Il welfare aziendale è una iattura

Riceviamo spesso dai lavoratori richieste di consigli in merito all’opportunità di destinare al welfare aziendale le somme derivanti dai premi di produttività.

A questa domanda risponde Alberto Perfumo con il volume “Il welfare aziendale è una iattura” (dal quale abbiamo tratto il titolo del post).
L’autore è responsabile di un’azienda che si occupa di consulenza in materia di welfare aziendale; tuttavia, invece di sostenere a spada tratta i vantaggi del welfare, riferisce correttamente anche dati e informazioni negative. Che la sua opinione sia controcorrente si comprende sin dall’introduzione, della quale riportiamo un estratto:

“Il welfare aziendale è una iattura”, mi ha detto un candidato durante un colloquio, riportando la frase di un amico impiegato presso una grande azienda. Ma come? Durante la selezione per una società che offre servizi e consulenza in ambito welfare aziendale e mentre in giro non si parla d’altro, un lavoratore dice che si tratta di “una iattura”?
In realtà, l’affermazione non mi ha sorpreso: da mesi rifletto sul boom del fenomeno welfare aziendale. Con i miei 16 anni di esperienza nel settore ho sentito la necessità di una riflessione seria sull’argomento. E mi piace pensare che questa riflessione possa essere utile ad altri.

Si è ormai affermata, da più parti, la convinzione che il welfare aziendale sia la soluzione ideale per tutti e che convenga ad aziende e dipendenti.
In realtà il welfare aziendale è ingannevole: vengono sbandierati vantaggi fiscali e contributivi, ma nel complesso la scelta è economicamente in perdita.

Nel settore privato le aziende premono affinché i lavoratori destinino al welfare i premi variabili di risultato anziché riceverli in busta paga. Apparentemente, per chi fa questa scelta ci sono vantaggi tangibili.
Incassare i premi direttamente in busta paga significa pagare il 9,19% di contributi previdenziali e il 10% d’imposta (comunque ridotta rispetto all’aliquota ordinaria Irpef che va dal 23% al 43%.)
Destinarli al welfare significa evitare ogni contributo o imposta. Ecco perché questa seconda opzione è apparentemente quella più conveniente.

C’è però un aspetto che può sfuggire al lavoratore. Versando il premio di produzione nel welfare, anche il datore di lavoro è esentato dal versare la sua quota di contributi previdenziali, pari all’incirca al 24% della retribuzione.

Ricapitolando: destinando i premi di risultato al Welfare il lavoratore si trova una maggiorazione immediata del 19% (subito vanificata nel caso la somma venga utilizzata per spese mediche o per altre spese potenzialmente detraibili, che a quel punto non possono essere detratte perdendo il beneficio fiscale che ammonta esattamente al 19%).
Così facendo però perde contributi INPS nella misura complessiva del 33%. 
Per invogliare i lavoratori a scegliere di utilizzare comunque il welfare, le aziende tendono ad offrire maggiorazioni a chi sceglie questa opzione, che possono arrivare al 10-15%: comunque inferiori al risparmio ottenuto dal mancato versamento dei contributi.

E’ bene ricordare che i contributi previdenziali non sono soldi persi: più contributi versati comportano una pensione più alta.
Perfumo cita uno studio secondo cui mille euro l’anno in welfare per 37 anni causano una decurtazione della pensione di 873 euro l’anno.

Quindi qual è la scelta migliore?

Se si riesce ad utilizzare il welfare per sostenere spese che non beneficerebbero di detrazione fiscale (es. acquisto di libri scolastici) ed in presenza di incentivi aziendali, la scelta tra welfare e incasso in busta paga è pressoché equivalente se il bonus per chi opta per il welfare arriva al 15%.

Ragionando con un’ottica di lungo periodo, e comunque in tutti i casi in cui le somme accantonate dovrebbero essere destinate a spese potenzialmente detraibili, appare preferibile incassare il premio in busta paga.
Al momento della scelta va tenuto conto anche del fatto che i soldi destinati a welfare non si recuperano subito, e può non essere semplicissimo utilizzarli tutti.

