti con l’opinabile “giustificato motivo” del rialzo dell’inflazione. Ma come ricorda la stessa Banca d’Italia «l’aumento dei tassi avviato lo scorso luglio dalla Bce può avere effetti positivi sulla redditività complessiva dei rapporti tra banche e clienti, potenzialmente in grado di compensare l’aumento dei costi indotto dall’inflazione». La crescita del carovita non autorizza quindi le banche ad addebitare al cliente maggiori oneri, perché nel valutare il “giustificato motivo” occorre considerare che l’inflazione ha comportato il rialzo dei tassi di cui i bilanci delle banche stanno beneficiando enormemente.

Adesso occorre verificare quali effetti produrrà la moral suasion di Banca d’Italia. In genere le banche vanno avanti senza indugi con le loro strategie e sono pronte a rivedere le condizioni solo ai pochi clienti che reclamano. Un modo di agire che non rientra nei princìpi di correttezza previsti dalle disposizioni di Banca d’Italia. E non si può più sentire il solito refrain che “occorre educare i clienti”. Non è realistico pensare di educare tutti i milioni di italiani che hanno un conto in banca. In primis andrebbero educati a comportarsi più correttamente gli strateghi delle banche, anche a suon di sanzioni. La moral suasion non è sufficiente.

 

Fonte: Il Sole 24 Ore




Pagamenti, ai commercianti il contante costa più di bancomat e carte di credito

Il contante costa di più. Un’analisi di Banca d’Italia, citata in Parlamento dal capo della ricerca economica Fabrizio Balassone – audizione alla base delle frizioni con il governo – evidenzia i fatti riferiti ad un’indagine del 2016.

Cosa emerge dallo studio dal titolo “Il costo sociale degli strumenti di pagamento in Italia”?
Il contante ad una prima analisi può essere percepito quale mezzo di pagamento più economico da imprese ed esercenti se commisurato alla singola transazione (0,19 euro) tenuto anche conto che questi operatori non sostengono del tutto i costi direttamente imputabili al contante. Tuttavia, se commisurato in percentuale del valore della transazione, il costo privato del contante (1,10 per cento) risulta il più elevato a causa dei maggiori oneri (variabili) legati alla sicurezza (es. furti, trasporto valori, assicurazioni). Il costo annuo complessivo per gli esercenti è stimabile nell’ordine di 3,8 miliardi di euro (0,23 per cento del PIL); il valore dello scontrino medio di acquisto è sostanzialmente in linea con quello della precedente indagine (17 euro, 19 il valore mediano).

Risparmi dalla migrazione verso gli strumenti elettronici

Oltre al contante – scrive Bankitalia – per gli incassi gli esercenti accettano in misura maggiore le carte di pagamento, mentre per le imprese rilevano soprattutto i bonifici e gli addebiti diretti. Rispetto alla precedente indagine del 2009, si registra una diminuzione significativa dei costi di accettazione delle carte – sia in termini unitari che in rapporto alla spesa effettuata –, che riflette soprattutto la riduzione delle commissioni interbancarie dopo l’entrata in vigore del relativo regolamento; il costo di una operazione con carte appare più basso del contante se misurato in termini percentuali sull’importo transato (0,65 per cento).

La carta di pagamento (debito e credito) risulta essere utilizzata per pagamenti di importi medi di 50-70 euro, a seconda della tipologia di esercente (ad esempio l’importo medio dello scontrino di acquisto con carta presso i supermercati è inferiore rispetto a quello dei negozi specializzati). Inoltre i risultati dell’indagine fanno rilevare un risparmio complessivo di risorse dedicate alla produzione e all’utilizzo di mezzi di pagamento per effetto della graduale migrazione verso strumenti elettronici (bonifici, addebiti diretti e carte) da quelli cartacei (contante e assegni): il costo sociale (netto complessivo) in Italia è stimato in 11,9 miliardi di euro, pari allo 0,71 per cento del PIL, valore inferiore di 1,2 miliardi rispetto a quello rilevato con la precedente indagine 17 (12,6 miliardi di euro, 0,81 per cento del PIL).

