Piani industriali grandi gruppi bancari = ulteriore impoverimento del territorio.

Da mesi, come Fisac e CGIL L’Aquila, stiamo lanciando il grido d’allarme riguardo l’ abbandono del nostro territorio da parte dei grandi Gruppi bancari. Oggi si sta concretamente verificando quanto da noi paventato.

Un esempio lampante (ma non l’unico) è rappresentato dal piano industriale della BPER e dai suoi effetti nella nostra Provincia, per la quale rappresenta la più importante realtà nel mercato del Credito.
Dal mese di aprile di quest’anno sono circa 30 i lavoratori della Provincia dell’Aquila usciti dall’Azienda, contando anche quelli che cesseranno alla fine del mese di settembre; pur trattandosi di lavoratori che verranno accompagnati alla pensione, il mancato turn-over rappresenta un innegabile impoverimento per il territorio. L’accordo che disciplina gli esodi, datato 29/10/19, prevede 2 nuove assunzioni ogni 10 uscite: ad oggi, a fronte di circa 30 esodati, le assunzioni effettuate in Provincia sono state solo 2. Il timore è che alla riduzione dell’occupazione si accompagni un’ulteriore delocalizzazione verso altri territori, considerati più allettanti dalla Banca: un timore che si estende alle ulteriori uscite previste dal piano fino al 31 marzo 2021.

Segnali in tal senso ce ne sono già diversi. Temevamo da tempo che gli uffici di Viale Pescara si avviassero verso un progressivo smantellamento, sulla scia di quanto già accaduto all’Ufficio Ricostruzione; oggi ci preoccupa apprendere che lavoratori prossimi all’esodo siano stati chiamati a passare le consegne a colleghi che opereranno da altri territori, a riprova dell’intento di spostare il lavoro dalla nostra Provincia.
A giorni l’Azienda dovrebbe comunicare l’elenco delle filiali destinate a chiudere entro la fine dell’anno: abbiamo ragione di temere che il nostro territorio possa essere pesantemente colpito da nuove chiusure, che si aggiungerebbero ai due sportelli che hanno già abbassato le saracinesche nel corso dell’anno, senza contare gli ulteriori tagli in arrivo nel 2021. Non si tratta, purtroppo, di un fenomeno che riguarda la sola BPER: basti pensare alle 4 filiali chiuse in Provincia dal MPS nei mesi scorsi, ed alle prevedibili ulteriori chiusure che saranno prodotte dall’accorpamento di UBI in Banca Intesa o dal previsto ridimensionamento di Banca Popolare di Bari.

Il fenomeno dell’abbandono bancario ha conseguenze gravissime: non rappresenta soltanto una perdita di posti di lavoro ma costituisce un forte limite nell’accesso al credito ed ai servizi bancari da parte delle imprese locali, minandone pesantemente le prospettive di crescita. E’ appena il caso di ricordare che in Provincia dell’Aquila circa due terzi dei Comuni sono sprovvisti di sportelli bancari; la chiusura di una filiale in un comune montano contribuisce in maniera decisiva ad accelerarne lo spopolamento.

Colpisce il fatto che l’importanza della questione sia totalmente ignorata dalla politica locale, che finora si è mostrata del tutto indifferente ai nostri appelli, mostrando di non comprendere quanto il fenomeno contribuisca al declino economico ed anagrafico delle aree interne.

 

CGIL – CDLT L’AQUILA                                                           FISAC/CGIL PROV.LE L’AQUILA
IL SEGRETARIO                                                                       IL SEGRETARIO
FRANCESCO MARRELLI                                                           LUCA COPERSINI

 

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Lezione giapponese: così gli Yes Men affossano le aziende

Il Giappone offre spesso lezioni di macroeconomia, come anticipatore di eventi e trend come bolle economiche, il loro scoppio, la deflazione, i tassi zero e così via. Anche sul piano del management tutti sanno che il Sol Levante ha molto da insegnare, per lo più in positivo. Ma i due più gravi scandali recenti nella Corporate Japan fanno riflettere sul versante negativo delle pratiche aziendali Made in Japan e sollevano un problema generale per la gestione delle imprese.
Una icona del settore manifatturiero come Toshiba ha rischiato il collasso e ha dovuto varare una pesantissima ristrutturazione, cedendo gioielli di famiglia come il settore medicale, in seguito alla scoperta di bilanci “abbelliti” per almeno sette anni. La casa automobilistica Mitsubishi Motors è andata in crisi per la vicenda dei test truccati sui consumi e per fortuna ha trovato un salvatore in Nissan.

In entrambi i casi è emerso che la radice del problema sta nei rapporti perversi tra top management, dirigenti di medio livello e tecnici. In sintesi: il top management stabilisce obiettivi irrealistici, la fascia media non osa sollevare obiezioni e, nell’ansia di non deludere i piani alti, preme sui tecnici (contabili in un caso, operativi nell’altro) perchè accettino di dichiarare il falso garantendo loro una copertura interna. Alla Toshiba si trattava di target ufficiali sulla crescita dei profitti operativi, anche per settori e regioni. Alla Mitsubishi Motors il Performance Testing Department è stato messo sotto pressione da almeno un dirigente centrale perché manipolasse i dati sull’efficienza dei motori per conseguire l’obiettivo – stabilito ancora più in alto loco – di incrementare entro un periodo fisso i chilometri che il motore debba percorrere con un litro di benzina.

Ancora una volta, l’enfasi culturale sul «non perdere la faccia», a tutti i livelli, ha portato a comportamenti dissennati che hanno messo in pericolo l’esistenza stessa delle aziende. È una vecchia storia che non riguarda solo il mondo delle imprese: dopotutto, al di là delle differenze di risorse con gli Usa e al di là dell’atomica, non poteva vincere la guerra un Paese dove la Marina tace per molti mesi all’Esercito e allo stesso primo ministro la gravissima sconfitta di Midway per non perdere la faccia…

Non «poter dire di no» sconfina nel non «dover dire di no» e poi nel non «voler dire di no», con tragici risultati.

