Congresso Gruppo Generali: i nuovi eletti in rappresentanza di Abruzzo e Molise

Si è concluso il congresso Fisac Cgil del Gruppo Generali, svoltosi a Riccione dal 22 al 25 ottobre.

Siamo lieti di annunciare l’elezione di:

  • Claudio Di Berardino nel Direttivo Gruppo Generali
  • Antonello Polidoro nel Direttivo Generali Italia
  • Laura Di Carlo e Marco Ottombrino nel Direttivo Alleanza Assicurazioni

Ci congratuliamo per questo importante risultato e ringraziamo tutti gli iscritti e le iscritte per la numerosa partecipazione alle assemblee, segno di forte impegno e appartenenza.

Comunichiamo inoltre l’elezione di Daniela Cernaz a Coordinatrice Nazionale del Gruppo Generali, di Elisabetta Masciarelli a Coordinatrice Nazionale Generali Italia e di Massimiliano Murtas a Coordinatore Nazionale di Alleanza Assicurazioni.

E’ motivo d’orgoglio poter contare su tre rappresentanti abruzzesi ed una molisana all’interno dei Direttivi, i quali hanno il compito di guidare le relazioni con i vertici aziendali e tutelare le condizioni economiche e contrattuali dei lavoratori.

A Claudio, Antonello, Laura e Marco auguriamo un proficuo lavoro e un mandato ricco di successi a beneficio di tutti i lavoratori

 

Segreteria Regionale FIsac Abruzzo Molise




Firmato rinnovo del CIA in Banca del Fucino

E’ stata siglata dalle OO.SS. Fisac Cgil e Uilca l’ipotesi di rinnovo del Contratto Integrativo Aziendale in Banca del Fucino.

Un risultato raggiunto dopo trattative intense dopo che il 30 giugno scorso era scaduta la vigenza del precedente contratto. Il nuovo CIA sarà valido dal 1° gennaio 2025 al 31 dicembre 2027.

In Banca del Fucino la Fisac Cgil è la prima Organizzazione Sindacale per numero di iscritte/i in una realtà dove l’80% circa dei Lavoratori e delle Lavoratrici è iscritta ad un sindacato.

Il nuovo contratto integrativo prevede:

  • incremento del 35% circa del complesso dei benefici rispetto al precedente contratto;
  • ampliamento delle materie precedentemente contenute, passando dai 18 ai 24 articoli contrattuali (inserendo, tra l’altro, l’impegno condiviso a creare nel corso del 2025 un nuovo sistema di famiglie professionali e a retribuire il pendolarismo);
  • razionalizzazione delle norme, inserendo al suo interno alcuni dei numerosi e positivi accordi siglati in passato da Fisac-Cgil e Uilca (ad esempio sulle Agevolazioni creditizie, sulla Formazione, sull’Orario di lavoro, sullo Smartworking);
  • importanti impegni aziendali da un punto di vista etico (come l’esclusione dei finanziamenti a imprese del settore militare e l’estensione del Protocollo sui cantieri edili ad altri settori);
  • aumento a regime del 150% la quota produttività̀, del 30% la quota redditività̀, del 40% la quota fissa del premio aziendale;
  • aumento di oltre il 10% del contributo aziendale alla previdenza integrativa;
  • aumento del 35% del contributo aziendale alla polizza sanitaria;
  • aumento del 33% del Buono pasto;
  • in modo del tutto innovativo il riconoscimento del Buono pasto, in misura ridotta, anche per le giornate di lavoro agile;
  • miglioramento della possibilità̀ di fruizione dei permessi retribuiti;
  • impegno aziendale a stipulare convenzioni sul noleggio auto a lungo termine;
  • miglioramenti normativi a materie preesistenti.

Con la firma di questo rinnovo, il Contratto integrativo aziendale siglato in Banca del Fucino si pone all’avanguardia nel sistema bancario nazionale.

Scarica il comunicato, l’accordo e i relativi allegati:

 Comunicato OO.SS. Fucino
 Testo ipotesi di accordo
 Schema principali voci
 Tabelle premio aziendale




Impoverire lo Stato e tenere bassi i salari: i “flexible benefit”

La detassazione al posto degli aumenti: i lavoratori ci guadagnano spiccioli e perdono pensione e Tfr


Dice il signor padrone: “Vuoi un aumento? Ti do una bella detassazione: tu vedi aumentare il netto in busta paga e non t’accorgi della decurtazione del salario differito (Tfr, pensione, etc), io deduco tutto, il grosso lo paga lo Stato, che se proprio deve risparmiare può tagliare servizi”. Se pensate che sia fantascienza lasciate che vi siano presentati il welfare aziendale, i flexible benefit e, tra questi, i cugini scapestrati, i fringe benefit, talmente cari a Giorgia Meloni, che in manovra al tema ha appena dedicato circa 900 milioni, cioè la stessa cifra stanziata per la sanità. Se il lavoro povero record e il neoschiavismo da pagine di cronaca sono il volto sporco della deflazione italiana, i benefit e il welfare aziendale ne sono la faccia per bene e up-to-date, la via sorridente – e ovviamente digitale – alla trasformazione del sistema economico in senso anti-costituzionale.

Metalmeccanici. Non certo di sola Meloni vivono questi pezzi di salario generosamente pagati dalla fiscalità generale per essere destinati a una minoranza di lavoratori (un quinto circa, spesso tra quelli meglio pagati). A fine 2023 il welfare aziendale era presente in 18 contratti nazionali firmati da Cgil, Cisl e Uil e in oltre la metà degli accordi territoriali o aziendali: adesso Confindustria propone ai metalmeccanici – che nel loro Ccnl del 2021 hanno già 200 euro l’anno di welfare aziendale – non gli aumenti richiesti per recuperare l’inflazione di questi anni, ma il raddoppio dei benefit detassati a 400 euro. Per ora Fiom, Fim e Uilm hanno detto no, ma il segnale su dove vuole andare l’imprenditoria italiana è chiaro: la soluzione ai salari bassi non sta nelle sue tasche, ma negli spiccioli a qualche lavoratore pagati da tutti. Tradotto: nei sussidi alle imprese per abbattere il costo del lavoro.

Di cosa stiamo parlando? In principio in Italia fu il welfare contrattuale, fin dall’inizio incentivato dallo Stato per via fiscale: negli anni Novanta si puntò sui fondi destinati dai contratti nazionali – e gestiti da enti bilaterali (cioè imprese e sindacati) – a previdenza e sanità integrative. La cosa ha via via preso sempre più piede allargandosi ad altri ambiti (trasporto pubblico, spese per l’istruzione, assistenza ai familiari, etc.) e così – sempre generosamente sovvenzionato dallo Stato – ci siamo ritrovati col welfare aziendale vero e proprio, cioè beni e servizi erogati dalle imprese ai propri dipendenti sia per via di accordi territoriali o aziendali sia in modo unilaterale: negli anni siamo passati dall’auto e dal telefono aziendale al buono spesa, ai soldi per le vacanze, la baby sitter, la palestra, i biglietti dei concerti, fino al rimborso delle bollette. Questi sono i flexible e fringe benefit, i benefici flessibili o accessori che – secondo i report delle piattaforme che li intermediano – valgono ormai oltre il 60% della spesa in welfare aziendale e sono in costante crescita, specie dal 2021 in poi, anche grazie all’innalzamento delle soglie di deducibilità (oggi a mille euro, che diventano duemila per chi ha figli a carico).

