Vaccinazione nei luoghi di lavoro, accordo importante tra ABI e Sindacati

Abbiamo da tempo detto che serve un piano vaccinale nazionale condiviso gestito dal servizio pubblico.

L’accordo raggiunto stasera tra Sindacati di settore e ABI è importante e positivo perché è la risposta tempestiva ad una precisa sollecitazione dei Ministeri della Salute e del Lavoro.

Secondo quindi le indicazioni e le disposizioni delle Autorità, le lavoratrici e i lavoratori bancari, che operano in un settore considerato essenziale, potranno essere vaccinati, seguendo le prescrizioni del Servizio Sanitario Nazionale.

Fondamentale ora è acquisire tempestivamente da parte delle Autorità competenti una adeguata disponibilità di vaccini.

Come FISAC CGIL continueremo, poi, fin dai prossimi giorni, l’impegno ad aggiornare e arricchire i Protocolli di sicurezza, in particolare modo per ciò che riguarda i problemi legati alla genitorialità e alle persone fragili, attraverso un confronto con le nostre controparti datoriali.

Nino Baseotto • Segretario Generale Fisac Cgil


Comunicato congiunto Organizzazioni Sindacali ed ABI


Comunicato congiunto ABI, Fabi, First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca, Unisin 

Oggi, ABI e i Segretari Generali di Fabi, First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca, Unisin, hanno condiviso di favorire il percorso da parte delle banche di somministrazione dei vaccini ai propri dipendenti. 

Ad esito della costante interlocuzione sullo sviluppo dello scenario pandemico nel Paese e alla luce delle “Raccomandazioni ad interim sui gruppi target della vaccinazione anti-SARS-CoV-2/COVID-19” del Ministero della Salute del 10 marzo in cui è prevista la possibilità di vaccinare all’interno dei posti di lavoro qualora le dosi di vaccino disponibili lo permettano, le Parti nazionali hanno condiviso un ulteriore aggiornamento del Protocollo del 28 aprile 2020 con le misure di contrasto alla diffusione del virus COVID-19 per il settore bancario. 

Le Parti nazionali sono consapevoli che dalla velocità di realizzazione della copertura vaccinale dipende il progressivo superamento dell’emergenza sanitaria e delle drammatiche conseguenze anche sul piano economico e sociale e si sono impegnate ad integrare prontamente il Protocollo con le indicazioni che saranno fornite dalle Autorità competenti.


Scarica il testo del verbale




Riscossione: progetto “Superabile”

3 - Fisac CgilSegreteria Nazionale Agenzia delle Entrate – Riscossione

 

Carissime, carissimi

l’anno trascorso, ed ormai anche il futuro, ci sta insegnando nuove modalità di interazione.

Ci auguriamo che la campagna vaccinale dia una luce di speranza a questa modalità di vita repentinamente cambiata, ma sappiamo bene che anche i prossimi mesi saranno difficili.

Come sindacato, pur affrontando le difficoltà del periodo, siamo rimasti in campo e abbiamo continuato a svolgere il nostro ruolo.

In questa ottica, oltre a rappresentare i diritti collettivi, intendiamo dare maggiore attenzione alla tutela individuale, rivolta nei confronti dei colleghi che si trovano a dover affrontare i temi della disabilità.

A tal proposito, con l’ obbiettivo di tenervi costantemente aggiornati sulle iniziative aziendali da un lato, e dall’altro sulla evoluzione della normativa, stiamo creando un gruppo Whatsapp (SUPERABILE), all’interno del quale posteremo le relative informazioni in linea con i benefici di legge – che pare e lo auspichiamo veramente, siano in direzione di sempre maggiore attenzione e sensibilità .

Citiamo a titolo esemplificativo – assistenza – scuola – detrazioni e deduzioni – bollette – esenzioni .

Chiunque fosse interessato, può inviare un messaggio WhatsApp ad Enrica Diamanti (3393760768) – con l’ indicazione del nome, cognome e regione di appartenenza.

Lontani ma vicini .

Per la Segreteria Nazionale

Enrica Diamanti




Scuole chiuse: le misure per le famiglie in vigore dal 15 marzo

SMARTWORKING

Un solo genitore con figli fino a 16 anni può svolgere la prestazione in modalità agile per un periodo corrispondente in tutto o in parte alla durata della sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, alla durata dell’infezione da Covid-19 del figlio o alla durata della quarantena disposta dalla AUSL.

 

CONGEDO AL 50% DELLA RETRIBUZIONE

Solo se la prestazione lavorativa non può essere svolta in modalità agile, un solo genitore con figli fino a 14 anni può astenersi dal lavoro per un periodo corrispondente in tutto o in parte alla durata della sospensione dell’attività didattica in presenza del figlio, alla durata dell’infezione da Covid-19 del figlio o alla durata della quarantena del figlio.
Il beneficio è riconosciuto anche ai genitori dei figli con disabilità in condizioni di gravità accertata ai sensi della L. 104/92, iscritti a scuole di ogni ordine e grado per le quali sia stata disposta la sospensione dell’attività didattica in presenza o ospitati in centro diurno a carattere assistenziale per i quali sia stata disposta la chiusura.
I suddetti periodi sono coperti da contribuzione figurativa.
I periodi di congedo parentale fruiti dal 1° gennaio 2021 e fino al 15 marzo durante i periodi di sospensione dell’attività didattica in presenza di durata dell’infezione da Covid-19 del figlio o di durata della quarantena del figlio, possono essere convertiti a richiesta nel congedo al 50%
(indennizzi erogati al raggiungimento del limite di spesa di 282,8 milioni di euro per l’anno 2021).