 

In passato avevamo sviluppato l’analisi dell’argomento welfare giungendo alle medesime conclusioni. Anche se riferito in parte ad uno specifico Istituto Bancario, invitiamo tutti coloro che volessero approfondire la questione a rileggere il post .

https://www.fisaccgilaq.it/banche/bper-welfare-aziendale-2017.html




Donare le ferie ad un collega: un atto di solidarietà

Il caso di Mathys Germain, il bimbo francese morto a causa di un tumore al fegato nel 2012, insegna quanto può essere importante un gesto di solidarietà, al di là di una legge, prima di una legge. Christophe, il papà di Mathys si era visto donare dai colleghi giorni di vacanze per assistere il piccolo, un atto meraviglioso che solo successivamente si è trasformato in legge: la legge 2014/459 (cosiddetta legge Mathys) grazie alla quale i colleghi di lavoro possono donare le proprie ferie per aiutare chi ha bisogno di tempo per curare figli minorenni gravemente malati.

Con l’articolo 24 del Dlgs 151/2015 la cessione delle ferie è stata introdotta e regolamentata anche in Italia; la norma prevede che i lavoratori possano cedere, a titolo gratuito, le proprie ferie maturate ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro, per consentire l’assistenza ai figli minori che necessitano di cure costanti per le particolari condizioni di salute.

La norma non contrasta con il principio di irrinunciabilità delle ferie stesse e con quanto disposto dal decreto sull’orario di lavoro che prevede il diritto, per il dipendente, ad un periodo annuale di ferie retribuite di almeno 4 settimane, per reintegrare le energie psicofisiche e parteciparealla vitafamiliare e sociale. In parole semplici, è possibile cedere soltanto le cosiddette “ferie monetizzabili”, ossia quelle ulteriori rispetto al minimo annuale irrinunciabile di 4 settimane, oppure i riposi previsti dai contratti collettivi in aggiunta ai normali riposigiornalieri e settimanali.

La cessione delle ferie è dunque gratuita ed ha una finalità solidale, perché volta a consentire l’assistenza di uno o più figli minori del lavoratore (non di altri suoi familiari) bisognosi di cure continuative (è dunque implicito che lo stato di malattia o la disabilità del minore debbano essere certificate), nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicabili al rapporto dilavoro. Ad oggi, purtroppo, sono ancora pochi i contratti collettivi che hanno regolamentato leferie solidali In assenza del contratto collettivo nazionale, diverse realtà hanno regolamentato le ferie solidali del proprio personale con accordi collettivi di secondo livello o con singoli accordi.

Nel nostro settore alcuni istituti hanno dato applicazione a questo decreto, attraverso l’introduzionedellaBanca del tempo.

Nella fattispecie Intesa San Paolo ed Unicredit declinano questo istituto con una serie di iniziative, tra le quali ora ci interessa porre l’accento sulla costruzione di un “contenitore” di permessi retribuiti a disposizione dei colleghi che, per gravi ed accertate situazioni personali e/o familiari, hanno bisogno di permessi aggiuntivi. Questo contenitore viene alimentato sia dall’azienda che dai colleghi che volontariamente vi aderiscono. Nel Gruppo Ubi sta iniziando solo adesso l’elaborazione di una una proposta su quest’argomento.

Oggi il temine solidarietà sembra stia scomparendo dal nostro vocabolario; la realtà ci dimostra però che esistono molte persone disposte a donare il proprio tempo e le proprie energie a favore di chi ne habisogno. Queste buone prassi si stanno diffondendo anche nel nostro settore, non solo nell’ambito delle ferie solidali.

 

Fonte: “Banconote” mensile del coordinamento donne Fisac Brescia




Bcc, la riforma deve fermarsi. Governo pronto al decreto

Il governo punta a congelare la riforma delle banche di credito cooperativo (Bcc). Il ministro dell’Economia Giovanni Tria dovrebbe annunciare, forse già in settimana, una moratoria per l’applicazione della riforma renziana che, per quegli strani giri di potere delle riforme dettate d’urgenza, oggi non ha più padri. Chi l’ha voluta, la Banca d’Italia, frena; chi l’ha approvata, il Pd a trazione renziana, tace ma nei territori tifa per lo stop. L’obiettivo del governo è però più pragmatico: sottrarre i nuovi gruppi alla vigilanza della Bce. Andiamo con ordine.