C’è un problema. Come si vede, ammesso che il welfare aziendale sia una bella idea, i flexible e i fringe benefit col welfare c’entrano poco: sono di fatto pezzi di salario defiscalizzato, cioè pagato da tutti, messi a disposizioni dei lavoratori attraverso buoni cartacei o più spesso elettronici, che si stanno diffondendo anche nei livelli “bassi” dei redditi da lavoro. L’esplosione del fenomeno della detassazione di pezzi di salario, non sorprenderà nessuno, fa un passo in avanti con il Jobs act: dal 2016 i premi di produttività possono essere interamente convertiti in buoni welfare. Per capirci su come funziona la fregatura useremo proprio il premio di produttività trasformato in benefit, un’opzione che oggi riguarda circa tre milioni di lavoratori: su mille euro annuali il lavoratore risparmia il 20% in tasse e contributi, l’impresa il 40%. Ma il lavoratore non guadagna solo, perde pure: uno studio della Fondazione del Monte del 2019 sulle aziende modenesi ha rilevato che la conversione totale dei premi in welfare costerà ad un lavoratore giovane (25-35 anni) tra gli 80 e i 115 euro al mese di pensione. Capita pure che lo zuccherino della detassazione al posto dell’aumento sia usato per far ingoiare ai lavoratori la rinuncia a qualche diritto: in settori come il commercio o la grande distribuzione i programmi di welfare aziendale (più netto in busta paga), convivono con rinnovi di contratto con aumenti di stipendio ben inferiori all’inflazione e col peggioramento delle condizioni di lavoro (domeniche pagate meno, flessibilità organizzativa estrema, contratti a termine senza causali, eccetera).

Chi ci guadagna. Dall’altra parte dello spettro ci sono le piattaforme digitali che offrono alle imprese i pacchetti di welfare – in genere carte o voucher – che poi dovranno usare i lavoratori (ovviamente pagando una percentuale): secondo un loro report il giro d’affari 2023 del welfare aziendale è stato di 2,8 miliardi e il settore della finanza tech ci si sta buttando a pesce. Ci guadagnano, ovviamente, anche le imprese, specie le medie e le grandi, che drenano l’80% del welfare aziendale, specie nel CentroNord. Ci guadagnano le assicurazioni, che hanno visto aumentare le polizze sanitarie e previdenziali e pure i ricavi per le spese di gestione dei fondi contrattuali degli enti bilaterali – giova ripeterlo: sindacati e associazioni datoriali – che raramente sono in grado di gestirli direttamente.

Chi ci perde/1. In primo luogo quei lavoratori, quattro su cinque, che non hanno accesso al welfare aziendale che pure finiscono per pagare con le loro tasse. Ci perde, infatti, anche lo Stato, che rinuncia tutti gli anni a miliardi di introiti sotto forma di tax expenditure: è uno dei rivoli del cosiddetto “welfare fiscale” (detrazioni sulla casa, sulla salute, sul lavoro, etc.), la cui spesa è esplosa nell’ultimo quindicennio arrivando a superare quella per il welfare sociale, cioè quello erogato direttamente dallo Stato. Una pessima idea. Come hanno scritto Emmanuele Pavolini e Matteo Jessoula, autori di La mano invisibile dello Stato sociale. Il welfare fiscale in Italia (Il Mulino, 2022), “non soltanto il welfare fiscale tende a produrre effetti distributivi prevalentemente regressivi, ma risulta essere una scelta spesso poco efficiente dal punto di vista dell’allocazione delle risorse pubbliche e in ultima analisi inefficace rispetto al perseguimento di obiettivi di interesse collettivo”. Ad esempio, mentre si tolgono soldi al Servizio sanitario nazionale, si finanziano fiscalmente assicurazioni sanitarie o fringe benefit destinati, di fatto, a sostituire (solo per alcuni) le prestazioni che il pubblico non eroga più per mancanza di fondi: “Le ricerche sui vari settori di policy contenute nel volume mostrano infatti come i decisori politici abbiano fatto ricorso a strumenti di welfare fiscale per convogliare risorse pubbliche verso il settore privato”. Si pensi alla defiscalizzazione totale o parziale delle assunzioni, che vale una decina di miliardi l’anno, quasi sempre senza produrre occupazione aggiuntiva.

Chi ci perde/2. Esiste una inconciliabilità di fatto tra l’esistenza di un diffuso welfare aziendale e quella di un welfare pubblico universalistico: scuola e sanità per tutti, per non fare che due esempi, non possono sopravvivere alla continua erosione di gettito contrattata tra mondo dell’impresa, decisori politici, qualche tecnico/lobbista e, alla bisogna, sindacati abituati alla contrattazione al ribasso. Il mondo post-costituzionale che viene non sarà un bel posto per i lavoratori, neanche quelli col bonus in tasca: affidare pezzi sempre più grandi di welfare a uno specifico posto di lavoro, restringendo lo spazio dei diritti di cittadinanza, significa dare ancor più – specie senza articolo 18 – il manico del coltello in mano all’impresa nel conflitto distributivo. Addio posto, addio welfare.

 

Articolo di Marco Palombi su “Il Fatto Quotidiano” del 21/10/24




BNL: di bene in meglio

SEGRETERIE DI COORDINAMENTO DEL GRUPPO BNL


Umiliati ma anche offesi

 

In assenza di risposte finalmente chiare ed inequivocabili da parte di BNL, ci vediamo costretti a tornare su argomenti che abbiamo in più occasioni affrontato con i nostri interlocutori aziendali.
Vogliamo parlare di Task Force e di alcuni comportamenti aziendali nei confronti di colleghi che non hanno aderito alla recente campagna di esodo.

Andiamo per ordine.

La Task Force è un progetto Banca, definito dalla CCO Dr.ssa Valcu “un regalo della Rete alla Rete”, che sta coinvolgendo un numero crescente di colleghi (circa 140) destinati ad attività di supporto quali: gestione kyc, successioni, controllo documenti in anagrafe.
La scadenza è indicata al 31/12 (nutriamo forti dubbi sul rispetto di tale data) e vi sono stati destinati colleghi commercialmente poco performanti, fruitori di L.104, part time, rappresentanti sindacali.
Un deja-vu di cose già viste e vissute purtroppo nel recente passato. I Servizi di Rete, poi Apac, martoriati dalle esternalizzazioni. Forte è la preoccupazione nei colleghi interessati, in particolare i più giovani, di trovarsi in un prossimo futuro in un comparto di c.d. “Improduttivi” dal destino incerto.