Aumenta il ricorso all’utilizzo di strumenti alternativi

Nel periodo intercorso tra le due indagini (2009-2016) si è registrata una progressiva crescita nell’utilizzo degli strumenti di pagamento alternativi al contante – bonifici, addebiti diretti e soprattutto carte – per effetto sia dei rapidi sviluppi delle tecnologie, sia degli interventi normativi a sostegno dell’efficienza e della sicurezza. Tali sviluppi hanno consentito un risparmio di risorse dedicate alla produzione e all’utilizzo dei servizi di pagamento di circa un miliardo di euro (0,10 per cento del PIL). Per il sistema nel suo complesso i costi stimati per l’insieme degli strumenti di pagamento. ammontano a circa 13,6 miliardi di euro (0,80 per cento del PIL, 0,90 nel 2009); il 48,2 per cento di questi costi è sostenuto dagli intermediari finanziari, il restante 51,8 per cento dalle imprese e dagli esercenti. Il contante costa al nostro sistema 7,4 miliardi (0,44 per cento del PIL), valore inferiore a quello della precedente indagine (7,9 miliardi di euro, 0,49 per cento del PIL) per effetto della riduzione del numero di transazioni effettuate con questo mezzo (dall’86 all’80 per cento circa) e della maggiore efficienza dei canali distributivi del contante stesso.

 

Fonte: Il Sole 24 Ore




Il 15 dicembre sciopero generale ultime 4 ore di lavoro

SCIOPERO PERCHE’
Una legge di Bilancio contro il lavoro, sbagliata e da cambiare


NOI CHIEDIAMO

  • di aumentare i salari detassando gli aumenti dei contratti nazionali, portando la decontribuzione al 5% per i salari fino a 35.000 euro per recuperare almeno una mensilità, e introducendo un meccanismo automatico di indicizzazione delle detrazioni all’inflazione (così detto recupero del drenaggio fiscale);
  • di conferire tutele a tutte le forme di lavoro, assegnando ai CCNL un valore generale, sancendo così anche un salario minimo e diritti normativi universali;
  • di eliminare le forme di lavoro precario per un unico contratto di inserimento al lavoro con contenuto formativo;
  • una riforma fiscale che rispetti il principio della progressività;
  • la tassazione degli extraprofitti che generi risorse per un contributo straordinario di solidarietà;
  • la rivalutazione delle pensioni;
  • risorse per il diritto all’istruzione, per la sanità che ha affrontato e sta affrontando gli effetti drammatici della pandemia;
  • di cancellare la Legge Fornero e introdurre: l’uscita flessibile dal lavoro a partire dai 62 anni, il riconoscimento della diversa gravosità dei lavori, la pensione di garanzia per i giovani e per chi ha carriere discontinue e “povere”, il riconoscimento del lavoro di cura, il riconoscimento delle differenze di genere, l’uscita con 41 anni di contributi.

Per la CGIL, in coerenza con le piattaforme unitarie, sono necessarie:
riforme vere, ispirate dai criteri di solidarietà e giustizia sociale, fondate sulla qualità e la stabilità del lavoro, sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e su nuove politiche industriali ed energetiche capaci di prospettare un futuro per il Paese, sulla trasformazione digitale e la riconversione verde, su uno stato sociale più forte e qualificato.

IL GOVERNO INVECE

  • proprio mentre l’inflazione sta mangiando il potere d’acquisto di retribuzioni e pensioni, premia gli evasori e, con la flat tax fino a 85.000 euro per il lavoro autonomo, rende ancora più ingiusto il sistema fiscale, sempre più scaricato sul lavoro dipendente, che a parità di reddito paga il triplo;
  • trasforma le tasse sugli extraprofitti frutto della speculazione sul caro energia in “contributo di solidarietà straordinario” e cambia platea e metodo di calcolo, riducendo gli 11 mld, attesi dalla tassazione di Draghi, a 2,6 mld;
  • aumenta la precarietà di giovani, donne, nel Mezzogiorno, allargando l’utilizzo dei voucher, che considerano il lavoro merce, senza diritti e senza tutele;
  • taglia le risorse a sanità e scuola, che pagano pesantemente il prezzo dell’inflazione;
  • colpevolizza e colpisce i più poveri, andando verso l’abolizione del reddito di cittadinanza;
  • non stanzia adeguate risorse per i rinnovi contrattuali pubblici e per il trasporto pubblico;
  • cambia il meccanismo di adeguamento delle pensioni all’inflazione e rende ancora più penalizzante e discriminante l’opzione donna; si peggiora la situazione attuale con quota 103 che prevede i due requisiti: 62 anni di età e 41 di contributi.

Ci mobilitiamo per una Legge di Bilancio più giusta per le persone, più utile per il Paese.