Una volta iniziata la discesa su chine simili, le manipolazioni continuano negli anni fino a scoppiare con fragore. Sane gestioni aziendali hanno chiaramente bisogno di un «Giappone che sa dire di no», come da parafrasi del titolo del bestseller di Morita e Ishihara (riferito ai rapporti con il grande fratello Stati Uniti). Toshiba e Mitsubishi Motors offrono dunque una grande lezione di management aziendale: gli «yes men» possono portare alla catastrofe societaria per mancanza di coraggio nel dire la verità e nel prestarsi a fingere di soddisfare pretese che ritengono chiaramente impossibili.

 

Fonte: www.ilsole24ore.it




Nazismo, Fascismo e Comunismo: la differenza spiegata in parole semplici

Lo storico Alessandro Barbero spiega, in modo semplice e convincente, le differenze tra Nazismo, Fascismo e Comunismo.
Puoi scegliere in che modo seguire la sua spiegazione: leggendo il testo o guardando il video linkato alla fine dell’articolo.


Il Nazismo è una cosa che è stata inventata in Germania negli anni ‘20 e vent’anni dopo è finita: nel 1945 i capi nazisti sono morti tutti. Chiunque era stato nazista si è affrettato a buttare via il distintivo e a giurare che lui, per carità: “Sì, mi ero iscritto al partito per obbligo, però mai stato nazista in vita mia!” E il Nazismo lì è finito.
Poi voi direte “Ci sono ancora gli Skinheads in Germania Est che si ispirano a queste cose” (non ci stanno simpatici, magari): ma non è qualcosa di profondamente radicato e significativo. Il Nazismo, di per sé, è il Regime nazista: una roba che è stata messa su in Germania, che aveva lo scopo di rendere potente la Germania e sterminare gli Ebrei, scopo dichiarato fin dall’inizio. È stato quello. Tanto che, se voi trovate oggi uno che dice: “Io sono nazista”, è inutile chiedergli: “Ma Hitler ti sta simpatico?” Perché se uno è nazista, Hitler gli sta simpatico.
Il Nazismo aveva come simbolo la croce uncinata, la svastica; e la svastica vuol dire quello. Se uno oggi si volesse mettere una svastica all’occhiello, vuol dire: “Io sono per la dittatura, il militarismo, lo sterminio degli Ebrei, la grande Germania e così via”. Vuol dire quello.

E il Fascismo?
Il Fascismo è nato nel ‘19 e nel ‘45 è morto. È durato poco più di vent’anni anche lui. È morto il Fascismo ma non sono spariti i fascisti. L’Italia era piena di fascisti ed è tutt’ora piena di fascisti, perché il regime ha governato il Paese per lungo tempo, con un consenso diffuso anche se non generalizzato, ha fatto delle cose che una parte del Paese voleva. Nella memoria delle famiglie italiane moltissime famiglie hanno memoria di nonni antifascisti, operai finiti in galera, partigiani. Moltissime altre famiglie, invece, hanno memoria di nonni fascisti che hanno raccontato ai loro figli che nell’Italia fascista si viveva benissimo, non c’era nessun problema e non si capisce perché oggi si deve…. è così, questo è un dato di fatto. Però Il Fascismo in quanto tale, come fenomeno storico, dura dal ‘19 al ‘45. Dopo c’è il Neofascismo che è un’altra cosa. E infatti, se voi trovate qualcuno  (lo trovate di sicuro, anche qui nel quartiere penso sia pieno di persone che dicono “Ah, io sono fascista in realtà”) è inutile chiedergli: “E Mussolini ti sta simpatico?” Perché se uno è fascista, essere fascista vuol dire identificarsi col regime di Mussolini. Quello è. E il fascio littorio è il simbolo di quel regime, di quei valori. Quali sono i valori? Beh, l’Italia dev’essere forte, potente, unita, non bisogna litigare,  non ci devono essere partiti (che litigano fra loro), non ci devono essere giornali che scrivono cose scandalose. Dev’essere un Paese unito, forte, gerarchico. Non bisogna eleggere i Sindaci: decide il Governo chi dev’essere il Sindaco di Roma. Bisogna marciare tutti quanti per le strade, tutti inquadrati, e così l’Italia sarà forte, potente e rispettata. È una roba che piaceva a un sacco di gente. E a me, se qualcuno mi dice: “ Questa roba mi piace” mi sta anche bene. Ha tutto il diritto di dirlo, naturalmente. Però il Fascismo è quello.