 

CONGEDO SENZA RETRIBUZIONE

In caso di figli di età compresa tra i 14 e i 16 anni uno dei genitori ha diritto di astenersi dal lavoro senza corresponsione di retribuzione o indennità né riconoscimento di contribuzione figurativa, con divieto di licenziamento e diritto alla conservazione  del posto di lavoro.

 

BONUS BABY-SITTING

È riservato ad alcune categorie di lavoratori: autonomi, iscritti alla Gestione Separata INPS, medici, infermieri, lavoratori nel settore sanitario pubblico e privato, tutti i lavoratori impiegati per esigenze connesse all’emergenza epidemiologica.
Per figli conviventi minori di 14 anni, gli appartenenti a queste categorie possono scegliere di ricevere uno o più bonus per l’acquisto di servizi di baby sitting, nel limite massimo di € 100 settimanali. Il bonus è incompatibile con la fruizione dei bonus asilo nido e può essere fruito solo se non si ha accesso ad altre tutele ( smartworking o congedo al 50%) o se uno dei genitori non svolge alcuna attività lavorativa.
(Bonus erogati fino al raggiungimento del limite di spesa di 282,8 milioni di euro per l’anno 2021).

 

 

 

 




Il piano di Confindustria: licenziare i più anziani e assumere precari

Se mettiamo in ordine le dichiarazioni pubbliche e le interviste rilasciate negli ultimi giorni da Carlo Bonomi e il tam tam del giornale di casa, viene fuori il programma completo della Confindustria sul tema del lavoro.

In sintesi estrema, è questo: nonostante siamo ancora nel pieno della pandemia, alle aziende bisogna permettere di licenziare perché, dice il leader degli industriali, “il blocco dei licenziamenti si sta trasformando in blocco delle assunzioni”. Quindi togliere il divieto darebbe via libera alla nascita di nuovi posti. Di che tipo? Intanto quelli con contratti precari, per i quali Bonomi chiede di togliere definitivamente l’obbligo di motivarne il ricorso con la causale e i vincoli imposti dal decreto Dignità che ne ha arginato l’esplosione avviata col decreto Poletti del governo Renzi. E poi con un misto di sgravi fiscali e “solidarietà espansiva”, riducendo cioè l’orario di lavoro e lo stipendio agli attuali dipendenti, così da usare quei risparmi per far entrare i nuovi. Come tutelare poi quelli mandati a casa? Riformando gli ammortizzatori sociali, rendendo universale la cassa integrazione, senza però specificare su chi dovrebbero ricadere i costi.

La parola d’ordine, quindi, è lasciare le imprese libere di tagliare gli organici e sostituirli con giovani a tempo determinato e, quindi, con salari inferiori. È ancora aperta la partita del decreto Sostegno, quello che prima si chiamava Ristori e da settimane viene rimandato. Bonomi si inserisce battendo cassa con il decalogo confindustriale, riproponendo lo strano sillogismo per cui, sbloccando i licenziamenti, le imprese assumerebbero.

Il divieto di mettere alla porta dipendenti per ragioni economiche – in tutti gli altri casi è consentito – è in vigore dal 17 marzo 2020 e scadrà a fine mese. L’idea del governo – a maggior ragione con la terza ondata del Covid – è prorogarlo fino al 30 giugno. Finora ha funzionato per proteggere quantomeno i posti a tempo indeterminato, come confermano i dati Istat, ma non sono mancati i datori che l’hanno ignorato: tra aprile e settembre, infatti, le tabelle Inps segnano comunque 127.330 licenziamenti economici, aumentati soprattutto a fine estate, quando sono stati permessi per cessazione delle attività o con accordi di incentivi all’esodo. Un numero lontano dagli oltre 343/mila del 2019, ma comunque alto. E se già la diga ha mostrato di avere qualche crepa, aprirla del tutto provocherebbe una catastrofe occupazionale. Nel 2020, stima la Banca d’Italia, la moratoria ha evitato 700 mila licenziamenti: ambienti sindacali ne prevedono oltre il milione con la fine del divieto in primavera.

È qui che dovrebbe intervenire la riforma – cara anche alla Confindustria – degli ammortizzatori sociali. Quelli disegnati nel 2015 dal Jobs Act hanno dimostrato di lasciare senza protezione una grossa fetta di lavoratori, tanto da rendere necessaria la cassa in deroga. L’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo aveva affidato a una commissione di esperti la redazione di un piano e il 25 gennaio era pronta a presentarlo alle parti sociali. La caduta del governo ha bloccato tutto, ma il suo successore Andrea Orlando sembra voler proseguire su quella strada: ha promesso ai sindacati una convocazione nei primi di marzo, che però ancora non è arrivata e non si sa quando arriverà. Il nodo sarà individuare chi dovrà pagare le nuove tutele, più o meno generose che siano. Bonomi glissa sull’argomento, eppure è fondamentale: se in fase iniziale la riforma potrà infatti essere finanziata con la fiscalità generale, subito dopo bisognerà renderla assicurativa, quindi dovrà comportare aumenti contributivi (difficile sia questa la proposta di Confindustria).