 

 

 

 




Lo studio Bankitalia: precarizzare il lavoro è stato un disastro

Uno studio dell’istituto mostra che liberalizzare i contratti a termine non ha creato occupazione, ma aiutato solo i profitti delle imprese


Non è il primo giudizio scientifico in materia, va detto, ma colpisce l’autore – Banca d’Italia – e la stroncatura: la riforma del lavoro che nel 2001 ha spalancato alle imprese l’universo dei contratti precari ha fallito nei suoi obiettivi dichiarati (su quelli non dichiarati, ognuno può farsi la propria idea): non ha creato occupazione, ha solo fatto aumentare i profitti delle imprese a scapito dei salari. Certo, detta così sembra un po’ la scoperta dell’acqua calda, eppure dare una misura al disastro compiuto con le riforme del lavoro non è mai inutile: può aiutare a far comprendere cosa è stato fatto ai lavoratori in questi decenni, anche a chi – a differenza di milioni di persone – non l’ha vissuto sulla propria pelle.

Lo studio. “Gli effetti delle riforme parziali del mercato del lavoro: evidenza per l’Italia” è stato appena pubblicato nella sezione working papers della Banca d’Italia. Si occupa della famosa riforma del 2001 affidata dall’allora ministro Roberto Maroni al sottosegretario Maurizio Sacconi e al consigliere Marco Biagi, il giuslavorista che un anno dopo, nel marzo 2002, verrà ucciso dalle nuove Br. Fu l’atto d’esordio del secondo governo Berlusconi, sulla base però di una delega fornita dal morente centrosinistra, che al precariato ha sempre dato il suo fattivo contributo.

La curiosa idea che tutele troppo rigide ostacolino l’occupazione è diventata prevalente in Europa nel pensiero mainstream economico attiguo ai partiti di centrosinistra dalla metà degli Anni 90, facendo saltare tutte le barriere. Il primo assaggio era arrivato con la legge 55 del 1987 (e la possibilità per i Cnel di autorizzare in alcuni casi il ricorso ai contratti a termine). L’esordio vero è il “pacchetto Treu” (governo Prodi) che nel 1997 permette il ricorso al lavoro interinale. La legge del 2001 , però, anche a detta dello studio di Bankitalia, fu una vera liberalizzazione perché permise un ricorso ampio ai contratti a termine per qualsiasi motivo “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo” delle imprese. C’è, insomma, un prima e un dopo.

Ebbene, cosa ha prodotto questo (quasi) liberi tutti? Secondo gli economisti dello studio innanzitutto è fallito l’obiettivo dichiarato di aumentare l’occupazione. L’effetto netto è stato nullo, con “un numero maggiore di lavoratori che è rimasto intrappolato in cicli di lavori temporanei poco retribuiti e fragili, con una probabilità sostanzialmente ridotta di passare da lavori temporanei a lavori permanenti”. La riforma, insomma, non ha aiutato l’ingresso nel mondo del lavoro verso la stabilizzazione ma ha prodotto precari che sono rimasti tali passando da un’impresa all’altra . “Questi effetti negativi – si legge – sono particolarmente pronunciati tra i giovani, il gruppo che avrebbe dovuto beneficiare maggiormente della riforma”.

L’analisi ha il pregio di ragionare in termini di interessi in conflitto di settori della società. Non c’è infatti nessuna decisione politica neutra. “Nonostante il suo effetto nullo sull’occupazione – si legge ancora nel paper – la riforma ha comunque generato sia vincitori che vinti”. Tra i primi, ci sono le imprese, che hanno visto i margini di profitto aumentare dell’8% a scapito dei salari dei lavoratori precari: quelli delle aziende più grosse li hanno visti scendere del 7%. I dati mostrano che i lavoratori a termine assunti subito dopo la riforma “hanno subito perdite immediate di reddito del 5%”, rispetto a colleghi pre-riforma, una perdita che hanno recuperato “solo 7 anni dopo” perché i lavoratori precari sono più deboli e sotto-rappresentati nei sindacati e negli accordi aziendali. I dati mostrano un altro aspetto perverso: questi lavoratori “sembrano occupati in lavori temporanei marginali che, nel periodo pre-riforma, avrebbero dovuto essere convertiti in posti a tempo indeterminato dal loro datore di lavoro. L’arrivo della riforma ha ridotto di quasi il 32% la probabilità delle imprese di convertire posti temporanei in permanenti (60% per i lavoratori di età pari o inferiore a 25 anni) e, di conseguenza, i lavoratori temporanei in carica sono stati riallocati in posti di lavoro di qualità inferiore”. “Questi effetti – spiega lo studio – sono simmetrici rispetto a quelli che mostrano come un aumento del salario minimo in Germania (una riforma che aumenta il costo del lavoro, contrariamente a quella italiana del 2001) abbia aiutato i lavoratori a trovare posti di lavoro di qualità superiore”.