A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina, disse un arguto politico della prima Repubblica. Aggiungiamo che le lavorazioni sono assolutamente alienanti nella loro ripetitività generando profonda mortificazione alla professionalità dei colleghi coinvolti. Non bastasse, le logiche operative sono mutuate dal commerciale, con obiettivi numerici settimanali riportati su About Me e videocall di allineamento settimanali.
BNL dovrebbe sapere che, tra le tante obbligazioni che comporta il rapporto di lavoro subordinato, non è presente quella di risultato…è e sarà sempre nostra cura continuare a ricordarglielo.
Aggiungiamo le difficoltà operative dei tanti colleghi che continuano a lavorare nelle Agenzie, dove sappiamo perfettamente che il flusso della clientela impedisce l’effettivo distacco e la possibilità di svolgere in tranquillità le nuove mansioni.
In ultimo, i colleghi in Agenzia, pur svolgendo un’attività di supporto amministrativo a tutti gli effetti, non possono fruire pienamente dello SW…chiaramente devono far numero per consentire in tanti casi l’apertura delle Agenzie stesse!

Altro fenomeno al quale stiamo assistendo riguarda il trasferimento “spintaneo” di alcuni colleghi di DG, spesso con inquadramenti elevati e con vita aziendale che residua a pochi mesi, sulla rete agenzie. Il tratto comune è la mancata adesione all’Esodo.
Ricordiamo a BNL ed a tutti che l’adesione all’Esodo è esclusivamente su base volontaria.
Azioni di questo genere, che potrebbero facilmente essere interpretate quali ritorsive, non generano alcun vantaggio a BNL (l’Agenzia si trova un collega in organico da formare per un arco temporale ridottissimo) e creano sconcerto negli interessati.
Non crediamo sia questa una modalità professionale, seria e costruttiva di gestione delle Risorse!

Manteniamo e manterremo sempre altissima la soglia di attenzione sui comportamenti di BNL per evitare il ripetersi di scelte aziendali fortemente opinabili e comportamenti deprecabili.

Roma, giovedì 24 ottobre 2024

 

Segreterie di Coordinamento del Gruppo BNL
FABI – FIRST CISL – FISAC CGIL – UILCA – UNISIN




Banche: attenzione a lunedì 4 novembre

Lunedi 4 novembre coincide con la festività dell’Unità Nazionale, una delle festività soppresse che danno diritto ad altrettante giornate di permesso retribuito.
Ricordiamo che i permessi sono riconosciuti nel caso in cui le ex festività ricorrano in giorni per i quali è prevista la prestazione lavorativa ordinaria con diritto all’intero trattamento economico, escluse quindi le giornate coincidenti, ad esempio, con aspettative , congedi parentali non retribuiti, giornate di sospensione volontaria.
È importante evitare di usufruire di permessi non retribuiti durante queste ricorrenze per evitare di vedersi decurtare delle giornate di festività soppresse.
Ricordiamo le date delle festività soppresse che nel 2024 ricorrono in giornate lavorative.
  • martedì 19 marzo – San Giuseppe;
  • lunedì 13 maggio – Ascensione;
  • giovedì 30 maggio – Corpus Domini;
  • lunedì 4 novembre – Unità Nazionale.



Scendi in piazza con noi per urlare il tuo NO a tutte le guerre

Nei prossimi giorni la Fisac e la Cgil Abruzzo Molise saranno impegnate in alcuni importanti appuntamenti. In un mondo in cui quello che sembrava impossibile diventa ogni giorno più reale, in cui da più parti si soffia sul fuoco per arrivare ad un conflitto devastante, diventa indispensabile per tutte le persone di buon senso, che vogliono sperare di avere ancora un futuro per sé e per i propri figli, far sentire la propria voce in modo concreto, visibile. In modo da contare e farsi contare.

Nei prossimi giorni siamo attesi da diversi importanti appuntamenti. Il primo, importantissimo, è in programma alle 18 di oggi a Pescara, in concomitanza con il G7 in corso in città. Sfileremo pacificamente contro tutte le guerre: quelle militari, ma anche quelle economiche e sociali.


Sabato 26 si svolgeranno, in diverse città italiane, manifestazioni per chiedere al governo di smettere l’invio di armi ed attivarsi concretamente per l’avvio di negoziati di pace.

Per la provincia dell’Aquila la manifestazione si svolgerà a Sulmona a partire dalle ore 10


 

La provincia di Teramo si riunirà nel Capoluogo a partire dalle ore 17


 

Per gli altri territori, e per chiunque lo preferisca, si può partecipare alla manifestazione in programma a Roma (ore 14.30 – Corteo con partenza da Porta San Paolo – Piramide) o in una delle 7 piazze previste nelle principali città italiane.

Vi invitiamo a rivolgervi ai vostri rappresentanti Fisac per conoscere le modalità di partecipazione.
Mai, come in questo momento, è importante esserci




ISP: Fisac Cgil, raggiunto importante accordo per 3.550 assunzioni su 4.000 uscite

“Abbiamo firmato oggi un importante accordo in IntesaSanpaolo su uscite volontarie  correlate a nuove assunzioni. L’intesa prevede la possibilità di accesso volontario all’esodo, o al pensionamento, per 4.000 persone, a fronte delle quali abbiamo ottenuto 3.550 assunzioni nella rete filiali e nelle sedi del Gruppo. Un accordo largamente migliorativo rispetto a quanto convenuto nei precedenti accordi di esodo in IntesaSanpaolo”.
È quanto afferma il segretario responsabile della Fisac Cgil del Gruppo Intesa Sanpaolo, Roberto Malano, in merito all’intesa sottoscritta oggi tra sindacati e il gruppo bancario guidato da Carlo Messina.

“Siamo molto soddisfatti del risultato ottenuto – commenta -, perché raggiunge il duplice scopo di venire incontro alla richiesta di uscita che viene avanzata da molti colleghi e colleghe, e soprattutto per la creazione di un numero consistente di posti di lavoro a tempo indeterminato nel primo Gruppo bancario del Paese. Questo accordo si inserisce in un percorso di confronto che abbiamo iniziato sulla evoluzione digitale del Gruppo, che porterà nell’arco di un tempo molto breve importanti modificazioni nelle procedure, nei prodotti e nel modo di gestire la clientela”.

Inoltre, prosegue il segretario della Fisac Cgil IntesaSanpaolo, “immediatamente nei prossimi giorni avvieremo  le trattative sulla Formazione, per definire un piano formativo di lungo periodo finalizzato a mantenere le competenze, e sul Benessere Organizzativo e la tutela della salute. L’intesa raggiunta oggi è un esempio di come nel settore del Credito le Parti Sociali possono affrontare le sfide della Trasformazione Digitale non in chiave difensiva, ma giocando un ruolo che metta al centro gli interessi e i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, creando per di più nuova e buona occupazione”, conclude Malano.


