Tutti dovremmo essere d’accordo sul fatto che, in generale, le cose non hanno valore se non in quanto sono utili. Eppure, ci sono cose che pur avendo un grande valore per l’uomo, in realtà non ne hanno affatto; ad esempio, la cosa più importante per l’uomo è l’aria che respiriamo; tuttavia l’aria non ha nessun valore perché dappertutto ci è offerta gratuitamente. Altro esempio, la luce del giorno è ancora una delle cose più vantaggiose all’uomo, ma anche essa per noi non ha nessun valore, perché viene acquisita gratuitamente. Al contrario ci sono cose che, pur essendo di scarsa utilità per l’esistenza dell’uomo o per usi industriali, presentano un valore economico notevole come, ad esempio, i diamanti. Tra questi opposti, vi sono gli innumerevoli beni che fanno parte della nostra vita sociale ed economica quotidiana.
A scuola tutti hanno imparato la regola universalmente accettata sulla proprietà che la identifica come il diritto di godere e di disporre di quelle cose che ci appartengono. Il sentimento della proprietà è talmente naturale per l’uomo che si trova realizzato in esso, qualunque sia lo stato della società in cui egli vive. Nessuno può essere contrario sul fatto che niente appartiene di più all’uomo se non il frutto del suo lavoro; per questo l’uomo è determinato a sopportare la fatica derivante dal lavoro, per poter ottenere dei beni su cui è lecito e giusto esercitare la facoltà di disporne a proprio piacimento. È evidente che l’istinto della proprietà si osserva anche negli animali: per esempio l’uccello che difende il proprio nido, o la volpe che non vuole permettere di approssimarsi alla sua tana. Addirittura potremmo dire che gli animali hanno anche una certa idea di ciò che appartiene all’uomo: pensiamo all’istinto del cane lasciato da solo a difendere la casa del padrone nel corso della notte.
Il sentimento della proprietà si manifesta nel fanciullo molto prima che l’educazione gli abbia fatto conoscere il senso del valore o gli abbia fatto distinguere il senso delle parole. Nell’uomo primitivo si considerava la proprietà, sia dell’animale ucciso per cibarsi della carne e per coprirsi con la pelle di esso, sia dell’arco e delle frecce prodotto con le proprie mani. Questo per dire che la proprietà esiste dunque dappertutto, perché è legato alla natura dell’uomo, sia nell’infanzia della società, come nella più progredita civiltà.
La sua identificazione ha ovviamente subito una continua evoluzione: il selvaggio portava indosso l’arco e le sue frecce come anche le pelli degli animali uccisi; il possesso materiale indicava presso di lui la proprietà e, dovunque si muovesse, tutti vedevano che quelle cose gli appartenevano. Poi, quando fabbricava una capanna, pure questa era di sua proprietà benché non potesse portarla con sé; inoltre, quando cominciò a coltivare il terreno per ottenere, ad esempio, una raccolta di patate, anche il campo era riconosciuto come appartenente a lui che delle volte, anche per difenderlo, usava circondarlo con una siepe o con dei sassi ammucchiati.
Ora, tutto era facile, in quanto l’uomo allo stato selvaggio era in piccolo numero e ognuno conosceva i propri vicini e le loro cose. Successivamente, presso i popoli via via civilizzati, il numero dei possessori e la varietà delle cose possedute hanno reso il diritto di proprietà molto più complicato. Tuttavia, anche oggi, vedendo su di noi dei vestiti o delle collane si sa che ci appartengono in qualche modo. Un orologio o una borsa si presume che siano di proprietà di chi li porta, tutti riconoscono questa proprietà e se una persona decide di prenderla commette un attentato contro l’altrui proprietà e tutti lo individuano come un ladro; ma visto che non possiamo portare tutto addosso – ad esempio, io non posso portare con me il letto, i mobili di casa e tutto ciò che resta nella casa da noi abitata – si presume sempre che tutti i beni presenti nella casa di residenza siano di proprietà dell’inquilino e, se qualcheduno tenta di portarli via per forza, la polizia ha il dovere di intervenire per difendere il diritto di proprietà.