L’altro effetto è stato invece un generale calo della produttività, specie tra le imprese più fragili a cui la riforma “ha consentito la creazione di posti di lavoro di bassa qualità che altrimenti non sarebbero esistiti”. Quelle più grosse ne hanno approfittato per aumentare il numero di precari “senza crescere dimensionalmente”.

Chi l’avrebbe mai detto?

 

Articolo di Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano del 28/11/2022




Prescrizione: nessuna pietà per i risparmiatori più smemorati

Ma è così grave che uno si scordi di soldi che ha? È giusto confiscarglieli come a un delinquente?

È la sorte di non pochissimi risparmiatori, dimenticatisi di un titolo di Stato, un buono fruttifero oppure altro, per distrazione o magari anche per spiacevoli deficit di lucidità. Lamenta la cosa l’Associazione Futurosereno di Torino e non si può darle torto, perché tutto ciò fa a pugni con la tutela del risparmio voluta dalla Costituzione Italiana (art. 47). Oltretutto sono situazioni più frequenti in persone inesperte, con pochi soldi da parte, cioè in cosiddetti soggetti deboli.

Titoli di Stato. 
A inizio Novecento nel Regno d’Italia la prescrizione della somma prestata allo Stato avveniva dopo 30 anni, ridotti progressivamente fino a soli cinque, tempo per nulla lunghissimo. Vedi chi a inizio 2000 ritrovò in casa Btp cartacei sei anni dopo la scadenza. Tutto perso, peggio per lui.

Buoni fruttiferi postali. 
I buoni cartacei passati dieci anni si prescrivono. Un buono di durata trentennale emesso nel 1980 non vale più nulla. In effetti, in passato le Poste rimborsarono ugualmente buoni prescritti, in particolare a termine. Ora non più. Dopo non più. Ma la prescrizione si giustifica nei rapporti privatistici, con lo Stato no. Pagare un debito resta comunque un dovere morale. A ciò si aggiunge che alcuni risparmiatori, rimasti con un pugno di mosche, sono poi finiti vittime di associazioni, ditte e avvocati disonesti che li hanno trascinati in cause perse, facendogli credere che avrebbero ottenuto la revoca della prescrizione.

Denaro contante. 
Poco grave quando va solo fuori circolazione, ma resta convertibile nelle nuove emissioni. Il guaio è quando perde ogni valore. In Germania banconote e monete in marchi non scadono mai, né si sono mai prescritti i dollari. In Italia già prima dell’euro diverse serie diventarono carta straccia. Poi ciò era previsto per tutte le lire dal 28 febbraio 2012. Ma Mario Monti, per un’operazione di cosmesi sul bilancio pubblico, proditoriamente ne anticipò l’annullamento al 6 dicembre 2011. Così fece fesso chi s’illudeva che lo Stato avrebbe rispettato la scadenza che aveva ufficialmente comunicato. La banca centrale tedesca, la Deutsche Bundesbank, avrebbe fatto fuoco e fiamme contro un simile provvedimento. La Banca d’Italia non batté ciglio.

Conti dormienti. 
A completare il brutto quadro si aggiunge la normativa voluta nel 2005 dall’allora ministro Giulio Tremonti, per cui lo Stato si accaparra di conti, titoli in deposito, crediti assicurativi ecc., se inattivi per oltre dieci anni. Né importa in questa sede per cosa poi li utilizzi. È il principio stesso che è discutibile. Per giunta fa specie che in Svizzera il tempo fosse di vent’anni e per giunta sia stato poi prolungato. Si ritiene che gli italiani siano più precisi, puntuali ecc. degli svizzeri?

Articolo di Beppe Scienza sul Fatto Quotidiano del 18/7/22

 




Banca d’Italia: poca chiarezza sul futuro dei colleghi

Nella giornata di giovedì scorso si è tenuta la prevista “Conferenza Quadriennale”, deputata a delineare le principali linee di intervento strategico elaborate dall’Amministrazione sugli aspetti organizzati e tecnologici, anche in relazione all’evoluzione delle attività istituzionali della Banca per il quadriennio 2022/25.