Ma il Comunismo?
Ammettiamo pure che sia finito anche lui, perché nel mondo di oggi non lo si vede come una forza organizzata e attiva e neanche come un ideale preciso condiviso, come una cultura diffusa. Ammettiamolo pure. Ammettiamo che sia finito il Comunismo, che i Cinesi non siano comunisti, è tutta un’altra cosa (e lì sarebbe lunga), ma ammettiamo che sia finito.
È nato all’inizio dell’800 il Comunismo. Nel 1848 esce un librino firmato da Marx e Engels che comincia con le parole “Uno spettro si aggira per l’Europa”. E cioè i padroni, i ricchi hanno i brividi perché si sono accorti che i loro operai non si accontentano più di lavorare ed essere sfruttati ma si stanno organizzando e vogliono qualcosa. Vogliono cambiare il mondo.
Comincia nella prima metà dell’800 e dura fino a ieri. Centocinquant’anni. Il Comunismo è esistito in tutti i Paesi, nel senso che in tutti i Paesi del mondo ci sono state persone che dicevano “Io sono comunista, voglio il Comunismo”; ci sono state organizzazioni e partiti comunisti. Nella grande maggioranza dei Paesi non sono mai andati al potere, sono sempre stati perseguitati. Essere comunista voleva dire rischiare la galera o molto peggio. Perché ci sono tanti Paesi dove essere comunista a un certo punto voleva dire: ti sbattono al muro se ti trovano.
Dopodiché i partiti comunisti sono andati al potere in molti Paesi, per primo in Russia nel 1917 e poi, dopo la seconda guerra mondiale, nel ‘45 in tanti altri Paesi. E non c’è nessun dubbio che al governo siano stati disastrosi. Non c’è nessun dubbio sul fatto che i Comunisti, dovunque sono andati al governo, hanno messo in piedi dei regimi fallimentari.
In Unione Sovietica è stato messo in piedi un regime omicida e assassino che ha dato tante cose – molta più eguaglianza che sotto il capitalismo – ma anche molta retorica vuota, molta propaganda insopportabile e molta violenza omicida. Stalin incarna un comunismo al potere che nei suoi anni, in quei vent’anni in cui Stalin è stato al potere in Unione Sovietica, ha fatto più morti di quelli che ha fatto Hitler. Certo!
Dopodiché, il Comunismo è quello?
Vallo un po’ a dire a uno che lottava per organizzare gli operai e farli scioperare nell’Italia appena unita di Vittorio Emanuele II che il Comunismo sono i campi di concentramento. Vallo un po’ a dire a quelli che si son fatti ammazzare in tanti Paesi lottando contro il colonialismo per esempio, e pensando che il Comunismo era una cosa meravigliosa.
Erano degli illusi? Può darsi benissimo. Però essere comunista, per la stragrande maggioranza della gente che per 150 anni è stata comunista, ha voluto dire: “Noi sogniamo un mondo migliore”. E cioè non un mondo dove marciamo tutti inquadrati e invadiamo l’Etiopia o la Polonia, beninteso: un’altra cosa. Un mondo dove sono tutti fratelli, tutti uguali.
Era un’utopia, erano degli illusi? È probabile. Quando hanno avuto la possibilità di applicarlo hanno fatto dei disastri! Verissimo. Dopodiché, la differenza mi pare evidente rispetto al Fascismo e al Nazismo. E se uno ignora questa differenza ignora la verità. Perché  la verità è che tu non puoi dire “Essere comunista è come essere nazista, la falce e martello è come la svastica”. Sono due cose diverse.

Guarda il video

 




Multati gli ex amministratori Carispaq

Confermate le sanzioni amministrative di Bankitalia per 258mila euro all’ex dg Tordera, al cda e al collegio sindacale.


L’AQUILA. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Roma che con decreto del 4 luglio 2017 aveva rigettato l’opposizione proposta dalla Banca Popolare dell’Emilia Romagna spa e da Raffaele Marola, Ettore Barattelli, Aldo Tranquilli, Luciano Cicone, Adriano Rossi, Stefano Fabrizi, Roberto Colagrande, Rinaldo Tordera, Claudio Zaffiri, Pietro Passerini, Donato Lombardi, Franco Pingue, Marco Fregniavverso il provvedimento con il quale la Banca d’Italia ha irrogato sanzioni amministrative per complessivi 258.000 euro all’Istituto di credito, in solido con gli esponenti aziendali, sanzionati nelle rispettive qualità di componenti del consiglio di amministrazione, di direttore generale e di componenti del collegio sindacale della Carispaq (Cassa di Risparmio della Provincia dell’Aquila)” che all’epoca dei fatti faceva parte del gruppo Bper.

LA SENTENZA.
La Banca d’Italia, si legge nella sentenza pubblicata ieri “all’esito dell’ispezione svolta nel periodo 8 novembre 2010-4 febbraio 2011, avente ad oggetto la verifica del rispetto della normativa antiriciclaggio ha contestato i seguenti illeciti: A) carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti del cda; B) carenze nei controlli da parte dei componenti del collegio sindacale. A ciascuno dei componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale è stata applicata la sanzione di 18.000 euro, al direttore generale la sanzione di 24.000 euro. A sostegno della decisione di rigetto dell’opposizione la Corte d’Appello di Roma ha evidenziato che la contestazione di scarsa funzionalità delle azioni di contrasto del riciclaggio era supportata dagli esiti dell’attività ispettiva”.

LE MOTIVAZIONI. La Cassazione ha respinto diversi motivi proposti dai ricorrenti a sostegno delle proprie ragioni, motivi sia “tecnici” che di merito. In particolare, scrivono i giudici dell’Alta Corte in relazione al profilo probatorio, “la Corte d’Appello ha evidenziato con rilievi puntuali quanto emerso dall’ispezione, precisando che era mancata l’individuazione dell’effettivo titolare di 1.900 clienti persone giuridiche, pari al 17% del totale; non era stata prestata attenzione alle problematiche sorte nella fase di ricostruzione post-terremoto, che avrebbe richiesto invece l’adozione di strumenti idonei a consentire la tracciabilità dei flussi di danaro confluiti per la ricostruzione; era mancato il funzionamento integrale del Pns (presidio normative specifiche); vi erano state omissioni nei controlli delle movimentazioni, con conseguenti maggiori difficoltà nella tracciabilità del denaro e, in generale, si era riscontrato ritardo nell’identificazione di operazioni sospette. In generale erano state riscontrate frequenti movimentazioni di danaro contante non coerenti con l’attività del cliente di riferimento, e ciò anche nella filiale di Roma che non era coinvolta nell’attività di ricostruzione post-sisma. Si trattava di carenze significative dell’attività di monitoraggio della clientela, tali da rendere concreto il rischio del riciclaggio, e ciò è sufficiente ad integrare le violazioni contestate”.