Diversamente si è fatto per gestire i beni che non possono essere mossi o trasportati come i beni immobili, ossia le case e i terreni; qui è la legge che si interpone e con l’utilizzo di diversi atti scritti di proprietà e di registri pubblici rende certo per tutti che la casa o il campo acquisiti sono veramente di proprietà del compratore (avente causa). E’ evidente che la società civile ha reso un grosso servizio agli uomini, prevedendo leggi e magistrati, per constatare la proprietà di ciascuno, che spesso si manifesta in modalità complessa (ad esempio, consideriamo la comproprietà tra tre o quattro persone) o presenta limitazioni varie (pensiamo alla ipoteca di fondi dove il creditore del proprietario vede riconosciuti dei diritti sul fondo per il credito). Contemporaneamente si è discusso sulle ragioni giustificatrici della proprietà con molte teorie.
Possiamo ricordarne alcune, come la teoria del diritto naturale, una teoria classica che sostiene che il diritto di proprietà trova la sua base nel diritto di natura, ma questa teoria ci porta giustamente a pensare che tutti dovrebbero essere dotati di un minimo di proprietà sufficiente a soddisfare le necessità della vita.
Importante è la teoria del lavoro, dove possiamo definire la proprietà come il diritto dell’uomo sul prodotto del proprio lavoro. Ma, anche qui abbiamo qualche problema quando oggetto della proprietà sono cose ereditate o derivanti dal lavoro espletato da uomini alle dipendenze.
Una terza teoria che possiamo citare è quella detta dell’utilità sociale, accettata dal capitalismo, secondo la quale la proprietà individuale è uno stimolo per il singolo ad utilizzare la cosa concorrendo così al benessere della collettività. Qui, il detentore della cosa non è un semplice proprietario, ma un amministratore che dovrebbe gestire la cosa nell’interesse della collettività.
Nella storia, la proprietà ha subito una evoluzione anche nei riguardi dell’oggetto o del soggetto o della forma di godimento. Agli albori, oggetto della proprietà furono non solo gli oggetti inanimati, ma anche le persone rese schiave dopo guerre o da convenzioni sociali, come le donne, che ancora oggi, in molte parti del mondo, sono private delle principali libertà civili. Per fortuna, queste disgustose forme di proprietà sono state ripudiate mano a mano dai vari popoli con l’avanzare del processo di civilizzazione e la proprietà è stata limitata solo alle cose, in particolare quelle strettamente personali, come i vestiti, i gioielli, i cavalli, o le armi, che generalmente dopo la morte del proprietario venivano sepolte nella stessa tomba. Successivamente, si è formata la proprietà di tipo familiare, che si è estesa sulla casa e che comprendeva il focolare ed un cortile in cui si racchiudeva la storia degli antenati. Con l’affermarsi delle culture e delle società basate sul diritto scritto nascono le moderne forme di proprietà, che oggi sono in prima posizione per la rilevanza economica; in sostanza, parliamo della proprietà mobiliare incorporata in titoli all’origine solo cartacei (le varie specie di titoli di credito e di capitale hanno preso una importanza economica primaria sostituendosi alla storica ricchezza rappresentata dalla semplice proprietà immobiliare) e della proprietà intellettuale (diritti d’autore, brevetti industriali, ecc.).
Soggetto del diritto di proprietà in origine era il solo sovrano, che poteva possedere dei beni, ma successivamente il diritto di proprietà passò ai capi di famiglia, e in un secondo tempo alle persone fisiche per poi, arrivare alle persone morali; infatti, in molte civiltà, si riconobbe il diritto di possedere e di succedere agli Dei (ovviamente, tutto a vantaggio dei loro ministri sulla terra), per poi estendere agli Stati e agli enti pubblici minori la stessa facoltà. In una susseguente evoluzione anche le associazioni private venivano riconosciute in persone giuridiche capaci di detenere beni in proprietà, anche quando venivano create per realizzare delle opere di natura filantropica, artistica, scientifica o delle idee determinate (fondazioni).