Giorgio Saccoia
Ufficio Stampa Fisac Cgil Nazionale
335.63.88.949


La nota della Segreteria Fisac Cgil di ISP

 

Alle Iscritte e agli Iscritti alla FISAC CGIL di ISP

Oggi, 23 ottobre 2024, abbiamo sottoscritto un importante accordo che, oltre a declinare alcuni principi in relazione alla trasformazione digitale che interesserà il Gruppo, prevede fino a 4.000 uscite volontarie per pensionamento o accesso al Fondo di Solidarietà, nonché la correlata assunzione di:
  • 2.000 persone Full time
  • 1.500 persone con contratto a Part time
Abbiamo inoltre previsto la stabilizzazione e l’assunzione alle dipendenze del Gruppo ISP di 50 lavoratrici/lavoratori che lavorano nel Gruppo con contratto di somministrazione (c.d. interinali) o a tempo determinato (che non abbiano evidenze negative).
In merito al piano di uscite volontarie l’accordo prevede:
  • l’adesione al PENSIONAMENTO per il personale che ha maturato o maturerà il requisito pensionistico entro il 31 dicembre 2025
  • l’adesione al PENSIONAMENTO o, in alternativa, al FONDO DI SOLIDARIETÀ per il personale che maturerà il requisito pensionistico tra il 1° gennaio 2026 e il 31 dicembre 2026
  • l’adesione al FONDO DI SOLIDARIETÀ per il personale che maturerà il requisito pensionistico tra il 1° gennaio 2027 e il 31 dicembre 2030
(Le date si riferiscono alla maturazione del “diritto” alla pensione e non alla data di decorrenza del pagamento che in base alla normativa INPS può essere anche successiva.)
Il termine per la presentazione delle domande è il 25 novembre 2024 (11 novembre 2024 per beneficiare del “premio di tempestività” per chi accede al pensionamento).
La procedura sarà disponibile da lunedì prossimo.

GRADUATORIA

Nel caso in cui le domande di uscita volontaria fossero più di 4.000, sarà redatta una graduatoria (sia per il pensionamento che per l’accesso al Fondo di Solidarietà), predisposta sulla base della maturazione del diritto a pensione, e – a parità di tale data – in base alla maggiore età anagrafica.
Nella graduatoria priorità a:
  1. titolari delle previsioni ex art. 3, c. 3, Legge n. 104/1992 per sé
  2. personale con disabilità con percentuale di invalidità non inferiore al 67%
  3. personale che aveva aderito al precedente accordo 16.11.2021 e non era rientrato in graduatoria (a condizione che la nuova richiesta sia avanzata sulla base del medesimo requisito pensionistico con riferimento al quale era stata presentata la domanda precedente): si tratta di circa 2.750 persone.
L’ampliamento a 4.000 uscite assicurerà a queste 3 platee l’accoglimento della domanda.

INCENTIVO AL PENSIONAMENTO

Adesione per pensione anticipata o di vecchiaia
  • 2 mensilità per le Aree professionali, 4 mensilità per i Quadri Direttivi, 6 mensilità per i Dirigenti.

Adesione per pensione con “Quota 100”, “Quota 102” o “Quota 103”
  • 2 mensilità per le Aree professionali, 4 mensilità per i Quadri Direttivi, 6 mensilità per i Dirigenti

a cui si aggiunge

  • ulteriore importo calcolato sulla base del numero di mesi intercorrenti tra la cessazione e la maturazione del requisito di pensione anticipata o di vecchiaia (il primo in maturazione)
L’incentivo complessivo non potrà comunque essere superiore al 75% della RAL.

Adesione per pensione con “Opzione Donna”
  • 75% della RAL

Premio di tempestività
In tutti i casi di adesione per pensionamento è previsto un “premio di tempestività” per le adesioni che perverranno entro l’11 novembre 2024.

FONDO DI SOLIDARIETÀ

Come già riportato l’adesione al Fondo di Solidarietà è prevista:
  • per il personale che maturerà il requisito per la pensione (anticipata o di vecchiaia) nel corso del 2026 (che potrà scegliere in alternativa il pensionamento incentivato)
  • per il personale che maturerà il requisito per la pensione (anticipata o di vecchiaia) tra il 1° gennaio 2027 e il 31 dicembre 2030 (solo possibilità di accesso al Fondo).

Le tempistiche previste per l’uscita nel caso si rientrasse nella graduatoria sono:

 

  • 31 dicembre 2024
  • 28 febbraio 2025
  • 30 giugno 2025
  • 31 dicembre 2025
  • 30 giugno 2026
  • 31 dicembre 2026
  • 30 giugno 2027
  • 31 dicembre 2027.
In base al Decreto istitutivo del Fondo il periodo massimo di permanenza è attualmente di 5 anni, ma la prassi in ISP è di una durata media di 3 anni (quindi cessazione dal servizio di norma 36 mesi prima della decorrenza della pensione: l’interessata/o è informato della cessazione con un anticipo di almeno 30 giorni).

Si ricorda che la prestazione erogata dal Fondo (assegno straordinario) corrisponde all’importo netto della pensione che si sarebbe percepita maturando i contributi necessari al raggiungimento del diritto alla pensione (anticipata o di vecchiaia, a seconda di quella che si matura per prima).
L’accordo prevede alcuni trattamenti accessori, inerenti in particolare la Previdenza complementare, il Fondo Sanitario Integrativo, il Circolo Ricreativo ALI, la provvidenza annua per familiari disabili, i cui dettagli saranno forniti in successive comunicazioni.

Valutiamo positivamente l’accordo raggiunto che registra una percentuale assunzioni/uscite che supera significativamente il rapporto 1 a 2 che aveva caratterizzato le precedenti intese (l’accordo – come già precisato – garantisce infatti 3.550 assunzioni complessive a fronte di 4.000 uscite).
Come FISAC CGIL abbiamo tempo per tempo ribadito la necessità di un equilibrio tra le legittime aspettative di coloro che desiderano accedere a percorsi di uscita, le esigenze di chi rimane al lavoro e la salvaguardia dei livelli occupazionali e riteniamo di aver fornito un contributo determinante affinché tale obiettivo fosse in gran parte colto.

Seguiranno informazioni di maggior dettaglio e istruzioni operative.

🟥 La Segreteria FISAC CGIL di ISP



Digressioni sul capitalismo

Tutti dovremmo essere d’accordo sul fatto che, in generale, le cose non hanno valore se non in quanto sono utili.  Eppure, ci sono cose che pur avendo un grande valore per l’uomo, in realtà non ne hanno affatto; ad esempio, la cosa più importante per l’uomo è l’aria che respiriamo; tuttavia l’aria non ha nessun valore perché dappertutto ci è offerta gratuitamente. Altro esempio, la luce del giorno è ancora una delle cose più vantaggiose all’uomo, ma anche essa per noi non ha nessun valore, perché viene acquisita gratuitamente. Al contrario ci sono cose che, pur essendo di scarsa utilità per l’esistenza dell’uomo o per usi industriali, presentano un valore economico notevole come, ad esempio, i diamanti. Tra questi opposti, vi sono gli innumerevoli beni che fanno parte della nostra vita sociale ed economica quotidiana.