A febbraio 2016 il governo Renzi ordina per decreto alle oltre 360 Bcc di aderire a una capogruppo visto che, denuncia Bankitalia, il credito cooperativo è afflitto da degenerazioni clientelari. Renzi acconsente, ma ritaglia una controversa deroga per chi non vuole confluire nel cappello unico (di cui approfitterà la Bcc di Cambiano cara a lui e Luca Lotti) e una pure per le Casse Raiffeisen in Trentino Alto Adige consentendo loro di farsi un gruppo provinciale (la cosa è piaciuta alla Südtiroler Volkspartei ed è tornata utile per candidare Boschi a Bolzano).

Il testo viene scritto a Via Nazionale pensando che tutte le Bcc si sarebbero fuse dentro Iccrea Holding, braccio operativo della Federcasse, storico feudo romano-democristiano che per anni ha tessuto indisturbata le degenerazioni che ora Bankitalia scopre. A sorpresa la Cassa Centrale Banca di Trento, punto di riferimento delle Raiffeisenkasse, si è candidata a fare un secondo gruppo, alternativo al colosso nazionale. Le Bcc più sane, temendo di finire stritolate nella spartizione romana, hanno scelto la secessione trentina. Oggi cira 160 Bcc sono con Iccrea; 90 con Ccb. Problema: viste le dimensioni, i due gruppi finiranno sotto la vigilanza della Banca centrale europea.

La cosa è a questo punto: ad aprile le due capogruppo hanno presentato la candidatura a Bankitalia e Bce, che hanno 120 giorni per decidere. In teoria c’è tempo fino a settembre, ma la vigilanza di Francoforte sembra voler accelerare. Il premier Giuseppe Conte si è detto favorevole a una revisione e la Lega ha presentato una mozione per chiedere la moratoria. A sorpresa, nei giorni scorsi il dg di Bankitalia, Salvatore Rossi, ha ammesso che il passaggio dei nuovi gruppi alla vigilanza di Francoforte sarebbe un problema: “È possibile che stia emergendo, in virtù dell’applicazione dei requisiti patrimoniali pensati per le banche ‘significant’, la circostanza che i costi della riforma così congegnata possano superare i benefici”. Ha corretto il tiro qualche giorno dopo: “Continuiamo a ritenere la riforma opportuna”.

La questione della vigilanza è in realtà più complessa dei requisiti patrimoniali. C’è il rischio che alle singole Bcc dei due gruppi (le bolzanine sono in teoria escluse) vengano applicate le rigide regole del Comprehensive Assessment, il meccanismo con cui la Bce verifica lo stato di salute delle grandi banche. Tra questi ci sono i sistemi di valutazione della clientela (rating) pensati per le grandi industrie, ma le Bcc finanziano prevalentemente artigiani, ditte individuali e micro-imprese: molte di loro, specie al Sud, sarebbero costrette ad abbandonare la clientela.

Per evitarlo il governo è di fronte a un bivio: tornare indietro o negoziare una deroga sistemica con la Bce (oggi riservata a singole banche). La prima strada è quella proposta da Lega e 5Stelle, che spingono per gli Ips (institutional protection schemes), sistemi di mutua protezione e garanzia tra banche associate usate dagli istituti locali tedeschi (Sparkassen e Volksbanken), che infatti sono fuori dalla vigilanza Bce. L’ipotesi Ips non è nuova ma per anni ha diviso il mondo delle Bcc. Oggi quelle più sane temono di dover pagare per quelle malandate (circa il 10% del totale, secondo Mediobanca). Per dare l’idea, il fondo di garanzia temporaneo previsto dalla riforma è stato bloccato dopo che era intervenuto per aiutare alcune banche da cui provengono i vertici di Iccrea Holding.

In questo caos succedono cose strane: chi era contrario alla riforma ora la difende e viceversa. Le Bcc bolzanine, le più tutelate, premono per lo stop visto che – risulta al Fatto – la Bce ha fatto intendere di considerare il gruppo provinciale ugualmente “significant”; Federcasse e Ccb si schierano invece per la prosecuzione.