In proposito, invieremo nei prossimi giorni, alla Banca e a tutti i colleghi, le nostre puntuali osservazioni sul documento presentatoci dalla Delegazione aziendale.

Il Segretario Generale ha sottolineato in apertura dell’incontro la necessità, da parte della Banca, di intervenire sulla “asincronia” tra la presentazione del Piano strategico (peraltro fermo al 2019!) con valenza triennale e la Conferenza quadriennale, proponendo un allineamento delle due previsioni da studiare – intanto – tramite un tavolo tecnico.

Riguardo a questa possibilità abbiamo ribadito la necessità di non limitarsi ad agire sulle norme che riguardano questo tipo di informativa da rendere al Sindacato, ma di intervenire sull’intero complesso di norme sulle relazioni sindacali, convinti che relazioni sindacali “sane” siano la base necessaria per tutelare al meglio tutti i lavoratori.

Inoltre, secondo la Fisac CGIL, non solo è necessario allineare le tempistiche dei due “momenti” che attengono alla pianificazione strategica della Banca, ma – soprattutto – l’informativa da rendere ai Sindacati, più che un’analisi del “quanto finora fatto” dovrebbe essere un approfondimento di “ciò che la Banca ha intenzione di fare per gli anni a venire”, con indicazioni chiare relative agli impatti sul personale.

Infatti, con specifico riferimento ai contenuti del documento presentatoci, diamo atto ai colleghi impegnati nella sua stesura dello sforzo informativo che è stato fatto sui vari argomenti, ma – al contempo – rileviamo la mancanza o almeno l’incompletezza di elementi che aiuterebbero a far luce sulle ricadute che certe scelte aziendali avranno sul personale nei prossimi anni.

Peraltro, dai dati comunque presenti, si può ipotizzare che proseguirà la riduzione della compagine, a causa dei pensionamenti prevedibili a fronte dei quali non si evidenziano nel documento adeguati livelli di assunzione di nuovi colleghi.

Il fenomeno ci pare interesserà soprattutto la rete territoriale, nonostante le solite dichiarazioni di intento circa il suo potenziamento.

La questione ci preoccupa non poco ed è per questo che denunciamo con forza, da tempo, che se non si cambia rotta, la rete è destinata a “morire” per inedia: è assolutamente necessario, lo abbiamo ribadito, rivedere con un netto rialzo la dinamica in entrata di nuovi colleghi, in particolare nell’Area operativa.

Chiudiamo questo primo essenziale resoconto informando i colleghi che la Delegazione aziendale ha voluto sottolineare che se fallisse l’ennesimo tentativo, in corso d’opera, di riformare la Carriera operativa, la Banca attiverà tutte le procedure organizzative possibili per arrivare ad una più omogenea struttura del personale.

La Fisac CGIL ritiene questa affermazione estremamente preoccupante, oltre che normativamente senza fondamento, in quanto anche se gli interventi organizzativi sono di competenza della Banca, le ricadute sul personale sono, norme alla mano, materia da trattare con i Sindacati.

Roma, 20 giugno 2022

La Segreteria Nazionale




Bper, ok Bce all’acquisto di Carige per 1 euro.

La banca ha avuto la luce verde per rilevare dal Fitd il gruppo genovese, ora si attendono Bankitalia e Antitrust. In arrivo la dote di 530 milioni. Closing entro la prima decade di giugno, in contemporanea presentazione del nuovo piano, poi scatterà l’opa a luglio. Equita stima aumento dell’utile per azione a doppia cifra | A luglio l’opa Bper su Carige


Bper Banca ha ricevuto dalla Bce l’autorizzazione all’acquisizione di Banca Carige e, indiretto, delle sue controllate Banca Monte di Lucca e Banca Cesare Ponti. Come scrive MF-Milano Finanza, oltre all’ok della Bce sono in arrivo a breve anche le luci verdi di Bankitalia e Antitrust. Nasce così il quarto polo bancario italiano con oltre 155 miliardi di euro di attivi (22 miliardi di Carige), oltre cinque milioni di clienti (800 mila Carige) e 2.100 filiali (380 circa di Carige), che supererà Mps e si porrà sullo stesso livello di Banco Bpm, seguendo a distanza Unicredit e Intesa Sanpaolo.