La tendenza moderna nei confronti della proprietà privata ha visto l’affermarsi delle ideologie e delle dottrine politiche, con i comunisti, che ebbero il coraggio di affermare che la proprietà privata doveva essere abolita (su tutti i beni o su alcuni, che costituivano i cosiddetti mezzi di produzione, lasciando ai privati un ambito confinato dalle esigenze collettive, come nel caso dell’Urss che, come noto, con l’articolo 52 del codice civile sovietico, fin dal 1926, accanto alla proprietà collettiva e cooperativa ammetteva tranquillamente la proprietà privata) o con i cattolici che, sin dalla fine del XIX secolo, affermarono, tramite la massima autorità (il Pontefice), il suo carattere sociale (nonché, la necessità di estenderla di fatto a tutti, anche ai lavoratori, che solo con un livello di salario adeguato potevano aspirare a possedere i beni essenziali alla vita civile).
Ora, si commette un grave errore credendo che il capitale consista solamente nelle grandi ricchezze: infatti, il capitale lo troviamo anche nelle classi meno favorite in piccola entità, ma capaci nel loro insieme di costituire una parte importante della pubblica ricchezza. Il capitale non è costituito solo dalle somme di denaro depositate nelle banche o nei materassi (questa non è che una parte quasi impercettibile del patrimonio totale): il vero patrimonio consiste in tutte le case, gli arredi, gli elettrodomestici, gli ornamenti, i telefoni cellulari, le automotive, i campi, gli orti, le merci nei negozi, le materie prime nelle industrie eccetera, tutta una varietà di beni che forma un capitale di immensa importanza per la nazione. A questo punto, qualcuno arriva a sostenere che noi tutti siamo capitalisti, e di conseguenza sarebbe giusto vivere nel nostro sistema economico basato sul capitalismo, visto che il capitale è aperto a tutti. Ma crediamo di non sbagliare se riteniamo di non potere accettare questa banale semplificazione, tanto cara ai sostenitori del capitalismo moderno. Noi riteniamo che non possiamo confondere la proprietà con il capitalismo. Quando parliamo di capitalisti, noi vogliamo indicare coloro che possiedono maggiori capitali rispetto agli altri e che utilizzano detti capitali come strumento di sfruttamento del lavoro delle masse popolari, di coloro che per vivere possono contare solo sulla forza delle proprie braccia e della propria mente, di quelli che dispongono o possono disporre solo del prodotto del proprio lavoro.
Grazie al lavoro anteriormente svolto oggi possediamo, a livello collettivo, una infinità di beni, come le strade, i ponti, i canali, i porti, i luoghi di culto, le scuole, i palazzetti dello sport, e tanti pubblici edifici che costituiscono il vero capitale materiale della nazione. La ricchezza della nazione non può essere misurata come somma del patrimonio privato di ciascuno dei suoi membri preso isolatamente ma, al contrario, il patrimonio dello Stato deve essere valutato sui beni pubblici, che sono i soli ad esprimere il benessere di un paese. Ovviamente, la ricchezza, come somma dei beni comuni che la nazione possiede, sarà maggiore quando è più alto il prodotto del lavoro che non è stato consumato nei secoli precedenti in modo sterile, ma impiegato in grandi lavori pubblici. I beni pubblici aumentano la ricchezza di tutti i suoi membri perché facilitano il lavoro delle generazioni future (pensiamo alle scuole e alle strutture sanitarie) nella convinzione che l’aumento di questo capitale sia un beneficio per il paese giacché tutti gli abitanti sono chiamati ad approfittarne; la stessa cosa mi sembra non possa dirsi per il capitale posseduto dai singoli individui.