Venerdì scorso l’associazione “Articolo 2” di San Casciano ha comprato un pagina sul Corriere per chiedere al governo di fermare la riforma. Tra i suoi fondatori – rivela il Gazzettino del Chianti – ci sono pure gli ex vertici di Chianti Banca vicini alla Federcasse toscana guidata da Matteo Spanò, amico d’infanzia di Matteo Renzi, che adesso non spende una parola per difendere la sua riforma.

 

Articolo di Carlo Di Foggia sul Fatto Quotidiano del 24/6/2018

 




Unipol sale in BPER Banca: compra il 5,2% e arriva al 15%

Operazione da quasi 120 milioni. Il gruppo guidato da Cimbri non esclude di salire fino al  del 19,9 per cento.

MILANO – Unipol sale in Bper banca. Il gruppo assicurativo ha comunicato “la propria intenzione di acquistare un ammontare complessivo di n. 25.000.000 di azioni” dell’istituto modenese “pari a circa il 5,2% del capitale della Banca”. Unipol fa sapere di aver dato mandato a J.P. Morgan, Mediobanca ed Equita per acquisire il pacchetto azionario attraverso una procedura di reverse accelerated bookbuilding, mettendo sul tavolo 4,72 leuro per azione ovvero un premio del 6% circa rispetto al prezzo di chiusura dell’azione Bper di oggi. L’operazione è da avviare immediatamente e “Unipol si riserva di chiuderla in qualsiasi momento”. A conti fatti, dunque, si tratta di un investimento da quasi 120 milioni.

Il gruppo guidato da Carlo Cimbri, che dispone dell’autorizzazione delle authority a salire sopra il 10% del capitale di Bper, detiene già il 9,87% della banca modenese ma non esclude la possibilità di un “ulteriore incremento” della partecipazione, fino al limite del 19,9 per cento.

Nella nota si dettaglia che l’offerta sarà rivolta a soli investitori qualificati e investitori istituzionali esteri, e che raggiungere le 25 milioni di azioni Bper è “condizione vincolante ai fini del buon esito dell’Operazione; tuttavia, Unipol si riserva di accettare offerte per un numero complessivo di Azioni inferiore a quello sopra indicato”.

“L’operazione”, si dettaglia ancora, “si inquadra nella strategia di Unipol, quale investitore istituzionale, finalizzata a contribuire ai piani di sviluppo nel medio-lungo periodo della Banca, con la quale è, peraltro, in essere una partnership industriale pluriennale nel comparto della bancassicurazione danni e vita.

Nel corso dei prossimi sei mesi – anche in coerenza con le autorizzazioni in proposito ottenute – Unipol valuterà l’eventuale ulteriore incremento della propria partecipazione in Bper in una o più volte e comunque nei limiti della Partecipazione Massima Autorizzata (appunto il 19,9%, ndr), alla luce di quelli che saranno i piani e le prospettive di sviluppo della stessa Bper e le condizioni generali del mercato”.

 

Fonte:  www.repubblica.it




Riscossione tributi: accordo sul part-time

Come da demando del nuovo CIA di Agenzia delle Entrate – Riscossione nella giornata odierna è stato sottoscritto il nuovo accordo sul part-time che sostituisce il precedente Protocollo allegato al CIA del 24 gennaio 2014.

Nel ricercare una migliore conciliazione dei tempi lavoro ai tempi della vita, che tenesse conto prioritariamente delle esigenze dei lavoratori e limitasse la discrezionalità aziendale, abbiamo ottenuto di conservare la percentuale massima di accoglimento su base aziendale pari al 22% del personale in servizio a tempo pieno ed introdotto criteri finalizzati a garantire con trasparenza ed oggettività il riconoscimento del part-time.

Fra le modifiche sostanziali introdotte in materia di orario abbiamo ottenuto che ai lavoratori con contratto di lavoro a tempo parziale saranno riconosciute, in tema di flessibilità, le stesse modalità tempo per tempo vigenti per i lavoratori a tempo pieno. Il part-time potrà anche essere riconosciuto a tempo indeterminato e nel profilo periodale.