Come detto, in cambio della libertà di licenziare, Bonomi promette una staffetta generazionale nelle aziende, ma solo rivedendo (cioè cancellando) il “meccanismo delle causali” del dl Dignità, in parte sospeso causa Covid fino al 31 marzo. L’altra richiesta è il permesso per le aziende sotto i 250 dipendenti di usare il contratto di espansione: sistema col quale i lavoratori accettano una riduzione di orario e stipendio per favorire gli ingressi di giovani. Ovviamente accompagnato da sgravi: “Va rafforzato il bonus per giovani e donne”. Soldi pubblici, insomma: d’altronde si finisce in “Sussidistan” solo se vanno nelle tasche di poveri e disoccupati, mentre se a beneficiarne sono le imprese va tutto bene.

 

Articolo di Roberto Rotunno su “Il Fatto Quotidiano” dell’11/3/21




Buoni pasto e reperibilità in smart working: ecco come funziona

Il lavoratore ha diritto al buono pasto anche se lavora da casa? E quando deve essere reperibile se non è in ufficio? Ecco cosa sapere


La pandemia ha cambiato le abitudini di tutti, tra restrizioni, Dpcm e distanziamento sociale. Tra i settori che hanno risentito maggiormente della nuova organizzazione, c’è il lavoro che è diventato sempre più “da remoto”. Nell’ultimo Dpcm, è stata confermata la possibilità di limitare la presenza del personale nei luoghi di lavoro dellaPubblica amministrazione, nelle zone rosse. Lo smart working resta largamente utilizzato anche dai datori di lavori privati, con un numero crescente di aziende (tra cui gli Istituti bancari) che intenderebbero mantenere tale possibilità anche nel post Covid (anche se nel settore bancario non si può parlare di vero e proprio smart working – in particolare per alcune figure, ma più correttamente di sw emergenziale). Ma cosa cambia rispetto al lavoro in presenza?

SMART WORKING E BUONI PASTO

Stando alla normativa in materia di smart working o lavoro agile (d.lgs. 81/2017), il lavoratore in smart working ha diritto allo stesso trattamento normativo e retributivo di colui che lavora in azienda ma, per quanto concerne i buoni pasto, le regole sono diverse. Una recente sentenza del tribunale di Venezia (decreto 3463 dell’8 luglio 2020), sulla scia di molte pronunce di Cassazione sul tema, ha affermato che dal punto di vista normativo, il buono pasto non fa parte della retribuzione, quindi il diritto al buono durante lo smart working non sussiste. Nel comparto bancario questo dubbio viene meno, in quanto il CCNL rinnovato nel 2020 precisa che il lavoratore che è in smart working non ha diritto al buono pasto.
Il discorso cambia se si tratta di una erogazione autonoma dell’azienda (in realtà il CIA o accordi aziendali ad hoc possono derogare in meglio quanto previsto dal CCNL). Sempre facendo riferimento a una sentenza della Cassazione (16135/2020), è stato precisato che anche nel caso l’attribuzione dei buoni pasto sia una prassi aziendale consolidata nel tempo, non è legittima l’aspettativa che essa si debba prolungare e il datore di lavoro può decidere autonomamente. Se il buono pasto è previsto da un regolamento aziendale, questo può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro.

SMART WORKING: I BUONI PASTO SONO DOVUTI?

Chi lavora in smart working, quindi, ha diritto ai buoni pasto dopo le recenti disposizioni di legge dello scorso febbraio? Anche in questo caso, non ci sono obblighi specifici: l’azienda è libera di decidere se mantenere o meno i buoni pasto ai dipendenti. C’è anche un altro modo di vedere la cosa: lo smart working non pregiudica in alcun modo la possibilità di concedere i buoni pasto. A tal proposito, l’Agenzia delle Entrate, in considerazione delle misure per limitare la diffusione del virus, ha specificato che i ticket restano normalmente regolamentati, quindi le imprese hanno diritto alle consuete esenzioni fiscali, anche se i ticket sono rivolti a dipendenti in smart working.

L’ESENZIONE FISCALE DEI BUONI PASTO

L’esenzione fiscale è confermata anche per i dipendenti in smart working. Il lavoro da remoto, quindi, non cambia le regole. L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il regime fiscale agevolato si applica senza tener conto della modalità di lavoro, considerando che non sono previste limitazioni normative in merito all’erogazione da parte del datore di lavoro. L’Agenzia delle Entrate mette in evidenza quanto disposto dal decreto n. 122 del 7 giugno 2017 che all’articolo 4 specifica che i buoni pasto possono essere riconosciuti ai lavoratori a tempo pieno o parziale, anche quando l’orario di lavoro non prevede una pausa per il pranzo. Nella motivazione, si tiene conto della circostanza che “la realtà lavorativa è sempre più caratterizzata da forme di lavoro flessibili”.

