Assicurazioni e banche: Orwell lo aveva previsto


Un libro che mi ha affascinato quando ero ragazzo è stato 1984 di Orwell. Io l’ho trovato geniale, perché trovavo geniale questa idea di un regime perfetto, capace di entrare nelle menti delle persone e convincerle che non esisteva un’alternativa, che quello era il miglior mondo possibile. Geniale però, insomma, mi sembrava anche poco realistico. Una situazione che non poteva esistere nella realtà.
Beh, mi sbagliavo.

Di recente mi sono ritornati in mente tre slogan che erano incisi sulla facciata del “Ministero Della Verità” in 1984. Gli slogan erano:

  • La guerra è pace

  • L’ignoranza è forza

  • La libertà è schiavitù

Ora, mi soffermerei a parlare di tutti e tre e non c’è tempo. In particolare mi piacerebbe parlare di “La guerra è pace”. Mi soffermo invece sullo slogan “La libertà è schiavitù”.

In effetti questa cosa di essere liberi… cos’è st’idea che magari pensate con la vostra testa, poi vi fate cattivi pensieri, non sapete come organizzarvi? No, è molto meglio che qualcun’altro vi dica quello che dovete fare, pensi al posto vostro e vi liberi dal pensiero di organizzarvi la giornata: ve lo diciamo noi quello che dovete fare!

Beh, se ci pensate il nostro mondo del lavoro è permeato da questa mentalità. Soprattutto si ribalta sulle nostre aziende, su banche e assicurazioni.
Il lavoratore, secondo la visione del nostro capitalismo, dev’essere a disposizione 24 ore al giorno, non deve distrarsi con pensieri inutili tipo la famiglia, i figli, le amicizie: tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. No, lui deve produrre. Deve produrre, deve ringraziare il “donatore di lavoro” perché generosamente gli elargisce uno stipendio che potrebbe anche non dargli, perché è un privilegio lavorare per lui. Non dev’essere libero. Il lavoratore dev’essere infelice.

Ora, questa storia dell’infelicità, se voi ci pensate, non è così secondaria perché nelle nostra aziende – banche e assicurazioni – è diventato il carburante che le aziende usano per garantirsi la produzione.
Io non devo raccontarvi qual è la situazione di disagio in cui molti dei nostri lavoratori vivono le loro giornate. Ma questo disagio ormai è creato in modo scientifico. L’infelicità e il disagio servono per spingere i lavoratori a vendere. E la cosa più brutta, quando io parlo con i lavoratori è – intanto la paura (“oddio, che mi danno se non vendo?”) – ma la rassegnazione, e qui ci colleghiamo ad Orwell: non può esistere una realtà diversa da questa.

Ecco, allora io penso che una delle nostre priorità (ce ne abbiamo tante) è quella di ridare fiducia ai lavoratori, fargli capire che la loro vita non è questa, dev’essere degna di essere vissuta.
Ed è difficile, io lo so che è difficile. Io per primo ho giornate intere in cui mi sento sconfortato perché dico: “Sì ma non cambiamo mai niente, io da solo sono troppo piccolo”. Ma non dobbiamo arrenderci. Noi dobbiamo, intanto, parlare con i lavoratori. Le assemblee: ne facciamo troppo poche. La commissione sulle politiche commerciali è stata un passo avanti, ma noi dobbiamo renderla esigibile prevedendo delle sanzioni, rincuorando i lavoratori, spingendoli a far emergere tutte le violenze psicologiche che subiscono, ma dall’altro lato garantendogli la tutela.
Non è una cosa semplice ma dobbiamo farlo, anche perché io una cosa non riesco a capire: dove sta scritto che chi lavora debba essere infelice? Perché dobbiamo rassegnarci a questa narrazione?

E sempre nella logica del padrone che sa quello che fa e fa la cosa giusta, s’inquadra il fenomeno delle filiali che chiudono, specialmente nei territori meno floridi.
Anche qua non entro nel merito perché tanto conosciamo benissimo l’argomento. Dico che nei territori delle Regioni che io rappresento, Abruzzo e Molise, i dati sono drammatici: c’è una punta in Molise di 8 comuni su 10 – oltre 8 comuni su 10 – senza neanche una banca.
Ed è un fenomeno sul quale noi come Abruzzo e Molise abbiamo cercato in tutti i modi di attirare l’attenzione, di smuovere i politici locali, con scarsissimi risultati: i politici non pestano i piedi alle banche. E questo ha comportato che le banche siano diventate secondo me il perfetto simbolo dell’azienda nel nostro capitalismo. Quindi aziende che quando guadagnano sono private e quindi “non ci rompete le scatole, siamo privati, i soldi sono nostri”, quando perdono diventano servizio essenziali quindi la perdita non è più privata, è pubblica e quindi i soldi ce li rimettiamo noi.

Anche qui io faccio una domanda: ma con tutti i soldi che le banche hanno preso direttamente o indirettamente (perché quelle salvate e quelle che le hanno acquisite), ma perché la politica non può pretendere che in cambio delle decine di miliardi si impegnino a garantire un servizio minimo, soprattutto nei territori più disagiati?
E anche su questo noi dovremmo riuscire a fare una comunicazione soprattutto all’esterno, perché è un fenomeno che non viene percepito, spiegare che le banche che chiudono sono un impoverimento del territorio, spiegare che c’è una parte del nostro Paese che sta morendo, soprattutto le aree interne – e in Abruzzo e Molise ne sappiamo qualcosa – nel silenzio della politica e anche con un apporto fondamentale delle banche; è un lavoro che dobbiamo provare a fare.

Vado a concludere: due parole sulla Riscossione. Il totale delle cartelle che non si riescono a riscuotere, accumulate nella Riscossione, supera i 1.100 miliardi di euro, cioè la metà del debito pubblico italiano. Perché si accumulano? Si accumulano perché il personale non è sufficiente.
Allora, mai come in questo caso un problema sembra avere una soluzione a portata di mano: assumete!
Assumete, gli stipendi si ripagheranno ampiamente, si recuperano soldi ma ancora una volta il padrone, quello che sa quello che è giusto per noi non assume, perché in questo modo potrà dire che ci sono troppe cartelle che non si recuperano e la cosa migliore è azzerarle: così guadagnano credito elettorale e fanno un regalo agli evasori.

Ecco, diciamo che ce ne sono tante di “realtà” che noi dovremmo sovvertire, e dovremo essere bravi. Dobbiamo impegnarci a raccontare una storia che non è quella che viene raccontata abitualmente. Non siamo bravi come Orwell, ma dobbiamo provarci.

 

Intervento del Segretario Regionale Fisac Abruzzo Molise Luca Copersini al X Congresso Nazionale Fisac

 

Guarda il video

 

image_pdfScarica PDF di questo articoloimage_printStampa articolo