A scuola tutti hanno imparato la regola universalmente accettata sulla proprietà che la identifica come il diritto di godere e di disporre di quelle cose che ci appartengono. Il sentimento della proprietà è talmente naturale per l’uomo che si trova realizzato in esso, qualunque sia lo stato della società in cui egli vive. Nessuno può essere contrario sul fatto che niente appartiene di più all’uomo se non il frutto del suo lavoro; per questo l’uomo è determinato a sopportare la fatica derivante dal lavoro, per poter ottenere dei beni su cui è lecito e giusto esercitare la facoltà di disporne a proprio piacimento. È evidente che l’istinto della proprietà si osserva anche negli animali: per esempio l’uccello che difende il proprio nido, o la volpe che non vuole permettere di approssimarsi alla sua tana. Addirittura potremmo dire che gli animali hanno anche una certa idea di ciò che appartiene all’uomo: pensiamo all’istinto del cane lasciato da solo a difendere la casa del padrone nel corso della notte.

Il sentimento della proprietà si manifesta nel fanciullo molto prima che l’educazione gli abbia fatto conoscere il senso del valore o gli abbia fatto distinguere il senso delle parole. Nell’uomo primitivo si considerava la proprietà, sia dell’animale ucciso per cibarsi della carne e per coprirsi con la pelle di esso, sia dell’arco e delle frecce prodotto con le proprie mani. Questo per dire che la proprietà esiste dunque dappertutto, perché è legato alla natura dell’uomo, sia nell’infanzia della società, come nella più progredita civiltà.

La sua identificazione ha ovviamente subito una continua evoluzione: il selvaggio portava indosso l’arco e le sue frecce come anche le pelli degli animali uccisi; il possesso materiale indicava presso di lui la proprietà e, dovunque si muovesse, tutti vedevano che quelle cose gli appartenevano. Poi, quando fabbricava una capanna, pure questa era di sua proprietà benché non potesse portarla con sé; inoltre, quando cominciò a coltivare il terreno per ottenere, ad esempio, una raccolta di patate, anche il campo era riconosciuto come appartenente a lui che delle volte, anche per difenderlo, usava circondarlo con una siepe o con dei sassi ammucchiati.

Ora, tutto era facile, in quanto l’uomo allo stato selvaggio era in piccolo numero e ognuno conosceva i propri vicini e le loro cose. Successivamente, presso i popoli via via civilizzati, il numero dei possessori e la varietà delle cose possedute hanno reso il diritto di proprietà molto più complicato. Tuttavia, anche oggi, vedendo su di noi dei vestiti o delle collane si sa che ci appartengono in qualche modo. Un orologio o una borsa si presume che siano di proprietà di chi li porta, tutti riconoscono questa proprietà e se una persona decide di prenderla commette un attentato contro l’altrui proprietà e tutti lo individuano come un ladro;  ma visto che non possiamo portare tutto addosso – ad esempio, io non posso portare con me il letto, i mobili di casa e tutto ciò che resta nella casa da noi abitata –  si presume sempre che tutti i beni presenti nella casa di residenza siano di proprietà dell’inquilino e, se qualcheduno tenta di portarli via per forza, la polizia ha il dovere di intervenire per difendere il diritto di proprietà.

Diversamente si è fatto per gestire i beni che non possono essere mossi o trasportati come i beni immobili, ossia le case e i terreni; qui è la legge che si interpone e con l’utilizzo di diversi atti scritti di proprietà e di registri pubblici rende certo per tutti che la casa o il campo acquisiti sono veramente di proprietà del compratore (avente causa). E’ evidente che la società civile ha reso un grosso servizio agli uomini, prevedendo leggi e magistrati, per constatare la proprietà di ciascuno, che spesso si manifesta in modalità complessa (ad esempio, consideriamo la comproprietà tra tre o quattro persone) o presenta limitazioni varie (pensiamo alla ipoteca di fondi dove il creditore del proprietario vede riconosciuti dei diritti sul fondo per il credito). Contemporaneamente si è discusso sulle ragioni giustificatrici della proprietà con molte teorie.
Possiamo ricordarne alcune, come la teoria del diritto naturale, una teoria classica che sostiene che il diritto di proprietà trova la sua base nel diritto di natura, ma questa teoria ci porta giustamente a pensare che tutti dovrebbero essere dotati di un minimo di proprietà sufficiente a soddisfare le necessità della vita.
Importante è la teoria del lavoro, dove possiamo definire la proprietà come il diritto dell’uomo sul prodotto del proprio lavoro. Ma, anche qui abbiamo qualche problema quando oggetto della proprietà sono cose ereditate o derivanti dal lavoro espletato da uomini alle dipendenze.
Una terza teoria che possiamo citare è quella detta dell’utilità sociale, accettata dal capitalismo, secondo la quale la proprietà individuale è uno stimolo per il singolo ad utilizzare la cosa concorrendo così al benessere della collettività. Qui, il detentore della cosa non è un semplice proprietario, ma un amministratore che dovrebbe gestire la cosa nell’interesse della collettività.

Nella storia, la proprietà ha subito una evoluzione anche nei riguardi dell’oggetto o del soggetto o della forma di godimento. Agli albori, oggetto della proprietà furono non solo gli oggetti inanimati, ma anche le persone rese schiave dopo guerre o da convenzioni sociali, come le donne, che ancora oggi, in molte parti del mondo, sono private delle principali libertà civili. Per fortuna, queste disgustose forme di proprietà sono state ripudiate mano a mano dai vari popoli con l’avanzare del processo di civilizzazione e la proprietà è stata limitata solo alle cose, in particolare quelle strettamente personali, come i vestiti, i gioielli, i cavalli, o le armi, che generalmente dopo la morte del proprietario venivano sepolte nella stessa tomba. Successivamente, si è formata la proprietà di tipo familiare, che si è estesa sulla casa e che comprendeva il focolare ed un cortile  in cui si racchiudeva la storia degli antenati. Con l’affermarsi delle culture e delle società basate sul diritto scritto nascono le moderne forme di proprietà, che oggi sono in prima posizione per la rilevanza economica; in sostanza, parliamo della proprietà mobiliare incorporata in titoli all’origine solo cartacei (le varie specie di titoli di credito e di capitale hanno preso una importanza economica primaria sostituendosi alla storica ricchezza rappresentata dalla semplice proprietà immobiliare)  e della proprietà intellettuale (diritti d’autore, brevetti industriali, ecc.).

Soggetto del diritto di proprietà in origine era il solo sovrano, che poteva possedere dei beni, ma successivamente il diritto di proprietà passò ai capi di famiglia, e in un secondo tempo alle persone fisiche per poi, arrivare alle persone morali; infatti, in molte civiltà, si riconobbe il diritto di possedere e di succedere agli Dei (ovviamente, tutto a vantaggio dei loro ministri sulla terra), per poi estendere agli Stati e agli enti pubblici minori la stessa facoltà. In una susseguente evoluzione anche le associazioni private venivano riconosciute in persone giuridiche capaci di detenere beni in proprietà, anche quando venivano create per realizzare delle opere di natura filantropica, artistica, scientifica o delle idee determinate (fondazioni).