CARENZE ORGANIZZATIVE. La tesi secondo cui le carenze organizzative sarebbero addebitabili alla società capogruppo”, scrivono ancora i giudici, “della quale gli amministratori e sindaci di Carispaq avrebbero recepito le direttive, è stato superato dalla Corte d’Appello con il richiamo alla disciplina dei gruppi societari, che milita nel senso dell’autonomia delle società coordinate o che fanno parte di gruppi societari, donde la perdurante responsabilità degli amministratori e dei sindaci di ciascuna società per l’attività da essa svolta. Per un verso, quindi, la soggezione alle scelte organizzative della capogruppo non poteva comportare l’esonero da responsabilità di amministratori e sindaci di Carispaq e, per altro verso, la gravità delle disfunzioni organizzative e contabili rilevate era tale da incidere necessariamente sull’efficacia dell’azione antiriciclaggio, donde l’esigibilità di un intervento da parte di amministratori e sindaci di Carispaq finalizzato a riportare la situazione sotto controllo”. La Corte quindi “rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 6.200”.

 

Fonte: wwww.ilcentro.it




Gruppo BPER: BASTA files Excel Fai da Te !

Sono passati solo pochi mesi da quando BPER Banca ha ricevuto la certificazione “TOP EMPLOYER ITALIA 2020”, vedendosi riconoscere come azienda leader nell’ambito delle risorse umane con livelli di eccellenza nelle politiche di formazione e sviluppo e nelle strategie di gestione delle Risorse Umane e una forte attenzione al miglioramento continuo di politiche, processi e iniziative a favore dei dipendenti.

Sono passate solo poche ore dalla pubblicazione e divulgazione dei risultati consolidati di Gruppo al 30 giugno 2020, con manifesta soddisfazione da parte dell’Amministratore Delegato che, nella missiva ai colleghi, confida sul contributo e sulla professionalità di tutti per proseguire su questa strada, ad iniziare dal progetto di acquisizione di un ramo d’azienda dal Gruppo Intesa Sanpaolo.

A fronte di tutto ciò rimaniamo amareggiati e sorpresi del fatto che l’azienda possa permettere la sistematica violazione degli accordi sottoscritti, a livello nazionale e di gruppo, inerenti le politiche commerciali.

Nonostante la recente ri-pubblicazione delle slides dove sono evidenziati i comportamenti virtuosi che le aziende del gruppo BPER dovrebbero tenere, registriamo purtroppo l’invio sempre più frequente di files artigianali dei quali Hub manager, Area manager o Direttori Regionali (con toni anche perentori ed evidenziazioni in grassetto) chiedono la compilazione, con dati puntuali e sul prodotto nonchè sulla futura produzione (forecast) per ogni singolo aggregato.

Non Si Può e Non Si Deve ! 

E’ una violazione degli accordi sottoscritti: il monitoraggio e la verifica dei dati commerciali vanno attuati con modalità strutturata e proceduralizzata.

Tutto ciò provoca ulteriore stress nei colleghi oltre a quello già vissuto per le condizioni lavorative dovute alle carenze di organico e procedurali e per la pandemia. Si acuisce quella dipendenza psicologica nei confronti delle figure di direzione.

Nel comunicare  a tutti i lavoratori che la mancata compilazione di Files abusivi non potrà essere motivo di ritorsioni da parte aziendale, ribadiamo di essere a disposizione per  ricevere le segnalazioni e monitorare la situazione.

In caso di un ulteriore mancato riscontro da parte delle aziende ci attiveremo per definire insieme ai lavoratori ulteriori azioni!


FISAC-CGIL Gruppo BPER




Perché i migranti scappano da casa loro?

La povertà in Nigeria, il terrorismo in Mali, le guerre che lacerano il paese nel Sudan. E ancora, i migranti «invisibili» dalla Tunisia e la repressione in Afghanistan. Dietro alla fuga di milioni di cittadini ci sono motivi che ignoriamo. O non riusciamo ancora a capire


Veniva dal Mali, aveva 14 anni e la speranza, sotto forma di una pagella scolastica, cucita nella giacca. Veniva dal Mali ed è morto nel Mediterraneo il 18 aprile 2015. A raccontare la storia di questo piccolo naufrago è stata Cristina Cattaneo, medico legale che negli ultimi anni si è occupata di riconoscere i corpi dei migranti annegati in mare.

Ci sono domande che ci facciamo poco. Ad esempio perchè quel ragazzino venisse dal Mali. Perché sui barconi che arrivano (sempre meno per la verità) non ci siano mai ragazzini (o uomini o donne) della Namibia, del Rwanda, del Botswana o anche della poverissima Sierra Leone. Ma ci sono spesso cittadini del Sudan, della Nigeria, dell’Eritrea, del Mali. Se ci facessimo queste domande scopriremmo che dai paesi in cui convivono pacificamente gruppi etnici e religiosi diversi (come in Sierra Leone) dove c’è un’economia vivace e governi stabili e poco corrotti (come in Bostwana) e nessuna crisi idrica o ambientale (come in Rwanda) nessuno vuole andarsene.

Nessuno lascia casa se sta bene a casa sua. Nessun quattordicenne si mette nella giacca una pagella e affronta il deserto, le carceri libiche, il rischio concreto di affogare se sta bene a casa sua. Allora perché alcuni scappano? Il continente africano è composto da 54 paesi. Molti non li sentiamo mai nominare perchè da quei paesi nessuno arriva sotto casa nostra. Altri paesi attraversano crisi profonde umanitarie, politiche, economiche, climatiche o nella sfera dei diritti umani. Ed è da questi e per queste ragioni che si creano i flussi migratori.

Le mille contraddizioni della Nigeria
Se c’è un paese da cui cominciare per indagare i contesti di partenza dei migranti questo è certamente la Nigeria. Con i suoi 190 milioni di abitanti è il paese più popoloso del continente africano e il settimo nel mondo. È un paese giovanissimo: il 40% della popolazione ha meno di 14 anni e, con un tasso di crescita del 2,6% annuo, dovrebbe raggiungere entro il 2050 i 250 milioni di abitanti, poco meno della metà degli abitanti del continente europeo. Sul piano economico la Nigeria è un paese di forti contraddizioni. È povero e allo stesso tempo in crescita economica, seppur con alti e bassi, garantita soprattutto dalla presenza di giacimenti di petrolio. Dalla Nigeria sono arrivate 36 mila persone nel 2016 e 18 mila nel 2017. I nigeriani sono la nazionalità di sub-sahariani più numerosa in Italia (i residenti erano 93.915 al 1 gennaio 2017).