LA SCELTA DEL DATORE DI LAVORO

Riassumendo, l’azienda non è tenuta a mantenere necessariamente i buoni pasto per chi lavora da smart working, ma può decidere di farlo, mantenendo tutte le agevolazioni fiscali previste. Come spiegato, dipende anche dal contratto di lavoro sottoscritto: se prevede sempre i buoni pasto, anche con lo smart working, allora l’azienda è tenuta a garantire l’erogazione anche in caso di lavoro agile.

REPERIBILITÀ IN ORARIO DI LAVORO

Un rischio, con lo smart working, è quello di staccare più tardi a lavorare, restando praticamente sempre reperibili per il datore di lavoro. Tra le misure al vaglio, c’è un Ddl sullo smart working, depositato lo scorso maggio in Commissione Lavoro del Senato, che ha come oggetto una delega al governo per il riordino della disciplina in materia di lavoro agile e l’introduzione del diritto alla disconnessione per il benessere psico-fisico dei lavoratori e dei loro affetti”. Tra le misure previste, in attesa dell’avvio dell’iter legislativo: le fasce concordate di reperibilità del lavoratore. Sulla questione potrebbe esprimersi anche il Parlamento europeo che vuole garantire il diritto alla disconnessione dal lavoro, considerando che il 37 per cento dei lavoratori dell’Unione europea ha cominciato a lavorare da casa durante il primo lockdown. In ogni caso per quanto riguarda il comparto bancario il rinnovo del CCNL ha sancito il diritto alla disconnessione del lavoratore al di fuori dell’orario di lavoro. Infine per ciò che concerne il lavoro straordinario, diventa difficile da parte del lavoratore provare un lavoro extra, anche perché il log del collegamento non è sufficiente a provare che il quel momento si stesse lavorando.




Intesa Sanpaolo è veramente il miglior posto dove lavorare?

Ce lo siamo chiesti assistendo al sorprendente entusiasmo con cui un altissimo numero (assai superiore alle attese) di colleghi ha deciso di aderire al fondo esuberi.

Ce lo siamo chiesti anche osservando il morale a terra dei colleghi che per motivi anagrafici o previdenziali non sono riusciti ad approfittare della finestra di uscita.

Insomma, qualche dubbio su una eventuale risposta affermativa ci è venuta. E siamo andati a chiederci il perché di questi dubbi.

ORGANICI

Tutte le filiali sono pesantemente sotto organico, essenzialmente a causa dei tanti colleghi fuorusciti per esodi o pensioni e non adeguatamente sostituiti.
I gestori base sono divenuti ormai introvabili e molte filiali sono nell’impossibilità di assicurare il servizio di cassa, con conseguenti gravi disagi per la clientela, per il personale e per le filiali limitrofe dotate del citato servizio. A questa incontrovertibile ed ineluttabile carenza di personale non è seguita una contestuale analoga riduzione dei carichi di lavoro, anzi! Le filiali, tra mille difficoltà, si sono dovute far carico, oltre che del lavoro ordinario, anche di quello straordinario: a cominciare dai finanziamenti per l’emergenza COVID-19, con il loro corollario di report quasi quotidiani e solleciti infiniti, per passare alle varie sospensioni delle rate di mutui e prestiti, ed approdare, ciliegina sulla torta, ai finanziamenti Inarcassa. E come non tener conto delle continue pressioni subite dai colleghi in accoglienza clienti, che troppo spesso sfociano nell’insulto, nella minaccia, talvolta addirittura nell’aggressione, con continue richieste di intervento da parte delle Forze dell’Ordine?
Ed a proposito di pressioni…

PRESSIONI COMMERCIALI

Il messaggio che ci sentiamo ripetere ad ogni inizio mese da oltre un anno è: “questo è un mese cruciale e decisivo per il raggiungimento degli obiettivi annuali”. A questa affermazione seguono l’invariabile pletora di messaggi riguardanti la Tutela (ormai mantra ed ossessione per il nostro Gruppo).
Le ormai innumerevoli riunioni settimanali (praticamente spesso pluri-quotidiane), che coinvolgono tutto il personale della filiale già ridotto ai minimi termini per le circostanze citate, non fanno che sottrarre tempo prezioso alla proposizione commerciale ed alle numerose altre attività. Ed ossessiva è la ripetizione, giorno dopo giorno, sempre degli stessi concetti: l’applicazione del metodo, il passo giornaliero riguardo la Tutela, il volume di flusso netto gestito. Peccato che non ci si renda conto che l’aumento delle pressioni commerciali non comporta una maggiore motivazione e coinvolgimento del personale. Anzi, demotiva colleghi già allo stremo, con conseguente ed inevitabile peggioramento dei risultati commerciali.
Si è arrivati al punto di pretendere che vengano fissati degli appuntamenti sulla Tutela condivisi, in video conferenza, con i clienti, lo specialista ed il Direttore di Area. Addirittura, si richiede che il Gestore, il giorno precedente l’appuntamento, debba condividere con lo Specialista l’approccio da avere con il cliente. In molti casi, per quanto riguarda gli strumenti finanziari, oltre all’impostazione dell’approccio, si fa esplicito pressante riferimento ai prodotti da collocare prima dell’incontro con il cliente. E allora la domanda è: come si fa a predisporre una proposta che vada incontro alle esigenze assicurative e finanziarie del cliente senza che questi sia presente per manifestare le proprie necessità? Come viene considerata, o meglio non considerata, la professionalità del Gestore che viene, di fatto posto sotto Tutela? E quanto tempo viene sprecato in questo modo?
A tutto ciò dobbiamo aggiungere il fatto che i Gestori non sono ormai più in grado di gestire la propria agenda che è sommersa, senza alcun tipo di filtro, da incontri fissati autonomamente da clienti e da non clienti (spesso per richieste banali risolvibili in autonomia) e dalla FOL che frequentemente fissa appuntamenti di soli quindici minuti per questioni che ne richiederebbero il quadruplo, creando accavallamenti, disagi e potenziali reclami. Bisognerebbe avere una maggiore attenzione per il prezioso e difficilmente sostituibile “capitale umano” e far cessare ogni forma, diretta o indiretta, frontale o subdola, di pressione commerciale, ai fini di un ormai necessario rasserenamento del clima di filiale. Per impedire il mancato rispetto della dignità personale e professionale dei colleghi, andremo a segnalare tramite i canali ufficiali a disposizione, tutti gli episodi di cui verremo a conoscenza.