La tendenza moderna nei confronti della proprietà privata ha visto l’affermarsi delle ideologie e delle dottrine politiche, con i comunisti, che ebbero il coraggio di affermare  che la proprietà privata doveva essere abolita (su tutti i beni o su alcuni, che costituivano i cosiddetti mezzi di produzione, lasciando ai privati un ambito confinato dalle esigenze collettive, come nel caso dell’Urss che, come noto, con l’articolo 52 del codice civile sovietico, fin dal 1926, accanto alla proprietà collettiva e cooperativa ammetteva tranquillamente la proprietà privata) o con i cattolici che, sin dalla fine del XIX secolo, affermarono, tramite la massima autorità (il Pontefice), il suo carattere sociale (nonché, la necessità di estenderla di fatto a tutti, anche ai lavoratori, che solo con un livello di salario adeguato potevano aspirare a possedere i beni essenziali alla vita civile).

Ora, si commette un grave errore credendo che il capitale consista solamente nelle grandi ricchezze: infatti, il capitale lo troviamo anche nelle classi meno favorite in piccola entità, ma capaci nel loro insieme di costituire una parte importante della pubblica ricchezza.  Il capitale non è costituito solo dalle somme di denaro depositate nelle banche o nei materassi (questa non è che una parte quasi impercettibile del patrimonio totale): il vero patrimonio consiste in tutte le case, gli arredi, gli elettrodomestici, gli ornamenti, i telefoni cellulari, le automotive, i campi, gli orti, le merci nei negozi, le materie prime nelle industrie eccetera, tutta una varietà di beni che forma un capitale di immensa importanza per la nazione. A questo punto, qualcuno arriva a sostenere che noi tutti siamo capitalisti, e di conseguenza sarebbe giusto vivere nel nostro sistema economico basato sul capitalismo, visto che il capitale è aperto a tuttiMa crediamo di non sbagliare se riteniamo di non potere accettare questa banale semplificazione, tanto cara ai sostenitori del capitalismo moderno. Noi riteniamo che non possiamo confondere la proprietà con il capitalismo. Quando parliamo di capitalisti, noi vogliamo indicare coloro che possiedono maggiori capitali rispetto agli altri e che utilizzano detti capitali come strumento di sfruttamento del lavoro delle masse popolari, di coloro che per vivere possono contare solo sulla forza delle proprie braccia e della propria mente, di quelli che dispongono o possono disporre solo del prodotto del proprio lavoro. 

Grazie al lavoro anteriormente svolto oggi possediamo, a livello collettivo, una infinità di beni, come le strade, i ponti, i canali, i porti, i luoghi di culto, le scuole, i palazzetti dello sport, e tanti pubblici edifici che costituiscono il vero capitale materiale della nazione. La ricchezza della nazione non può essere misurata come somma del patrimonio privato di ciascuno dei suoi membri preso isolatamente ma, al contrario, il patrimonio dello Stato deve essere valutato sui beni pubblici, che sono i soli ad esprimere il benessere di un paese.  Ovviamente, la ricchezza, come somma dei beni comuni che la nazione possiede, sarà maggiore quando è più alto il prodotto del lavoro che non è stato consumato nei secoli precedenti in modo sterile, ma impiegato in grandi lavori pubblici. I beni pubblici aumentano la ricchezza di tutti i suoi membri perché facilitano il lavoro delle generazioni future (pensiamo alle scuole e alle strutture sanitarie) nella convinzione che l’aumento di questo capitale sia un beneficio per il paese giacché tutti gli abitanti sono chiamati ad approfittarne; la stessa cosa mi sembra non possa dirsi per il capitale posseduto dai singoli individui.

Il capitalista pensa ad ammassare ricchezza senza curarsi degli altri ,con l’alibi che egli non può fare il bene proprio senza fare il bene degli altri in quanto non può arricchire senza rendere all’esterno i servigi del suo capitale perché, dicono i capitalisti, che mentre essi cercano di arricchir, servono la società impiegando in modo industrioso la loro ricchezza (ovviamente, ci si dimentica che se, per una causa o per un’altra, un capitalista va in rovina, la sua rovina porta con sé la disgrazia di coloro ai quali il suo capitale, spesso preso a prestito o sovvenzionato dallo Stato, procurava lavoro). 

Il capitale ovviamente si presenta sotto varie forme. Abbiamo il capitale immobiliare, che è quello investito in modo stabile nei terreni, nelle industrie, negli edifici, nei miglioramenti del suolo coltivato; poi il capitale mobiliare, che ha una sua propria autonomia ed è distinto dal territorio è perciò dislocabile come le macchine, le materie prime e sussidiarie. Ora, possiamo dire che il capitale immobiliare è suscettibile di una produzione pluriennale che contribuisce all’espansione del benessere delle Nazioni e che la ricchezza mobiliare è stata la fortuna dei nostri comuni medievali, che con essa hanno raggiunto la loro potenza economica e militare. A questa ultima forma di capitale sono da attribuirsi le profonde trasformazioni subite dall’economia moderna, a partire dalla rivoluzione francese ad oggi.

Il capitale fisso partecipa alla produzione in modo continuo servendo a più cicli produttivi, mentre il capitale circolante partecipa alla produzione in modo istantaneo, in quanto serve solo un ciclo produttivo; pensiamo, ad esempio, alla macchina che procede alla tessitura di una serie di panni fino al suo completo logorio economico come capitale fisso ed ad una balla di cotone che serve a fabbricare una singola pezza come capitale circolare. Tale distinzione ha un’importanza pratica per il computo del valore dei prodotti, in quanto se si tratta di capitale circolante il valore di questo rientra completamente nel nuovo prodotto, mentre se si tratta di capitale fisso, il suo valore concorre solo in parte nel prodotto attraverso la quota di ammortamento. La distinzione ha importanza pratica per stabilire il progresso industriale attraverso il rapporto tra l’aumento assoluto del capitale circolante con la dimensione relativa del capitale fisso: ad esempio, se con una macchina si realizzano 100 pezzi di un prodotto noi diciamo che si è ottenuto un progresso industriale ed un incremento di ricchezza quando con un’altra macchina più perfetta si ottengono nella stessa unità di tempo 200 pezzi di prodotto.

Il capitale, essendo ricchezza prodotta, non può derivare che dall’industria attraverso la produzione sistematica senza la quale manca la capitalizzazione: infatti, i popoli fortemente industriali sono quelli dotati di una enorme quantità di capitale in quanto l’industria, più che l’agricoltura, consente un largo margine di profitti attraverso lo sfruttamento dei lavoratori. Ora, nessuna ricchezza può essere prodotta senza il sussidio di altra ricchezza preesistente. Il capitale è un fattore derivato artificiale prodotto col simultaneo concorso di altri due fattori: la natura ed il lavoro.

Il capitale rende possibile la conservazione e la produttività del fattore natura, ad esempio, quando restituisce al terreno gli elementi chimici per evitare il suo progressivo esaurimento. Esso poi, ha la funzione di potenziare la produzione dell’attività industriale con le macchine e la tecnologia: di conseguenza, quando apro il processo produttivo per la produzione di abiti che indossiamo, vediamo coesistere diverse fasi produttive, dalla raccolta del cotone, al trasporto, alla sua filatura, alla sua tessitura, in un unico processo produttivo con notevole vantaggio della produzione.