Perché i nigeriani emigrano? Il primo profilo di migranti nigeriani è composto da giovani delle zone rurali con scarsa formazione e poca possibilità di impiego.
Il secondo profilo è costituito da ragazzi, spesso minori, che si trovano in gravi situazioni familiari e pensano che l‘Europa sia il solo orizzonte di sopravvivenza possibile.
Il terzo profilo è quello composto dagli abitanti delle regioni del delta del fiume Niger. Si tratta di regioni ricchissime in petrolio, ma la cui estrazione ha conseguenze devastanti per l’ecosistema e per le popolazioni che vivono principalmente di agricoltura e pesca. In questo caso parliamo di rifugiati ambientali, costretti all’esilio a causa della devastazione subita dal territorio in cui risiedevano. La pratica delle espropriazioni forzate da parte delle compagnie petrolifere in accordo con lo Stato aumenta la povertà e l’emarginazione sociale.
Il quarto profilo è composto da ragazze giovani, a volte minorenni, destinate alla tratta per la prostituzione. Molte delle storie di queste ragazze sono simili. Desiderose di raggiungere l’Europa con la speranza di una vita migliore, fanno affidamento a dei passeur con la promessa di un lavoro come colf o come cameriera. Contraggono un debito dai 30 ai 50 mila euro che dovrebbero teoricamente pagare con una parte dei soldi guadagnati con il lavoro promesso e una volta portate in Italia sono costrette a prostituirsi. Se si rifiutano mettono in pericolo la famiglia rimasta in Nigeria, che rischia di subire minacce da parte dei membri della mafia nigeriana, molto attiva in questa vera e propria tratta di esseri umani. Il quinto profilo è quello di coloro che scappano da Boko Haram, un gruppo terroristico jihadista attivo dal 2002 ma le cui azioni violente sono aumentate negli ultimi cinque anni, cioè da quando l’attuale leader Abubakar Shekau ha preso le redini del gruppo, sconfinando anche nei paesi vicini come Camerun, Niger e Ciad. Tra il 2009 e il 2017 le azioni terroristiche di Boko Haram hanno causato 51 mila morti di cui 32 mila civili e 2,5 milioni di sfollati.

Somalia, Eritrea, Gambia, in fuga da dittatura e fanatismo
In cima alla lista dei paesi africani da cui i migranti provengono c’è stata per anni anche la Somalia. Prima il regime di Siad Barre, poi la guerra civile, infine l’estremismo che è passato dalle Corti islamiche agli Al Shabaab, hanno fatto si che una grande fetta della classe media del paese sia fuggita all’estero. La diaspora somala è tra le più nutrite al mondo. Poichè la Somalia è un’ex colonia italiana per molti somali è parso naturale venire in Italia. A proposito di ex colonie per anni in Italia sono arrivati anche molti cittadini eritrei. Sono stati loro, fra il 2015 e il 2018, ad affollare i barconi.

Scappano da un dittatore, Isaias Afewerki, al potere da quasi vent’anni, che obbliga i suoi cittadini ad un servizio militare a vita, che ha soppresso la libertà di stampa e di pensiero. Non tanto diversa è stata fino a due anni fa la situazione del Gambia dove Yahya Jammeh ha governato per 22 anni dopo essere arrivato al potere con un colpo di Stato e aver represso ogni dissenso con veri e propri squadroni della morte. Per questo il Gambia, il più piccolo paese africano con solo due milioni di abitanti, è stato negli anni scorsi in testa nelle classifiche dei paesi di provenienza dei richiedenti asilo in Europa.

Repubblica Centrafricana e Sudan, quando la guerra spacca a metà il paese
Ci sono paesi poi, come la Repubblica Centrafricana, che continuano a essere dilaniati da una guerra civile che sembra non voler finire mai. Ex colonia francese, da sempre uno dei territori più poveri del pianeta, dal 2012 la repubblica Centrafricana è di nuovo in preda all’ennesima guerra civile tra la coalizione di governo cristiana anti-balaka e le forze ribelli a maggioranza musulmana Sèlèka.Lo stupro è usato come arma di guerra, i massacri sono all’ordine del giorno e la gente continua a scappare. In questo paese un bambino su 24 muore nel primo mese di vita, due terzi della popolazione è senza accesso ad acqua potabile e la metà è in stato di insicurezza alimentare. Nel primo semestre 2018 gli sfollati erano 1,2 milione. Tutti numeri che diventano in fretta migranti.

Un altro paese africano di cui ci interessiamo poco, ma la cui situazione ci dovrebbe invece essere cara perché molti giovani africani arrivano in Italia da quell’area è il Sudan. Nel 2018 un migrante su tre di quelli che sono sbarcati sulle nostre coste proviene da questa terra. Nord e sud Sudan sono arrivati a uno scontro durato oltre vent’anni dal 1983 al 2005 che ha causato più di due milioni di morti e quattro milioni di dispersi. Alla fine il Sud Sudan è diventato un paese indipendente nel 2011. Ma nonostante questo per entrambi i paesi non c’è pace e di conseguenza molti abitanti del Sudan e del Sud Sudan emigrano.

Il Mali è il nono paese di provenienza (Viminale, dati immigrazione 2018) dei migranti provenienti in Italia. La povertà, l’instabilità politica, la diffusione del terrorismo islamico e le crisi ambientali sono le cause di migrazione. Nel nord del paese tra il 2013 ed il 2014 le forze fedeli ad Al Qaeda nel Sahel hanno costituito un piccolo emirato durato pochi mesi, ma che ancora oggi non manca di mostrare profonde cicatrici soprattutto per ciò che concerne la stabilità e la sicurezza. Come se non bastasse il Mali è uno dei paesi più poveri al mondo. Occupa il quintultimo posto nella classifica mondiale dello sviluppo umano stilata dalle Nazioni Unite, e la maggior parte della popolazione – il 77% – vive con meno di due dollari al giorno.