Contributo del Fitd di 530 milioni

La banca guidata dall’ad Piero Montani aveva presentato la relativa istanza alla Banca centrale europea dopo la firma, il 14 febbraio scorso, del contratto di acquisizione della partecipazione di circa l’80% del capitale sociale ordinario di Carige detenuta dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) e dallo Schema volontario di intervento. Una volta verificato l’avveramento di tutte le condizioni sospensive previste dal contratto, si potrà procedere al closing dell’operazione, mediante il trasferimento della quota Carige detenuta dai soci venditori a favore di Bper Banca, al corrispettivo di 1 euro e previo versamento in conto capitale, da parte del Fitd, in favore di Carige di un contributo pari a 530 milioni.

 

Closing a inizio giugno

Si prevede che il closing possa perfezionarsi entro la prima decade di giugno, il che consentirà a Bper Banca di beneficiare della conversione delle deferred tax assets di Carige in crediti d’imposta. L’acquisizione della quota di controllo di Carige da parte di Bper Banca comporterà, per quest’ultima, l’obbligo di promuovere, un’opa totalitaria sulle azioni Carige non detenute da Bper banca. Come già annunciato al mercato, l’opa verrà promossa ad un prezzo di 0,80 euro per ciascuna azione ordinaria.

Piano in arrivo

Sempre MF-Milano Finanza scrive che l’opa sul flottante dovrebbe partire a inizio luglio. Intanto il ceo sta apportando gli ultimi ritocchi al piano industriale che sarà presentato alla comunità finanziaria il prossimo 10 giugno. “Si conferma la forte valenza strategica ed industriale dell’operazione che consentirà al gruppo Bper, valorizzando le risorse di Carige, di crescere in territori ad oggi limitatamente presidiati, consolidando il proprio posizionamento competitivo e rafforzando la prospettiva di creazione di valore per i propri stakeholder”, spiega Bper in una nota.

Le stime di Equita

“Sulla base delle nostre stime e in attesa di avere maggiori dettagli con il prossimo piano industriale, riteniamo che la ricapitalizzazione in Carige da parte del Fitd per 530 milioni e la conversione di Dta per 320 milioni, post effetto fiscale, dovrebbero permettere di coprire i costi di ristrutturazione e integrazione di Carige, con la combined entity che atterrerebbe con un Cet 1 in area 13% e un Npe ratio minore del 5%”, afferma Equita confermando il giudizio hold e il target price di 2,2 euro. La sim inoltre stima “sinergie in area 100 milioni, principalmente da costo e funding, mentre sul lato dei ricavi il contributo dovrebbe derivare da una più forte presa commerciale e dall’integrazione delle fabbriche prodotto. Di conseguenza, vediamo spazio per un aumento dell’utile per azione a doppia cifra già al 2023 e potenzialmente in incremento negli anni successivi”. Il titolo Bper sale dello 0,75% a 1,885 euro.

 

Fonte: Milano Finanza




MPS & c. morti di freddo: i crac bancari senza padri

In fumo 35 mld, ma nessun colpevole. Sollievo per Draghi e per Bankitalia. Che, come con Etruria e le altre, non vide nulla


Il delitto perfetto? In Italia esiste, paga moltissimo (ma ad altri costa altrettanto), resta quasi sempre senza colpevoli. È il crac bancario. Lo attesta l’ultima sentenza della Corte di Appello di Milano, che l’altroieri ha ribaltato la sentenza di primo grado del novembre 2019 e ha assolto i 13 imputati per i derivati Alexandria e Santorini, il prestito ibrido Fresh e la cartolarizzazione Chianti Classico. I reati ipotizzati erano manipolazione di mercato, falso in bilancio e prospetto, ostacolo alla vigilanza. Secondo l’accusa, le operazioni sarebbero servite per occultare nei conti del Monte le perdite causate dall’acquisizione di AntonVeneta del 2008.
Ma per la corte d’appello invece “il fatto non sussiste”: per l’ex presidente Giuseppe Mussari e l’ex dg Antonio Vigni tre capi d’imputazione sono prescritti, a Deutsche Bank e Nomura sono state revocate le confische per oltre 150 milioni. In attesa delle motivazioni e dell’eventuale timbro della Cassazione, molte domande restano senza risposte certe.
Una su tutte: il Monte dei Paschi di Siena è dunque “morto di freddo”?
Forse, ma solo forse, è proprio andata così.

