Fusioni tra banche e “Fusione” dei bancari: trova le differenze
In questi mesi e nei prossimi assisteremo in Italia ad un tumultuoso succedersi di fusioni e acquisizioni bancarie. Esse hanno tutte lo scopo dichiarato di rafforzare i valori patrimoniali degli istituti, di migliorare il margine operativo lordo, di ottimizzare il rapporto tra utile netto e mezzi propri. Una impresa che incrementa il proprio patrimonio, che produce un risultato operativo in utile, che accresce la propria quota di mercato è il sogno di chiunque in quella impresa ha messo soldi, ed è anche un presupposto necessario (almeno sul medio-lungo periodo) affinché quell’impresa possa essere dichiarata profittevole, visto che le imprese (quelle bancarie in particolare) hanno tra i propri scopi istituzionali la creazione di valore per i soci – nemmeno le banche “etiche” fanno eccezione, sotto questo profilo. Milton Friedman, economista divenuto consigliere di Reagan, affermò nel 1970 che “lo scopo principale di un’impresa è quello di massimizzare i profitti per i suoi azionisti” . Due anni dopo, disse testualmente: “i grandi dirigenti, all’interno della legge, hanno responsabilità nei loro affari al di fuori di fare il più possibile soldi per i loro azionisti? E la mia risposta a questa domanda è: no, non ne hanno”.
Molti economisti venuti dopo Friedman hanno criticato questa visione, affermando che i portatori di interessi di un’azienda sono molti di più, e addirittura alcuni di essi si pongono al di fuori dell’azienda stessa: da queste considerazioni ha preso le mosse l’affermazione del concetto di “responsabilità sociale” dell’impresa. Responsabilità nei confronti dei propri dipendenti, dei propri clienti, ma anche dei cittadini, dei territori, dell’ambiente. L’ Unione Europea definisce la Responsabilità Sociale d’Impresa come la “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. E’ possibile affermare che l’impresa bancaria assolve a questa responsabilità sociale finanziando, ad esempio, qualche iniziativa economica di riconversione energetica, o di sviluppo di energie alternative? Non è forse vero che il primo agglomerato sociale direttamente correlato all’impresa è quello della sua società “interna”, costituita dai suoi dipendenti e dai suoi clienti, siano essi risparmiatori o prenditori di danaro? Non è forse vero che l’etica dei comportamenti si misura anzitutto nel rapporto che si instaura nelle proprie relazioni, con le persone care, gli affetti e gli amici, prima che con le dichiarazioni di solidarietà verso il mondo? Credo sia vero. Altrimenti si cade nell’antico vizio di predicare bene e razzolare male.
Nei fatti, le fusioni bancarie appaiono ispirate molto più alla visione di Milton Friedman che a quella dei suoi critici successori. Una visione anni settanta trasportata senza troppi scrupoli nell’anno 2021. In apparenza, i portatori di interessi “interni” sono tre: i soci, i dipendenti, i clienti. Nei fatti, i dipendenti e i clienti al dettaglio sono portatori di interessi che appaiono strumentali alla massimizzazione del profitto dell’azionista. Non esiste pari dignità tra questi “stakeholders”. Se li mettessimo su un podio, il gradino più alto sarebbe a distanza siderale dagli altri due. I dipendenti, i tanto vituperati bancari, somigliano a dei corrieri incaricati di portare a destinazione il pacco (il budget, l’obiettivo di vendita) lungo una strada disseminata costantemente di lavori in corso, che ne rendono il percorso lastricato di ostacoli e di imprevisti che però non contano e non devono contare – per qualche capo area degli affari non conta nemmeno il fatto di essere in una pandemia, figuriamoci il resto.
Così aumenta lo stress correlato al lavoro, l’ansia della domenica sera, il vomito del lunedì mattina, la caduta di motivazione e la perdita del senso di appartenenza alla propria azienda. Lavorare per obiettivi, in un’azienda contemporanea, dovrebbe essere un’altra cosa: motivare i collaboratori e consentire loro di ottenere risultati grazie alla conoscenza dei loro clienti, che implica una concessione di autonomie decisionali, un riconoscimento di dignità professionale e umana. Invece la vita di moltissimi bancari, specialmente di rete, è fatta di report incessanti per dimostrare non già di avere raggiunto un obiettivo, ma di avere “fatto qualcosa”: telefonate, appuntamenti, contatti.
Una impostazione che si giustifica solo partendo dall’assunto che il proprio personale sia fatto di potenziali lavativi che hanno bisogno dell’occhiuto superiore per darsi da fare. Una concezione infantile del rapporto tra azienda e dipendenti, circondata da una organizzazione paramilitare all’italiana, dove anche le inefficienze e le sacche di parassitismo ricordano certi uffici dei marescialli dell’esercito, intenti a portarsi i prosciutti della mensa a casa mentre la truppa sgobba e mangia pasta scotta (chi ha fatto la leva sa di cosa parlo).
I clienti non sono tutti uguali. C’è quell’ uno per cento di “classe dirigente” ammanicata col potere politico, per cui un Ennio Flaiano conierebbe anche oggi alcune delle sue fulminanti definizioni, che ha causato l’ottanta per cento dei crediti a sofferenza, spesso concessi da banche-bancomat. Poi c’è il restante novantanove per cento che si vede negare il credito per merito del dissesto provocato dall’uno per cento precedente, oppure che deve sperare nel bancario corretto che cerca di soddisfare le sue esigenze reali di risparmio, anziché incappare nel fenomeno in carriera che cerca di vendere cappotti all’equatore e ghiaccio agli esquimesi, e sapete perché? Perché la struttura lo premia. Premia la quantità di pezzi venduti, non importa come. Il controllo di qualità è una cosa che in banca arriva quando un giudice o un’autorità si occupano delle polizze decorrelate vendute come condizione di concedibilità di un finanziamento, si occupano di un derivato capestro, o di una polizza index linked venduta ad un ottantenne.
Il risiko bancario cui assistiamo ed assisteremo contribuirà a migliorare i rendimenti ed il valore dell’investimento dei soci e degli azionisti? Di sicuro ci proverà. Contribuirà a migliorare le condizioni di lavoro e la qualità del servizio? Non ci proverà nemmeno. Non sono obiettivi, questi ultimi, che rientrano tra gli scopi del risiko. Proprio questo quadro impone una inedita ma necessaria alleanza tra i risparmiatori e i dipendenti, perché solo una saldatura tra gli interessi degli stakeholders più deboli potrà costituire un argine allo strapotere dei padroni delle ferriere.
Articolo di Nicola Cavallini su Ferraraitalia.it