Il “colpo di grazia” della crisi ambientale
Diverse crisi ambientali hanno aggravato ancora di più le condizioni del territorio che per il 35% è di natura desertica. Nel 2011, una crisi alimentare ha causato nuove migrazioni che si sono orientate così, verso il Mediterraneo. Il collasso della Libia di Gheddafi, è stato un altro motivo che ha spinto i maliani verso l’Europa. Forse anche il quattordicenne con la pagella nella giacca, chissà. Situazione simile in Ciad, ex colonia francese, paese molto povero dove è in corso una crisi umanitaria senza precedenti che porta a migrazioni infinite. La malnutrizione acuta, endemica nella regione, colpisce non solo le province rurali della fascia del Sahel ma ora è cronica e ha raggiunto proporzioni allarmanti tra i bambini sotto i cinque anni a N’Djamena, capitale del Ciad, città di circa 1,5 milioni di abitanti.

Bisogna anche dire che la nazionalità africana che arriva di più in Italia oggi è quella dei tunisini, per lo più con sbarchi fantasma. Dei 4.953 migranti arrivati nel 2019 la maggior parte sono tunisini. Secondo Flavio Di Giacomo dell’Oim, la ripresa dell’emigrazione tunisina è dovuta principalmente al peggioramento della situazione economica nel paese nordafricano. Il tasso di disoccupazione nazionale in Tunisia è al 15%, e arriva addirittura al 25% nelle aree rurali del Paese. Quella giovanile è al 40% e quella dei laureati è al 31%. La povertà e la fame rimangono opprimenti in molte aree del territorio e migliaia di persone non hanno mai smesso di protestare nelle piazze, sfociando talvolta anche in manifestazioni violente. A fuggire dalla Tunisia è quindi un’intera generazione frustrata e senza prospettive. Malgrado l’incremento di arrivi, sono poche le richieste di asilo concesse ai tunisini giunti nel nostro Paese proprio data la loro natura di migranti economici. Con la Tunisia è inoltre in vigore un accordo di rimpatrio per i migranti che arrivano in Italia. E così si infrange per i tunisini il sogno italiano.

I paesi di provenienza non-africani: Pakistan e Bangladesh
Ci sono poi due nazionalità, non africane, che sono sempre più presenti negli sbarchi e fra gli arrivi via terra: Pakistan e Bangladesh.
Il Pakistan è il secondo paese per provenienza in Italia nel 2019 dopo la Tunisia (dati Viminale). Nel 2018 secondo Eurostat la principale nazionalità dei richiedenti protezione internazionale in Italia è stata quella pakistana (15 per cento del totale), seguita da quella nigeriana (10 per cento) e da quella bangladese (8 per cento). Anche qui bisognerebbe cercare di capire perché partono. I migranti che arrivano dal Bangladesh per lo più fuggono dalla povertà. Molti dei bangladesi che stanno arrivando sulle coste italiane negli ultimi mesi lavoravano nelle imprese di costruzione, negli alberghi e nella ristorazione in Libia. Prima della caduta di Muammar Gheddafi la Libia era un paese d’elezione per i bangladesi che volevano lavorare qualche anno all’estero per mettere da parte un po’ di soldi.

Tuttavia negli ultimi mesi la situazione sta peggiorando per questo gruppo di immigrati: i gruppi criminali li rapiscono, li rinchiudono in luoghi isolati dove li picchiano e li torturano. Quindi scappano in Italia.
La situazione in Pakistan è piuttosto complicata. È un paese musulmano moderno, che fa parte delle Nazioni Unite e del Commonwealth, è una potenza nucleare a tutti gli effetti e uno stato solido finanziariamente parlando perché la Cina fa grandi investimenti. Eppure la disoccupazione è un problema enorme tanto quanto gli investimenti. Così come la paura degli attentati che colpiscono la popolazione civile perchè il paese ha serissimi e gravi conflitti ai suoi confini. Ad Ovest c’è il confine meridionale dell’Afghanistan, in mano ai talebani che hanno da tempo cominciato a penetrare anche oltre il confine pakistano, assieme a altri gruppi terroristici come Al Qaida e Isis.

E proprio dall’Afghanistan c’è il costante flusso di profughi in fuga dall’Afghanistan meridionale in mano ai talebani. Il governo di Islamabad è in crisi sulla gestione dell’accoglienza anche considerando il fatto che il Pakistan è il quinto stato più popolato del mondo. Per arrivare nel nostro paese i profughi pakistani sono costretti a viaggi durissimi via terra che passa dall’Iran e la Turchia, dove si imbarcano. E poi c’è la strada che passa attraverso i Balcani: Bulgaria e Servia, poi la Bosnia ed infine la Croazia dalla quale riescono ad arrivare in Italia. Chissà quanti di questi ragazzini hanno la pagella cucita nella giacca.

 

Fonte: www.ilsole24ore.it

 

 




Permessi L.104, è consentito andare in giro per commissioni senza disabile?

La Corte di Cassazione ha di recente fornito una risposta più che esaustiva alla domanda riguardante il caso di permessi 104 e commissioni in giro senza il disabile.


Il parere dei giudici della Cassazione è arrivato tramite la sentenza n. 12032/20 del 19.06.2020.

La Corte di Cassazione, nello specifico, si è pronunciata sui casi di fruizione abusiva dei permessi previsti dall’art. 33, co. 3, della legge n. 104/92.

Ricordiamo che i Permessi della Legge 104 sono retribuiti. In particolare, il lavoratore, ciascun mese, ha diritto ad uno dei due tipi di permessi retribuiti pari a:

  • 2 ore giornaliere (se l’orario è almeno pari a 6 ore al giorno);
  • 3 giorni, continuativi o frazionati.