PULIZIE E SISTEMI DI PROTEZIONE

La pandemia continua ad avere un forte impatto sulla vita, lavorativa ed extra-lavorativa, di ognuno di noi. E quali sono le misure assunte dalla prima banca italiana per ridurre il pericolo sul personale? Le agenzie hanno, mai come ora, necessità di pulizie approfondite per ridurre il rischio di contagio a tutela della salute di colleghi e clienti. Peccato che gli addetti alle pulizie, nelle poche ore che hanno a disposizione, non riescano neppure ad assicurare un decente normale servizio di pulizia quotidiana. Segnalata la circostanza alle funzioni preposte, si ottiene faticosamente un temporaneo aumento delle ore a disposizione con conseguente temporaneo miglioramento del servizio di pulizia, per ripiombare dopo poche settimane nella stessa identica situazione di partenza. Questo iter si ripete fino a che, inevitabilmente, vista la scarsezza dei risultati, ci si stanca di segnalare e ci si rassegna alla situazione quo ante.

Altra scelta incomprensibile, superata in questi ultimi giorni grazie alle incessanti pressioni delle OO.SS., dopo quasi un anno dallo scoppio della pandemia, era stata quella di dotare di barriere di plexiglass nonché la promessa di mascherine FFP2 soltanto alcune delle figure presenti in filiale, pretendendo, però, che tutto il personale indistintamente incontri la clientela per la proposizione commerciale, di fatto incrementando i rischi di diffusione del virus.

La situazione insomma non è più sostenibile. E allora ritorniamo alla domanda iniziale:

“INTESA SANPAOLO È VERAMENTE IL MIGLIOR POSTO
DOVE LAVORARE?”

Roma, 11 marzo 2021

 

FABI – FIRST CISL – FISAC CGIL – UILCA – UNISIN
RR.SS.AA. INTESA SANPAOLO ROMA – LAZIO




Covid: le garanzie statali coprono più le banche delle imprese

I dati Bankitalia rivelano che nella pandemia i prestiti alle aziende sono saliti di 39 miliardi a fronte di garanzie pubbliche concesse per 150 miliardi, confermando i timori che gli istituti le abbiano usate, in parte, per mettere al riparo i loro conti


 

Il sospetto c’era, fin da quando il Decreto liquidità fu congegnato al ministero del Tesoro. Nella maggioranza, specie lato Cinque Stelle, c’erano mugugni sul fatto che le banche avrebbero potuto traslare sull’Erario i rischi creditizi delle esposizioni critiche. Ex post, i dati dicono che quel sospetto si è concretizzato; anche se è una verità che non cancella il supporto offerto dalle banche al sistema produttivo flagellato dalle chiusure. Gli istituti di credito, in tutta Europa, per disegno degli stessi banchieri centrali erano chiamati a “essere parte della soluzione, non del problema” com’era stato nella precedente crisi, che generò una stretta sul credito alle imprese nostrane stimata in circa 300 miliardi di euro nel decennio scorso, trasformando la recessione in stagnazione.

Nelle statistiche con cui Bankitalia censisce le consistenze mensili, si legge che tra fine febbraio e fine dicembre 2020 c’è uno scarto da 111 miliardi tra il monte crediti alle imprese (le “famiglie produttrici” fino a 5 addetti e le “società non finanziarie” oltre la soglia), cresciuti nel periodo da 711,6 a 750,5 miliardi, e le garanzie pubbliche che in sincrono andavano a coprire il credito bancario via Sace (20,8 miliardi nei 10 mesi) e Fondo centrale di garanzia (129,5 miliardi). Non tutto ciò che manca, ovvio, è “sostituzione”, pratica che la legge pubblicata il 9 aprile scorso per fornire garanzie pubbliche dal 70% al 90% del credito erogato alle aziende colpite da Covid, limitava alle sole “rinegoziazioni”, in cui il credito complessivo crescesse di almeno il 10% e mai sotto i 25 mila euro.
La stessa Abi, con circolare del 24 aprile, istruì le banche sul fatto che i crediti garantiti non compensassero vecchi prestiti o scoperti di conto. Ma il diavolo è nei dettagli: la mancata contestualità tra estinzioni di crediti passati e accensioni di nuovi era lo spiraglio, e le “rinegoziazioni” parevano già a maggio, citando l’avvocato Antonio Manco dal sito Altalex, “la strada più indicata per progettare un’ampia e generale sanatoria delle pendenze debitorie pregresse”.