Con riferimento alle e-mail inviate ad alcuni colleghi (che, in diverse realtà regionali, si occupano delle lavorazioni del contenzioso Campania) con le quali il responsabile aziendale ha denunciato il mancato progressivo miglioramento dallo stesso auspicato nello svolgimento della loro attività, e li ha invitati a rappresentare eventuali difficoltà, le Segreterie nazionali hanno sottolineato alla Delegazione aziendale che eventuali limiti organizzativi e/o di formazione non possono in alcun modo divenire elemento di valutazione negativa dei colleghi che operano in tali contesti. I referenti aziendali hanno dal canto loro sottolineato che tali e-mail erano finalizzate unicamente alla comprensione ed al conseguente superamento di criticità tecnico/organizzative e, pertanto, non potranno avere alcuna ricaduta negativa sulla valutazione complessiva dell’operato dei lavoratori coinvolti.

A latere dell’incontro odierno è stato ripreso il tema dell’assorbimento di alcune voci retributive effettuate in occasione del riconoscimento degli aumenti contrattuali; la delegazione aziendale ha risposto che è tuttora in corso, e sta per essere ultimato, il necessario approfondimento di carattere legale. Attendiamo a breve una risposta definitiva.

 

Le Segreterie Nazionali
FABI          FIRST/CISL          FISAC/CGIL          UILCA

 

Scarica il verbale d’accordo




CCNL ABI, proroga di 6 mesi. In autunno la piattaforma

Nel corso della riunione odierna le organizzazioni sindacali del credito (Fabi, First Cisl, Fisac Cgil, Uilca e Unisin), in risposta alla proposta di proroga fino a 12 mesi dei Contratti collettivi nazionali di lavoro scadenti il 31 dicembre, inviata loro dall’ABI il 28 maggio scorso, hanno deciso di rispondere unitariamente chiedendo la posticipazione di 6 mesi della scadenza dei termini entro i quali effettuare le disdette dei contratti stessi.
I segretari generali hanno ritenuto di accogliere in questo modo l’apertura offerta dall’ABI ad avviare il negoziato senza correre il rischio che possa essere viziato, sin dall’inizio, da momenti di tensione e frattura.

La proroga dal 30 giugno al 31 dicembre dei termini per esercitare le disdette consentirà infatti di giungere, entro il prossimo autunno, alla presentazione di una piattaforma negoziale facendo salve le decorrenze e le scadenze contrattualmente oggi previste.

È stato dunque comunemente apprezzato e condiviso il senso di responsabilità con cui, diversamente dal passato, si è segnalato di voler affrontare un delicato percorso di forte cambiamento strutturale del sistema bancario, partendo dal consolidamento di relazioni sindacali mature e costruttive.

Roma, 12 giugno 2018

LE SEGRETERIE NAZIONALI

 

Il testo della lettera inviata dai Segretari Nazionali all’ABI




Riscossione tributi, Fondo Previdenza Nazionale: un risultato epocale

La riforma del Fondo di previdenza nazionale di lavoratrici e lavoratori del settore riscossione è finalmente realtà!

Con il decreto ministeriale n. 55 dell’8 maggio 2018 pubblicato ieri sulla G.U., viene stabilito che tutti i contributi versati e da versare al Fondo di previdenza nazionale del settore andranno a costituire il montante individuale contributivo dell’iscritto da trasformare in pensione aggiuntiva al trattamento pensionistico INPS.

Si tratta di un eccezionale successo frutto di un forte impegno che le Segreterie Nazionali hanno mantenuto negli anni perseguendo l’obiettivo con costanza e determinazione a tutti i livelli, politico e parlamentare. Non di meno ha inciso l’altrettanto costante determinazione con la quale la categoria ha risposto, nel tempo, aderendo massicciamente alle iniziative di mobilitazione. A tale proposito ricordiamo l’importanza dello sciopero del 26 maggio dello scorso anno al fine dell’ottenimento della migliore specificazione del comma 9 bis dell’articolo 1 del d.l. 193/2016.

Il decreto ministeriale pubblicato ieri, infatti, è stato reso possibile anche dalla specifica ottenuta (con la legge di bilancio del dicembre scorso, n. 172/2017) grazie alla spinta determinata con tale sciopero ed al continuo lavoro delle organizzazioni sindacali scriventi.
E’ attesa nelle prossime settimane, da parte dell’INPS, la circolare attuativa delle previsioni del decreto di riforma firmato l’8 maggio scorso dal Ministro del Lavoro.