Il capitalista pensa ad ammassare ricchezza senza curarsi degli altri ,con l’alibi che egli non può fare il bene proprio senza fare il bene degli altri in quanto non può arricchire senza rendere all’esterno i servigi del suo capitale perché, dicono i capitalisti, che mentre essi cercano di arricchir, servono la società impiegando in modo industrioso la loro ricchezza (ovviamente, ci si dimentica che se, per una causa o per un’altra, un capitalista va in rovina, la sua rovina porta con sé la disgrazia di coloro ai quali il suo capitale, spesso preso a prestito o sovvenzionato dallo Stato, procurava lavoro).
Il capitale ovviamente si presenta sotto varie forme. Abbiamo il capitale immobiliare, che è quello investito in modo stabile nei terreni, nelle industrie, negli edifici, nei miglioramenti del suolo coltivato; poi il capitale mobiliare, che ha una sua propria autonomia ed è distinto dal territorio è perciò dislocabile come le macchine, le materie prime e sussidiarie. Ora, possiamo dire che il capitale immobiliare è suscettibile di una produzione pluriennale che contribuisce all’espansione del benessere delle Nazioni e che la ricchezza mobiliare è stata la fortuna dei nostri comuni medievali, che con essa hanno raggiunto la loro potenza economica e militare. A questa ultima forma di capitale sono da attribuirsi le profonde trasformazioni subite dall’economia moderna, a partire dalla rivoluzione francese ad oggi.
Il capitale fisso partecipa alla produzione in modo continuo servendo a più cicli produttivi, mentre il capitale circolante partecipa alla produzione in modo istantaneo, in quanto serve solo un ciclo produttivo; pensiamo, ad esempio, alla macchina che procede alla tessitura di una serie di panni fino al suo completo logorio economico come capitale fisso ed ad una balla di cotone che serve a fabbricare una singola pezza come capitale circolare. Tale distinzione ha un’importanza pratica per il computo del valore dei prodotti, in quanto se si tratta di capitale circolante il valore di questo rientra completamente nel nuovo prodotto, mentre se si tratta di capitale fisso, il suo valore concorre solo in parte nel prodotto attraverso la quota di ammortamento. La distinzione ha importanza pratica per stabilire il progresso industriale attraverso il rapporto tra l’aumento assoluto del capitale circolante con la dimensione relativa del capitale fisso: ad esempio, se con una macchina si realizzano 100 pezzi di un prodotto noi diciamo che si è ottenuto un progresso industriale ed un incremento di ricchezza quando con un’altra macchina più perfetta si ottengono nella stessa unità di tempo 200 pezzi di prodotto.
Il capitale, essendo ricchezza prodotta, non può derivare che dall’industria attraverso la produzione sistematica senza la quale manca la capitalizzazione: infatti, i popoli fortemente industriali sono quelli dotati di una enorme quantità di capitale in quanto l’industria, più che l’agricoltura, consente un largo margine di profitti attraverso lo sfruttamento dei lavoratori. Ora, nessuna ricchezza può essere prodotta senza il sussidio di altra ricchezza preesistente. Il capitale è un fattore derivato artificiale prodotto col simultaneo concorso di altri due fattori: la natura ed il lavoro.
Il capitale rende possibile la conservazione e la produttività del fattore natura, ad esempio, quando restituisce al terreno gli elementi chimici per evitare il suo progressivo esaurimento. Esso poi, ha la funzione di potenziare la produzione dell’attività industriale con le macchine e la tecnologia: di conseguenza, quando apro il processo produttivo per la produzione di abiti che indossiamo, vediamo coesistere diverse fasi produttive, dalla raccolta del cotone, al trasporto, alla sua filatura, alla sua tessitura, in un unico processo produttivo con notevole vantaggio della produzione.