Tuttavia la legge ha imposto dei vincoli per evitare gli abusi di questi permessi: e di questo tratta la Sentenza.

Permessi 104, le commissioni in giro senza disabile sono consentite?

La Suprema Corte è quindi intervenuta in tema di permessi ex legge 104 del dipendente per assistere il parente bisognoso di cure.

Nel caso in esame a una lavoratrice era stato comminato un addebito disciplinare dalla Società datrice di lavoro. Tuttavia, per i giudici, la relazione dell’agenzia investigativa da cui la datrice di lavoro aveva evinto che la lavoratrice non aveva prestato effettiva assistenza alla madre disabile durante il periodo di fruizione dei permessi, forniva un quadro lacunoso delle attività svolte dalla donna.

Infatti la Corte sostiene che soltanto quando viene a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto.

Solo in questi casi si compie una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente.

In sintesi la fruizione del permesso è compatibile con momenti di assenza, durante i quali l’assistente può compiere altre attività, a beneficio proprio o del familiare con l’handicap.

 

Fonte: www.lentepubblica.it

 

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Domande bonus baby sitting: prolungata la scadenza

Bonus baby-sitting, centri estivi e servizi integrativi per l’infanzia: tutte le domande potranno essere presentate fino al 31 agosto 2020. 


Arriva la nota dell’Inps: i servizi di baby-sitting svolti durante il periodo compreso dal 5 marzo 2020 al 31 agosto 2020 possono essere remunerati tramite il Libretto Famiglia e dovranno essere inserite sulla piattaforma delle prestazioni occasionali entro il 31 dicembre 2020.

La legge di conversione 77/2020, in vigore dal 19 luglio 2020, ha esteso di un mese il termine per la fruizione da parte dei genitori del congedo parentale speciale sino a 30 giorni (15+15) per accudire i figli in conseguenza della sospensione dei servizi educativi per l’infanzia e delle attività didattiche nelle scuole causata dalla crisi epidemiologica da COVID-19.

Il congedo è utilizzabile in alternativa al bonus baby-sitting. L’estensione del primo periodo si riverbera anche sul secondo (fermo restando gli altri requisiti e condizioni per la fruizione).

Congedo parentale covid 19 e domanda bonus baby sitting hanno entrambi scadenza 31 agosto 2020.


Spese sostenute fino al 31 agosto 2020

Il beneficio potrà essere utilizzato per le seguenti finalità:

1) servizi di baby-sitting sino al 31 agosto 2020 mediante il tradizionale Libretto Famiglia (le spese dovranno essere inserite in piattaforma per prestazioni occasionali entro il 31 dicembre 2020);

2) iscrizione a centri estivi, ai servizi integrativi per l’infanzia, ai servizi socio-educativi territoriali, ai centri con funzione educativa e ricreativa e ai servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia. Il periodo da tenere in considerazione è sempre il periodo della chiusura dei servizi educativi scolastici, quindi fino al 31 agosto 2020.

Tale beneficio non è cumulabile con il bonus nido.

Il rimborso avverrà mediante:

  • accredito su conto corrente bancario o postale;
  • accredito su libretto postale;
  • carta prepagata che abbia un codice IBAN;
  • bonifico domiciliato presso le poste.

La scelta va indicata in sede di domanda.

Si rammenta che con il DL “Rilancio” (DL 34/2020) il legislatore ha raddoppiato l’importo erogabile da 600 a 1.200 euro (e da 1.000 a 2.000 euro per le categorie sicurezza, difesa e soccorso pubblico e per il settore sanitario, pubblico e privato accreditato).

E’ usufruibile esclusivamente da:

  • genitori di figli che alla data del 5 marzo 2020 abbiano un’età inferiore a 12 anni. Se trattasi di figli con handicap in situazione di gravità iscritti a scuole di ogni ordine e grado o ospitati in centri diurni assistenziali l’età non rileva.
  • genitore che all’interno del nucleo familiare non abbia altro beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa (ad esempio, NASPI, CIGO, indennità di mobilità, ecc.) o altro genitore disoccupato o non lavoratore.

L‘importo, inoltre, non aumenta in presenza di più figli minori in quanto è ancorato al nucleo familiare.

 




L’azienda mi mette in cassa integrazione e mi costringe a lavorare

Quelle che seguono sono testimonianze di lavoratrici e lavoratori costretti a lavorare a nero pure essendo stati posti in CIG a seguito dell’emergenza Covid.

Pur non avendo raccolto testimonianze dirette, possiamo ragionevolmente supporre che il fenomeno riguardi anche il nostro settore, in particolare nel comparto dell’appalto assicurativo, dove la possibilità di ricorrere allo smart working ha reso più facile sfruttare il lavoro nero,  non essendo necessaria la presenza in agenzia dei lavoratori.
Truffe del genere si erano già verificate in città nell’immediato post sisma: purtroppo è estremamente difficile perseguirle visto lo stato di assoluta ricattabilità in cui vivono i lavoratori del comparto.


La minaccia/1. “Questa è la proposta che mi ha fatto il mio datore di lavoro: tu lavori da casa a tempo pieno e io ti do la differenza in nero tra la cassa integrazione e il tuo stipendio. Io ho risposto di no e, forse, ne pagherò le conseguenze, ma purtroppo alcuni miei colleghi hanno accettato”.
F. B.

La minaccia/2. “La mia azienda ci fa lavorare in nero le giornate festive al costo delle ordinarie (senza il supplemento del 28%) in regime di cassa integrazione. O ci accontentiamo oppure ci verranno pagate alla fine della cassa integrazione, cioè non si sa ancora quando”.
L.

Alla luce del sole. “Un importante resort siciliano ha riaperto a metà maggio. Sono ripartite tutte le attività e tutti i dipendenti hanno ripreso a lavorare. Peccato che siano ancora in Cassa integrazione”.
G. A.