Dati da interpretare

Sui dati iniziali, censiti da un sondaggio della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, la tipologia “sostitutiva” non era quasi emersa: e lo stesso Tesoro, da proprie stime a fine aprile, la rintracciava solo nel 2,4% delle richieste, il 4,3% degli importi totali. Lo scarto spalancato nei mesi seguenti, fino ai 111 miliardi di dicembre, va interpretato: una parte delle garanzie pubbliche è certo andata a colmare cali fisiologici del credito in essere, anche sostituendo scadenze a breve termine con prestiti maggiorati e a medio-lungo (ma coperti da Sace o Mcc); un’altra parte sarebbe servita a ridurre rischi bancari pregressi. L’ufficio studi di Fisac Cgil, che aveva analizzato le stesse serie statistiche tra marzo e ottobre 2020 rilevando un differenziale di 80 miliardi sulle due grandezze, stima si tratti “per circa 50 miliardi di calo delle nuove erogazioni standard, ma per altri 30 miliardi di meccanismi di abbattimento dei rischi bancari, con le risorse del Dl liquidità che hanno parzialmente sostituito il credito ordinario”.
C’è poco da sorprendersi, se nella crisi più feroce da un secolo gli istituti abbiano cercato di ridurre l’esposizione alle economie: per rafforzarne la capacità di assorbire le perdite su crediti da Covid, stimate fino a 1.000 miliardi tra le vigilate europee e fino a 100 miliardi in Italia, proprio la Bce 13 mesi fa congelò la distribuzione di cedole per 30 miliardi agli azionisti bancari. E sempre la Bce da sei mesi lavora a minimizzare gli effetti di un credit crunch che è nelle cose: tanto che già a fine settembre 2020, sfruttando varie forme di sostegno dei governi nazionali – e principalmente le garanzie al credito come quelle italiane – 18 tra i maggiori istituti europei avevano limato di 120 miliardi di euro gli attivi ponderati al rischio (Rwa), con Unicredit tra le più solerti con 42 miliardi di Rwa in meno nel periodo.

La tendenza prosegue: l’ultima ricerca di Kepler Cheuvreux, dal titolo “Meno moratorie e più garanzie pubbliche in Italia”, registra come nel quarto trimestre 2020 le banche italiane quotate abbiano ridotto di circa 100 miliardi i finanziamenti in moratoria (tra i più a rischio) rispetto ai tre mesi prima: e con tassi di default all’1% circa, sei volte meno che nella crisi 2009-2013. Lo spaccato dà qualche indizio sugli operatori più “dinamici”, in pratica tutti: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Bper, Mps, Illimity hanno aumentato di almeno il 25% le garanzie statali su finanziamenti tra il terzo e il quarto trimestre 2020, a fronte di un taglio di almeno il 21% dei prestiti a rate congelate.

Le pmi e la poca liquidità

“Il bazooka messo in campo dall’ex premier Conte non è riuscito ad aggredire con successo la cronica mancanza di liquidità che storicamente assilla in particolare le Pmi – osserva Paolo Zabeo, direttore della Cgia di Mestre -. Solo un quarto delle garanzie messe a disposizione dallo Stato tramite Sace e Mcc è finito nelle casse degli imprenditori, mentre si sono avvantaggiate le banche, anche se è bene sottolineare che tutto il sistema economico ha tratto beneficio dall’applicazione dei vari provvedimenti governativi, tra cui il Dl liquidità“.
Proprio le piccole imprese, siano “famiglie produttrici“, “quasi-società artigiane” o “altre”, risaltano dalla base statistica di Bankitalia come quelle che hanno aumentato di più, nei primi nove mesi 2020, i depositi bancari e postali: a fine settembre 807 miliardi di euro dei 1.936 miliardi totali di giacenze liquide erano detenuti da queste tre tipologie aziendali, dopo incrementi tra il 20 e il 27% da gennaio.

È un’ulteriore spia di tensione nel rapporto tra le banche e i clienti più piccoli, che in diversi casi potrebbero aver parcheggiato sul conto i finanziamenti garantiti in attesa di tempi migliori per utilizzarli.

“L’incremento del risparmio, lievitato durante la pandemia anche grazie alle garanzie pubbliche, deve essere trasformato in investimenti”, dice Nino Baseotto, segretario generale della Fisac Cgil. Il sindacalista dei bancari, in vista di prossimi rinnovi della misura sulle garanzie pubbliche al credito, propone poi di introdurre “l’obbligo per le banche di considerare le linee garantite come aggiuntive e non sostitutive, per le imprese beneficiarie di investirne almeno l’80% entro 12 mesi, e che le grandi imprese garantite tramite Sace almeno mantengano i livelli occupazionali”.