A questo punto, chiediamoci qual è l’utilità dell’accumulazione delle ricchezze, se si deve spendere di più oppure si deve ammassare; ovviamente se ognuno spende si rimane come si è e se tutti accumulano nessuno guadagna. Ora, se si spende di più, maggiore è il numero di godimenti che ci si procura. D’altra parte se si risparmia, escludendo il caso dell’avaro che ammucchia le sue ricchezze lasciandole improduttive, si mettono le economie in banca e questi capitali così raccolti finiscono ai capitalisti che li impiegano a far lavorare, ma di fatto questo avviene necessariamente,  perché i capitalisti  non possono procurarsi godimenti in altro modo, in quanto  tutto quello che accumulano  deriva dal prodotto del lavoro. In sostanza, il capitalista è obbligato a far lavorare il popolo per far fruttare il proprio capitale, per conservarlo e per farlo crescere. Ora, il capitale impiegato a pagare il salario torna sempre al capitalista. Per comprendere citiamo un  esempio:  il capitale consumato a comprare del pane, della carne, del vino o  dei vestiti  ritorna al capitalista, che lo reinveste per far crescere nuovi raccolti, per fare altri abiti, altre scarpe, eccetera, in pratica, per sostituire i beni che sono stati usati. Quindi, il capitale impiegato a pagare il salario ai lavoratori dipendenti è consumato solo apparentemente, ma, in realtà non è distrutto, come non lo è il singolo seme di grano quando viene messo sottoterra e restituisce 20 volte in più. Il lavoratore, poi, che riceve un salario, ne riproduce col proprio lavoro un maggiore valore a vantaggio del capitale. In questo modo l’impiego del capitale diventa per il capitalista proprietario una sorgente di entrata, perché il lavoratore può produrre più del valore del proprio lavoro. Pensiamo all’utilità che ne deriverebbe se dalla parte del capitalista ci fosse il popolo consumatore, il quale acquisirebbe il vantaggio del capitalista facendo lavorare le persone attraverso il profitto conseguito, dando così lavoro a quelli che vivono col lavoro delle proprie mani e della propria testa.

L’azienda pubblica attraverso l’uso del capitale diventa uno strumento di  benessere per mezzo del lavoro che può offrire al povero disoccupato, in una benefica legge che realizza l’interesse di tutti. Ma molti politici, oggi più di ieri, continuano a sostenere che il privato è meglio del pubblico ignorando la sorte, ad esempio, delle numerosissime banche italiane fallite o collassate dopo la legge sulla privatizzazione bancaria (1992).

Spesso ci si dimentica che l’interesse del consumatore è sempre in armonia con l’interesse generale, ma l’interesse del produttore non è d’accordo con questi interessi generali se non quando è basato sopra un aumento di ricchezza attraverso, ad esempio, innovazioni che permettono di diminuire le spese di produzione con conseguente riduzione dei prezzi imposto dalla concorrenza che regola il mercato. Possiamo concludere affermando l’idea che il capitalismo moderno consiste nell’accumulazione del capitale (nelle mani di pochi) con la tendenza a trasformarsi, oltre che in forza economica, in forza politica, mediante la conquista del potere pubblico e la confisca dei beni pubblici. Il capitalismo è così una degenerazione del capitale che deve essere ostacolato mediante la nazionalizzazione delle imprese e la socializzazione dei principali rami industriali, tramite anche il rafforzamento dell’organizzazione sindacale dei lavoratori e attraverso, infine, una estesa legislazione sociale a favore della classe lavoratrice, con la quale questa si possa realmente difendere dagli abusi del capitalismo. Ovviamente, siamo convinti che il sistema migliore per arginare gli abusi del capitalismo sia quello di elevare il livello dei salari ai lavoratori in modo da consentire al lavoratore onesto, non solo di provvedere al mantenimento suo e della sua famiglia, ma anche di accumulare un progressivo risparmio per conseguire la sua indipendenza economica e quindi affermare la sua libertà.

 

Antonello Pesolillo
Presidente Assemblea Generale Fisac Cgil Chieti




Gruppo Bper. B: Dynamic – Full value… Ma per chi?


 

B: Dynamic – Full value… Ma per chi?

 

Il 10/10 è stato presentato il piano industriale Bper “B: DYNAMIC – FULL VALUE”: un piano operativo, votato all’efficientamento per produrre dividendi e in cui si sente il forte peso degli interessi dei principali azionisti (Pay-out ratio sostenibile +75%, dividendi cumulati cash per circa €3,2 miliardi, dividend yield > 15%). Dopo anni di importanti acquisizioni, ristrutturazioni e cessioni questo piano è  più improntato alla razionalizzazione del Gruppo ed alla creazione di un modello di business, ma sempre pervaso di hybris da leading bank, che attualmente non prevede operazioni straordinarie, nuove chiusure di filiali (oltre quelle già previste per il 22/11), nuovi esodi di personale (oltre a quelli già definiti dagli accordi di dicembre 2023 e luglio 2024). Inoltre i €650 milioni previsti per la modernizzazione (IT, AI e GenAI) da ultimarsi nel 2027, in una banca che stentiamo ancora a definire digitalizzata, potrebbero rappresentare l’opportunità di migliorare procedure e processi solo se al servizio di lavoratrici e lavoratori al fine di facilitarli e coadiuvarli. Ma veniamo ai tre pilastri strategici:

  1. “Liberare il pieno valore dei nostri clienti”
    Oltre ad acquisire nuova clientela (+4% grazie all’automazione) il piano mira a dispiegare e penetrare il valore della nostra clientela recuperando masse e quote di portafoglio e liberando tempo per l’attività di vendita: Bancassurance +70% comm.ni, Consumer Finance e CQS +30% erogazioni, Wealth-Cesare Ponti: +7% CAGR, Corporate +5% comm.ni. È prevedibile quanto queste attese produrranno un incremento delle pressioni commerciali alle quali sarà necessario rispondere con radicale cambio di passo e atteggiamento anche nelle relazioni sindacali.
  2. “Catturare le nostre latenti energie di scala”
    Si prevede: -7% dei costi operativi senza toccare in modo forte il cost-income che passa da 52% al 50%, +ATM evo (100% filiali), +40% sportelli cashless, -50% transazioni fisiche, + flessibilità e servizi h24 – 7/7 e la razionalizzazione/consolidamento immobiliare. L’obiettivo di aumentare la produttività con l’ottimizzazione Zero-based dei costi e di dotarsi di un nuovo modello di servizio omnicanale, rafforzando l’offerta fuori sede e le transazioni digitali per effetto dell’automazione dei processi grazie all’AI/GenAI sia nel back office che nelle funzioni HQ e di supporto, è centrale nel piano: dovrà però misurarsi con le necessità delle persone che lavorano oggi nel gruppo.

    La velocità e l’intensità di questo processo dovranno tenere conto di lavoratrici e lavoratori, restituendo loro una parte di questa produttività anche sotto forma di miglioramento della loro qualità di vita, attraverso percorsi inquadramentali più veloci e concreti, condizioni di lavoro più adeguate e maggiori strumenti di conciliazione dei tempi vita/lavoro. Solo così la riduzione dell’organico del 10% (dalle attuali 20.400 persone a 18.400) sarà realmente sostenibile.