Il collasso di Siena è costato oltre 32 miliardi, ai quali secondo la banca stessa nei prossimi mesi dovranno aggiungersene altri 2 e mezzo (almeno) per ricapitalizzarla ancora. A salvare il Monte non è bastato piazzare aumenti di capitale a ripetizione: sono andati bruciati quello da 5 miliardi del 2008, da 2 del 2011, da 2,5 del 2012, da 5 del 2014 e da 3 del 2015. Anche la “ricapitalizzazione prudenziale” del 10 agosto 2017 è ormai scialacquata, se la banca (che ormai in Borsa capitalizza appena 726 milioni) reclama a breve un’ulteriore iniezione di capitale da almeno 2,5 miliardi.
A rimetterci non sono stati solo gli azionisti privati ma anche il Tesoro (dunque i contribuenti), primo azionista con il 64,23%, che su 6,9 miliardi investiti ne sta perdendo 5,74 (quasi il 90%) e ora dovrà rimettere mano al portafoglio. In fumo anche le obbligazioni subordinate: da quelle degli investitori istituzionali al bond retail da oltre 2,16 miliardi piazzato a 37 mila piccoli risparmiatori, spesso anziani, a tagli da mille euro durante l’operazione del 2008 per acquistare AntonVeneta.
Era ben prima che esistesse la direttiva europea sul bail in e agli albori del recepimento in Italia della direttiva Mifid sulla tutela dei risparmiatori. Eppure questa devastante distruzione di valore non ha un responsabile. Gli imputati sono stati assolti più volte dall’accusa di ostacolo alla Vigilanza di Banca d’Italia. Non hanno commesso falso in bilancio o prospetto né, tantomeno, manipolazione di mercato. Con Mussari, Vigni e colleghi assolti, la condanna di primo grado dei loro successori, l’ex presidente Alessandro Profumo e l’ex ad Fabrizio Viola potrebbe essere ribaltata in appello. In attesa delle motivazioni della sentenza, la crisi dell’istituto per la legge è stata causata (e non aggravata dopo la mala gestio) dalla grande crisi finanziaria globale innescata nel 2007 dai mutui subprime Usa e dalla recessione che ne derivò. Nessun reato nelle scelte disastrose compiute.

Il falò delle vanità creditizie italiane però non si è limitato a incenerire Rocca Salimbeni. Per restare agli istituti maggiori, negli ultimi due decenni analoghi incendi hanno colpito BiPop-Carire, Italease, Carige, Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara, CariChieti, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Popolare di Bari. Sinora ben poche son state le condanne per quei crac, nessuna delle quali è definitiva, mentre tutte le accuse paiono indirizzate verso la prescrizione. Parrebbe dunque essersi trattato di un incredibile filotto di rarissimi casi di autocombustione bancaria. D’altronde la crisi bancaria, sempre negata dall’Abi, fu poi dichiarata “superata”: strano esempio di problema inesistente e poi risolto.
Solo qualche mela marcia”, ebbe a dire il presidente Antonio Patuelli a chi gli chiedeva ragguagli sulle responsabilità nei dissesti degli istituti. Affermazione giustizialista, letta col senno di oggi, perché ormai sono sparite pure le mele marce.

Ma la sentenza d’appello di Milano sul crac Mps non è stata accolta con gioia solo dai 13 imputati assolti. A tirare un sospiro di sollievo c’è anche Banca d’Italia la quale, regnante il Governatore Mario Draghi, diede via libera all’acquisizione di AntonVeneta: paradossale esempio di controllore che viene graziato per non aver controllato e tuttavia potrà ora affermare di aver sempre vigilato con attenzione.
In questa galleria dell’assurdo, di sicuro sul campo restano solo le vittime. Tra queste la Procura di Milano, sconfitta in appello dopo indagini e due processi durati un decennio. C’è, soprattutto, la via crucis di famiglie e piccole imprese: alla faccia dell’articolo 47 della Costituzione (“La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”), da inizio secolo i collassi bancari sono costati oltre 72 miliardi a quasi un milione di azionisti e bondisti subordinati. Nessuna mala gestio, la vigilanza non ha colpa e non è stata neppure ostacolata. Chissà però se la fiducia, unico vero carburante del credito, tornerà mai a riprendersi.

 

Articolo di Nicola Borzi su Il Fatto Quotidiano dell’8/5/2022