 

Articolo di Andrea Greco su Repubblica del 1 marzo 2021 




Riscossione: quota 100

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AI LAVORATORI DEL SETTORE DELLA RISCOSSIONE

Vi informiamo che in data 8 marzo le Scriventi Segreterie, in risposta alla richiesta inviata in data 25 febbraio u.s., hanno ricevuto la comunicazione che la Direzione Centrale Pensioni dell’INPS ha diramato alle Sedi territoriali dell’Istituto con riferimento alle domande di accesso alla pensione anticipata c. d. “Quota 100” presentate dagli iscritti al Fondo esattoriale.

L’Istituto precisa che possono essere liquidati i suddetti trattamenti pensionistici anticipati in favore dei soli soggetti istanti, iscritti al Fondo esattoriale, che:

  • abbiano fatto domanda di rimborso della contribuzione esattoriale e ne abbiano diritto; tale facoltà può essere esercitata, a pena di decadenza, da chi cessa dal servizio con almeno 15 anni di iscrizione al Fondo e fino a cinque anni prima del compimento dell’età utile per la pensione di vecchiaia;
  • oppure siano in possesso di almeno un contributo per attività “non esattoriale” ed abbiano presentato la domanda di ricongiunzione ai sensi dell’art.1 L.29/1979 entro la data di presentazione della domanda di pensione.

Esprimiamo soddisfazione per aver finalmente ottenuto le indicazioni uniformi e chiare su tutto il territorio nazionale che rivendicavamo fin da quando è entrata in vigore la normativa relativa a “Quota 100”. Tuttavia, vista la complessità della materia, raccomandiamo alle lavoratrici ed ai lavoratori interessati ad avvalersi di questo strumento di porre grande attenzione e cautela nel verificare la propria posizione previdenziale ed assicurarsi che ricorrano tutti i requisiti necessari per la maturazione dei diritti.

Vi ricordiamo inoltre che continua la nostra azione volta all’attuazione della riforma del Fondo esattoriale attraverso l’emanazione della circolare attuativa, a seguito della quale verrà definito l’assetto previdenziale del Settore.

Roma, 9 marzo 2021

 

Le Segreterie Nazionali




Piano vaccini: Sindacati e Abi scrivono a Draghi

 

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ABI e Organizzazioni sindacali Fabi, First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca, Unisin hanno oggi inviato una lettera al Presidente del Consiglio, al Ministro dell’Economia e delle Finanze, al Ministro della Salute, al Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, al Governatore della Banca d’Italia e al Commissario Straordinario per l’emergenza epidemiologica Covid-19, per chiedere che nella realizzazione del piano per la somministrazione dei vaccini – ferma naturalmente la priorità per le persone più fragili e quelle impegnate in prima linea nella lotta contro la pandemia – sia tenuto in particolare considerazione il personale impegnato nell’erogazione dei servizi bancari, in quanto inclusi tra quelli pubblici essenziali ai sensi della legge n. 146 del 1990.

I DPCM che si sono succeduti fin dall’inizio dell’emergenza pandemica (da ultimo il 2 marzo 2021, art. 29) hanno sempre previsto – anche nelle fasi più acute – che fossero garantiti, nel rispetto delle norme igienico-sanitarie, i servizi bancari, finanziari e assicurativi, in considerazione del loro ruolo di sostegno all’economia, alle famiglie e alle imprese.

La garanzia di tali servizi è stata possibile anche grazie al forte e costante impegno di ABI e delle Organizzazioni sindacali di settore che hanno condiviso, in specifici Protocolli di settore, misure di prevenzione, contrasto e contenimento della diffusione del virus Covid-19, aggiornandone costantemente i contenuti (da ultimo il 21 dicembre 2020), e allo straordinario impegno e senso di responsabilità delle lavoratrici e dei lavoratori che lavorano in banca.

Lettera congiunta ABI-OOSS sul piano vaccinale

 

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L’8 marzo tra leggende e realtà

Perché la data dell’8 marzo è stata scelta per celebrare la Giornata Internazionale della Donna?

Secondo una credenza ampiamente diffusa, questa data dovrebbe ricordare l’8 marzo 1908 quando, a causa di un incendio in un’industria tessile di New York (dal nome “Cotton” cioè cotone), morirono centinaia di operaie. La storia presenta elementi da film horror: le povere operaie sarebbero state rinchiuse nello stabilimento dal proprietario, un certo Mister Johnson, che aveva così voluto punirle per aver osato protestare per le condizioni di lavoro disumane. Sembra addirittura che l’incendio non fosse casuale, ma appiccato dallo stesso padrone della fabbrica.

Una storia terribile, ma per fortuna totalmente inventata. Non esiste nessun incendio dell’8 marzo 1908, nessuna fabbrica Cotton, nessun Mr. Johnson (e complimenti per la fantasia nell’inventare i nomi….).

Un incendio ci fu invece qualche anno dopo, il 25 marzo 1911, nella fabbrica di New York Triangle Shirtwaist Company: furono 146 i morti tra uomini e donne, in maggioranza stranieri, molti anche ItalianiQui c’è il sito che commemora l’evento, che evidentemente influenzò la nascita della leggenda.