  3. “Fare leva sulla solidità del nostro stato patrimoniale”
    Viene mantenuto un approccio prudenziale al rischio e potenziata la gestione del recupero crediti anche grazie alla partnership con Gardant e modernizzando la gestione del rischio di credito e del capitale (anche qui grazie all’automazione). La grande enfasi sulla solidità e qualità degli asset, oltre che sui numeri della massa amministrata raddoppiata dal 2019 al 2023, non dovrà però tradursi in un venir meno dell’interesse industriale su questo comparto e, soprattutto, sulla leva di supporto ai territori funzionale alla natura del nostro essere servizio pubblico essenziale.

In sintesi si tratta di una pesante riorganizzazione del lavoro per effetto dell’introduzione su larga scala dell’intelligenza artificiale generativa con profonde rivisitazioni di funzioni e processi accompagnati dalle continue pressioni commerciali nel sacro nome del dividendo (con tutte le conseguenti criticità e ripercussioni psicosociali). Non pervenuto alcun ammorbidimento nelle relazioni industriali (le OOSS sono elementi di disturbo: l’AD sembra considerare solo gli shareholders), né si ravvisano particolari attenzioni al personale se non per dotarlo di un nuovo piano di incentivazione (presumibilmente iniquo e divisivo come i precedenti) e prodigarsi nell’upskilling del (solo) 30% [reskilling = aspettare l’esodo].

Banco di Sardegna, lost in translation (come anche Sardaleasing). Le società sarde superstiti mai neanche menzionate, sempre più considerate come un’anomalia da armonizzare più che un patrimonio da salvaguardare e valorizzare – con buona pace della sbandierata promozione della cultura ESG (€2 milioni per sostenere le comunità locali vs emissione di €1 miliardo di obbligazioni green). Nell’andamento di un settore che da anni perpetra l’abbandono di clientela e territori a basso valore (significativi i riferimenti alle Top 5 regioni wealthies) l’estinzione di una regione è un effetto collaterale accettabile. Identità, storia, professionalità e dignità delle lavoratrici e dei lavoratori del Banco di Sardegna passano in secondo piano.

Al momento il piano risulta operativo nel suo versante peggiore, più miope: nella mancata stabilizzazione, in tutta Italia, delle persone precarie. Seppur si tratti di una modalità certamente legale e rispettosa anche degli accordi sottoscritti, i sentimenti di rabbia e delusione sono i primi che hanno colto queste persone e coloro che lavorano con loro. Aver investito mesi e anni di impegno personale e, da parte aziendale, di risorse su colleghe e colleghi che sono passati tra proroghe, rinnovi, stop & go, progetti formativi e altre diavolerie ci ricordano almeno 2 cose:

  • che il precariato, su cui il Governo sta lavorando per peggiorarlo ulteriormente, non è una cosa che si vede in televisione e riguarda altri mondi, ma è pane quotidiano anche nel nostro settore;
  • che l’economia di mercato in cui siamo completamente immersi, non guarda in faccia nessuno.

Tutto si tiene insieme, ciò che accade in azienda con quanto avviene nel settore, nel Paese e tutto intorno a noi. Occorrerà fare tesoro di questa esperienza per trarne le giuste conclusioni anche per quanto riguarda le azioni che come CGIL metteremo in campo nei prossimi mesi per contrastare questo stato di cose.

 

FISAC CGIL Gruppo BPER




Il credito bancario in Abruzzo nel 2024: discesa a velocità doppia rispetto alla media nazionale

Come di consueto, è stato pubblicato il report del Prof. Aldo Ronci sul Credito in Abruzzo, che evidenzia l’andamento dei crediti vivi nel primo semestre del 2024.

Nel report si parla di “impieghi vivi”, vale a dire i finanziamenti concessi dalle banche ai propri clienti al netto delle sofferenze. Viene fatta una distinzione fra “piccole imprese” e “imprese medie e grandi” sulla base del numero degli addetti: per piccole imprese si intendono le società di persone e le imprese individuali con meno di 20 addetti.

La tabella che segue riepiloga quanto avvenuto fino al 30 giugno.


Fonte: Il Credito bancario in Abruzzo nel I Semestre 2024 – Aldo Ronci

 


In un solo semestre il totale del credito in Abruzzo si è ridotto di 425 milioni, pari al  2,25% in meno. La contrazione degli impieghi è un fenomeno che si verifica in tutta Italia, ma in Abruzzo presenta una velocità esattamente doppia rispetto alla media italiana. Questo conferma quanto da tempo andiamo sostenendo: la chiusura delle filiali nel territorio è una dimostrazione dello scarso interesse dei grandi gruppi bancari verso la nostra Regione, che si manifesta soprattutto attraverso un progressivo disimpegno.

Importante inoltre notare come questi dati segnino una netta rottura con il recente passato. Fino al 2023 il calo riguardava prevalentemente le imprese di piccole dimensioni, che soffrivano maggiormente la mancanza di punti di riferimento sul territorio, mentre quelle più grandi, assistite da centri specializzati, riuscivano anche ad incrementare l’ammontare dei finanziamenti ad esse dedicate. Adesso le imprese di maggiori dimensioni sono quelle più penalizzate dal confronto con il dato nazionale: la perdita percentuale è più che tripla, a riprova di un allontanamento non solo fisico delle banche rispetto all’Abruzzo. E questo è evidenziato da un ulteriore dato: il finanziamento medio accordato alle imprese della Regione Abruzzo corrisponde poco più della metà della media nazionale (58%).

Il decremento degli impieghi si distribuisce in maniera disomogenea: Teramo con 160 milioni e Pescara con 157 hanno registrato le perdite più consistenti, L’Aquila con 71 ha fatto registrare una flessione più leggera mentre Chieti, con 36 milioni, ha realizzato il risultato migliore grazie all’incremento ottenuto nel settore industriale nelle medie e grandi imprese.

A livello settoriale il calo maggiore si registra nell’industria, che vede vigorosi decrementi nelle province di Pescara (-131) e di Teramo (-88), più lieve la flessione all’Aquila (-8), ma fa registrare anche un inaspettato risultato in provincia di Chieti che registra un incremento di 59 milioni e che contribuisce a far realizzare a alla provincia il miglior risultato anche per gli impieghi totali. In termini percentuali il settore con il calo più marcato è quello dell’edilizia


Fonte: Il Credito bancario in Abruzzo nel I Semestre 2024 – Aldo Ronci

 

Logica conseguenza del taglio ai finanziamenti appare il dato relativo al numero degli occupati. Le imprese fanno registrare una flessione di 238 unità e registrano un decremento percentuale dello 0,16% in controtendenza con il dato nazionale che ha segnato un incremento dello 0,31%. Questo dato  posiziona l’ Abruzzo al terzultimo posto della graduatoria nazionale;

 

Scarica il report completo:

Il Credito Bancario in Abruzzo nel I semestre 2024 – Aldo Ronci

 


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Nasce, su nostra richiesta, l’Osservatorio sul Credito in Abruzzo