A questo punto, chiediamoci qual è l’utilità dell’accumulazione delle ricchezze, se si deve spendere di più oppure si deve ammassare; ovviamente se ognuno spende si rimane come si è e se tutti accumulano nessuno guadagna. Ora, se si spende di più, maggiore è il numero di godimenti che ci si procura. D’altra parte se si risparmia, escludendo il caso dell’avaro che ammucchia le sue ricchezze lasciandole improduttive, si mettono le economie in banca e questi capitali così raccolti finiscono ai capitalisti che li impiegano a far lavorare, ma di fatto questo avviene necessariamente, perché i capitalisti non possono procurarsi godimenti in altro modo, in quanto tutto quello che accumulano deriva dal prodotto del lavoro. In sostanza, il capitalista è obbligato a far lavorare il popolo per far fruttare il proprio capitale, per conservarlo e per farlo crescere. Ora, il capitale impiegato a pagare il salario torna sempre al capitalista. Per comprendere citiamo un esempio: il capitale consumato a comprare del pane, della carne, del vino o dei vestiti ritorna al capitalista, che lo reinveste per far crescere nuovi raccolti, per fare altri abiti, altre scarpe, eccetera, in pratica, per sostituire i beni che sono stati usati. Quindi, il capitale impiegato a pagare il salario ai lavoratori dipendenti è consumato solo apparentemente, ma, in realtà non è distrutto, come non lo è il singolo seme di grano quando viene messo sottoterra e restituisce 20 volte in più. Il lavoratore, poi, che riceve un salario, ne riproduce col proprio lavoro un maggiore valore a vantaggio del capitale. In questo modo l’impiego del capitale diventa per il capitalista proprietario una sorgente di entrata, perché il lavoratore può produrre più del valore del proprio lavoro. Pensiamo all’utilità che ne deriverebbe se dalla parte del capitalista ci fosse il popolo consumatore, il quale acquisirebbe il vantaggio del capitalista facendo lavorare le persone attraverso il profitto conseguito, dando così lavoro a quelli che vivono col lavoro delle proprie mani e della propria testa.
L’azienda pubblica attraverso l’uso del capitale diventa uno strumento di benessere per mezzo del lavoro che può offrire al povero disoccupato, in una benefica legge che realizza l’interesse di tutti. Ma molti politici, oggi più di ieri, continuano a sostenere che il privato è meglio del pubblico ignorando la sorte, ad esempio, delle numerosissime banche italiane fallite o collassate dopo la legge sulla privatizzazione bancaria (1992).
Spesso ci si dimentica che l’interesse del consumatore è sempre in armonia con l’interesse generale, ma l’interesse del produttore non è d’accordo con questi interessi generali se non quando è basato sopra un aumento di ricchezza attraverso, ad esempio, innovazioni che permettono di diminuire le spese di produzione con conseguente riduzione dei prezzi imposto dalla concorrenza che regola il mercato. Possiamo concludere affermando l’idea che il capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale (nelle mani di pochi) con la tendenza a trasformarsi, oltre che in forza economica, in forza politica, mediante la conquista del potere pubblico e la confisca dei beni pubblici. Il capitalismo è così una degenerazione del capitale che deve essere ostacolato mediante la nazionalizzazione delle imprese e la socializzazione dei principali rami industriali, tramite anche il rafforzamento dell’organizzazione sindacale dei lavoratori e attraverso, infine, una estesa legislazione sociale a favore della classe lavoratrice, con la quale questa si possa realmente difendere dagli abusi del capitalismo. Ovviamente, siamo convinti che il sistema migliore per arginare gli abusi del capitalismo sia quello di elevare il livello dei salari ai lavoratori in modo da consentire al lavoratore onesto, non solo di provvedere al mantenimento suo e della sua famiglia, ma anche di accumulare un progressivo risparmio per conseguire la sua indipendenza economica e quindi affermare la sua libertà.
Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Cgil Chieti