In realtà di una giornata da dedicare alla donna si era già parlato nel corso dell’Internazionale Socialista 1907, cioè prima del fantomatico incendio. La prima celebrazione avvenne il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti; progressivamente diversi stati europei cominciarono a dedicare una giornata alle donne, senza che ci fosse una data ufficialmente definita.
L’8 marzo 1917, in Russia, le donne di San Pietroburgo organizzarono una grande manifestazione di piazza per chiedere la fine della Grande Guerra; con loro non c’erano uomini a sfilare, perché tutti impegnati sul fronte. Questo corteo fu una delle scintille che innescarono la rivoluzione russa; per questo motivo, nel 1921 la data dell’8 marzo fu dichiarata “Giornata internazionale delle operaie“.
L’arrivo delle grandi dittature europee e la Seconda Guerra Mondiale fecero passare in secondo piano la ricorrenza, ricordata in  modo discontinuo ed occasionale finché, il 16 dicembre 1975, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione nella quale si invitava ogni paese a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle Donne e per la pace internazionale“. L’8 marzo fu scelto come data ufficiale dalla maggior parte delle nazioni.

Già che ci siamo, perché l’8 marzo si regalano mimose?

Sempre secondo la tradizione (infondata, come abbiamo visto) all’esterno della fabbrica “Cotton” crescevano dei cespugli di mimose, che così furono scelte come simbolo per ricordare la tragedia. Peccato che tale fiore si usi solo in Italia, e non negli Stati Uniti dove la tragedia immaginaria sarebbe ambientata.
E allora come nasce l’usanza di regalare mimose? La ragione è estremamente pratica, e molto poco poetica. Le mimose furono scelte in una votazione dell’UDI (Unione Donne Italiane) tenutasi nel 1946, sulla base di due motivi molto concreti: costano poco, e sono già fiorite ai primi di marzo.

Spogliata da tutte le leggende, la Giornata della Donna ha ancora senso? Assolutamente sì!
Basta leggere un po’ di numeri che fotografano la situazione del nostro Paese:

  • In Italia meno del 50% delle donne lavora, contro il 70% degli uomini (siamo il paese “avanzato” con la più bassa occupazione femminile).
  • La retribuzione media delle donne è all’incirca il 60% di quella degli uomini. Ciò è dovuto al fatto che molto più spesso degli uomini le donne lavorano con contratti a termine o con part-time non sempre volontari, e che le posizioni di vertice delle aziende sono quasi sempre appannaggio degli uomini.
  • Una donna su quattro è costretta a smettere di lavorare quando diventa mamma.
  • Le pensioni delle donne sono inferiori mediamente di circa 1/3 rispetto a quelle degli uomini. Negli ultimi 10 anni, nei Paesi UE il gap pensionistico tra uomini e donne è diminuito del 5%: in Italia siamo in controtendenza, con un aumento del 2%.

Sono numeri che dimostrano quanto sia lunga ancora la strada da percorrere, ma che discendono da un modo di pensare che non è cambiato molto negli ultimi 100 anni, e che è ancora ampiamente diffuso in larghe fasce della popolazione.
Abbiamo tutti nelle orecchie le urla della leader di uno dei più importanti partiti presenti nel nostro paese, che poco più di un anno fa arringava i suoi seguaci con le parole “Sono una donna, sono una madre, sono Italiana, sono cristiana”.
Una frase che da sola basta a descrivere un modo di vedere il mondo.
Perché in definitiva è a quello che “servono” le donne: alla riproduzione. Alla cura dei figli ed alla pulizia della casa. E da brave madri nate in Italia, a trasmettere alle future generazioni gli insegnamenti cristiani e le nostre tradizioni che tanto contribuiscono a tenere le donne in una condizione di subordinazione.
Ed è agghiacciante che a lanciare questo slogan sia stata una donna.
Un concetto che un membro dello stesso partito ha tenuto a ribadire nei giorni scorsi: “Il padre deve dare le regole, la madre accudire.”
Esiste una diffusa corrente di pensiero per la quale non è cambiato evidentemente molto dal 1934 quando Mussolini scriveva che l’occupazione femminile “… ove non è diretto impedimento distrae dalla generazione e fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”.
Ed è una logica conseguenza di questo modo di pensare la convinzione che la donna debba in qualche modo “appartenere” all’uomo, e la sua scelta di interrompere un rapporto sia un torto inaccettabile per l’uomo “padrone”, da punire con durezza. Una logica aberrante, ma che causa ogni anno la morte di tante donne colpevoli di voler vivere liberamente la propria esistenza:75 vittime nel solo 2020, già 12 da inizio 2021.
E anche quando non si arriva al gesto estremo, all’uccisione di una donna, sono comunque tanti gli uomini che pensano che una donna non possa avere il diritto di dire di no.
I dati ISTAT dicono che in Italia il 31,5% delle donne abbia subito una qualche forma di violenza, fisica o sessuale. Parliamo di una donna su tre: una percentuale abnorme, spaventosa.

Se c’è un augurio da rivolgere a tutte le donne è che possa arrivare un giorno in cui nessuno si ricordi più di quando si celebrava la Giornata Internazionale della Donna, un giorno in cui nessuno ricorderà il tempo in cui esistevano assurde discriminazioni tra i sessi.

Ma quel giorno è lontano, davvero lontano. Per questo ognuno di noi ha il dovere di battersi in ogni modo per renderlo un po’ più vicino.