Da Nord a Sud. “Io con i miei 100 colleghi, distribuiti su 3 diversi sedi (Lombardia, Toscana e Sicilia), siamo stati messi in cassa integrazione, ma abbiamo sempre tutti lavorato in smart working”.
S.

Senza interruzione. “Lavoro in un hotel lombardo e sono un addetto alla reception. Ho lavorato tutto il periodo del lockdown senza ricevere un soldo dai titolari, ma solo dalla Cig. L’hotel non segue le più elementari disposizioni contro il coronavirus”.
R. C.

L’inganno sui banchi. “Sono un insegnante dipendente di una scuola paritaria. Nei mesi di lockdown, noi insegnanti (siamo tutti dipendenti a tempo determinato) ci siamo adoperati per fare le lezioni online. L’azienda si è dimostrata totalmente assente ed è sempre stata informata di ogni situazione manifestando il proprio benestare ed esprimendo anche la propria gratitudine per il lavoro svolto. A fine marzo ci comunicano che per tutelare noi dipendenti veniamo messi in cassa integrazione e che l’azienda avrebbe pagato soltanto una percentuale del nostro orario settimanale. In maniera verbale ci viene detto che per noi non sarebbe cambiato nulla: ‘Avrete il vostro stipendio. Non perderete un euro, lasciando quindi intendere che l’istituto ci avrebbe pagato la differenza tra il normale stipendio e la cassa integrazione. Non è stato così. In tre mesi (marzo, aprile e maggio) ho perso più di 500 euro al mese. Purtroppo lo abbiamo scoperto solo a fine giugno, quando ormai l’anno scolastico era finito e noi avevamo regolarmente continuato a insegnare. Invece le rette imposte dalla scuola alle famiglie (da 3 mila a 5 mila euro annui a studente) è stata interamente versata dai genitori”.
R. C.

Evasione fiscale e nero. “Lavoro nel settore dei trasporti. Durante il lockdown ho avuto a che fare con tante imprese che sono rimaste aperte. Io andavo a caricare da loro, ma mi facevano una bolla provvisoria per poter viaggiare. Poi, quando arrivavo a destinazione, strappavano i documenti per dichiarare di essere fermi. Così non hanno mai fatturato”.
M.

La truffa dell’Iban. “Nell’azienda artigiana dove lavoro hanno chiesto la Cig per noi dipendenti, ma invece di dare il nostro Iban hanno dato quello dell’azienda. Quando sono arrivati i soldi degli ultimi 20 giorni di marzo, l’azienda si è trattenuta la Cig dei dipendenti per 20/25 giorni prima di darcela”.
P. P.

La ritorsione. “Nell’hotel dove lavoro a orario pieno, la titolare ci paga lo stipendio metà lei e metà grazie alla Cassa integrazione. Io ho un contratto per la sostituzione di una dipendente che è in malattia. Un paio di dipendenti si sono lamentati dicendo che se lei paga solo metà stipendio, loro vogliono fare metà orario: li ha lasciati a casa”.
S. C.

Surreale. “Ho lavorato e lavoro regolarmente pur essendo in Cig fino al 31 agosto. I soldi mi sono stati anticipati dall’azienda e la differenza tra la quota dell’Inps e il mio stipendio mi è stata data dal datore di lavoro, tranne che per un mese dove da loro non ho preso nulla”.

 

Pubblicate su Il Fatto Quotidiano del 7/8/2020

 

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Mps: esodi e assunzioni – siglato l’accordo

1 - Fabi 2 - First Cisl 3 - Fisac Cgil 6 - Uilca Unisin nuovo logo

Si è oggi conclusa la procedura di confronto sindacale avviata ai sensi degli artt.20 e 21 del CCNL, in tema di riduzione degli organici nel Gruppo MPS. Abbiamo ottenuto l’importante risultato di mantenere tutte le garanzie già previste nei precedenti Accordi in materia di esodi.
Questi in sintesi i punti principali dell’Accordo:

Uscita al 1° novembre 2020 di 500 colleghi, che maturino i requisiti per il diritto ai trattamenti pensionistici AGO entro il 1/1/2025;
• Adesioni solo su base volontaria;
• La domanda di adesione dovrà essere presentata a partire dal 24/8/2020 e non oltre il 13/9/2020;
• Mantenimento per tutto il periodo di permanenza nel Fondo di Solidarietà, delle coperture assistenziali (Rimborso Spese Mediche) e delle agevolazioni creditizie, condizioni e servizi tempo per tempo vigenti per il personale in servizio;
• Assunzione del coniuge o figlio in caso di decesso durante il periodo di adesione al Fondo;
• Mantenimento posizione accesa presso i Fondi previdenziali aziendali;
• Possibilità di continuare a beneficiare dei servizi previsti dalla Cassa Mutua;
• Impegno a ricercare possibili soluzioni condivise con il Sindacato in caso di modifiche normative sui requisiti di accesso alla pensione AGO.

Con il fondamentale obiettivo di salvaguardare la tenuta organizzativa e operativa del Gruppo MPS, abbiamo anche ottenuto l’impegno aziendale a realizzare nel biennio 2020-2021 un numero complessivo di assunzioni pari a 1 entrata ogni 2 uscite determinate dall’adesione al Fondo di Solidarietà.

Le assunzioni, le cui modalità saranno come di consueto oggetto di confronto sindacale, avverranno già a partire da gennaio 2021 e saranno prioritariamente indirizzate al rafforzamento della Rete Commerciale.

Riteniamo sicuramente positivo il risultato raggiunto con questo negoziato che, pur in coerenza con gli obiettivi del Piano 2017-2021 riguardanti il ridimensionamento delle strutture organizzative del Gruppo, ha tenuto conto sia delle legittime aspettative di uscita anticipata dei colleghi, che dell’esigenza di intervenire sulle conseguenti inevitabili scoperture di ruoli e funzioni professionali e nondimeno ha creato un’importante opportunità di nuova occupazione in un contesto di crisi socio-economica epocale per il nostro Paese.

Siena, 6 agosto 2020

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