Roma, 15 giugno 2018

 

Le Segreterie nazionali
FABI          FIRST/CISL          FISAC/CGIL          UILCA

 

Scarica il volantino




Assegni per il Nucleo Familiare 2018: è il momento della domanda annuale

Con la Circolare numero n. 68 dell’ 11 maggio 2018, che riportiamo in calce, l’INPS ha pubblicato le tabelle delle fasce di reddito per l’erogazione degli assegni familiari valide per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019
Dalla circolare INPS stessa si evince che, essendo la variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo calcolata dall’ISTAT tra l’anno 2016 e l’anno 2017 pari a +1,1 per cento, sono stati rivalutati i livelli di reddito delle tabelle contenenti gli importi mensili degli assegni al nucleo familiare, in vigore per il periodo 1° luglio 2018 – 30 giugno 2019 con il predetto indice.
Di cosa si tratta
L’ANF è un sostegno economico per le famiglie dei lavoratori dipendenti ed i pensionati che viene erogato su richiesta annuale del lavoratore alla propria azienda utilizzando il modello INPS ANF/DIP SR16 (allegato alla presente o scaricabile dal sito www.inps.it).
Chi ha diritto alla corresponsione dell’assegno ed in quale misura
NB:  si raccomanda di verificare sempre la propria situazione familiare rispetto alle tabelle e non dare per scontato che non si ha diritto alla corresponsione dell’ANF
Il diritto e la misura dell’assegno dipendono dal numero dei componenti, dalle caratteristiche e dal reddito del nucleo familiare.
Per avere diritto alla corresponsione occorre che almeno il 70% del reddito familiare derivi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente.
Il reddito da prendere a riferimento è cumulativamente quello del richiedente e quelli di tutti gli altri componenti del nucleo familiare validi ai fini IRPEF dell’anno precedente.
Alla formazione del reddito concorrono i redditi di qualsiasi natura, compresi quelli esenti da imposte e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva se superiori ad € 1.032,92 (ad esempio gli interessi maturati su depositi, titoli ecc.).
Non si computano nel reddito i trattamenti di fine rapporto comunque denominati e le anticipazioni sui trattamenti stessi, nonché l’assegno del nucleo familiare stesso.
L’attestazione del reddito del nucleo familiare è effettuata con autocertificazione (all’interno del modello di domanda)
***
A partire dall’1/7/2018, per l’erogazione dell’assegno, in presenza ovviamente dei prescritti requisiti, si dovrà fare riferimento al reddito familiare complessivo dell’anno 2017 ed alle relative tabelle INPS.
Composizione del nucleo familiare ai fini dell’ANF
  • il richiedente lavoratore o il titolare della pensione;
  • il coniuge che non sia legalmente ed effettivamente separato, anche se non convivente, o che non abbia abbandonato la famiglia. Gli stranieri residenti in Italia, poligami nel loro paese, possono includere nel proprio nucleo familiare solo la prima moglie, se residente in Italia;
  • i figli ed equiparati di età inferiore a 18 anni, conviventi o meno;
  • i figli ed equiparati maggiorenni inabili, purché non coniugati, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i figli ed equiparati, studenti o apprendisti, di età superiore ai 18 anni e inferiore ai 21 anni, purché facenti parte di “nuclei numerosi”, cioè nuclei familiari con almeno quattro figli tutti di età inferiore ai 26 anni, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i fratelli, le sorelle del richiedente e i nipoti (collaterali o in linea retta non a carico dell’ascendente), minori o maggiorenni inabili, solo se sono orfani di entrambi i genitori, non hanno conseguito il diritto alla pensione ai superstiti e non sono coniugati, previa autorizzazione da parte dell’INPS;
  • i nipoti in linea retta di età inferiore a 18 anni e viventi a carico dell’ascendente, previa autorizzazione da parte dell’INPS.
Termini di presentazione della domanda
Dal 1° luglio di ogni anno su apposito modello Inps SR16  a valere per il periodo 1° luglio dell’anno corrente fino al 30 giugno dell’anno successivo.
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Nel caso in cui negli anni passati non si sia presentata domanda per l’ANF e se ne aveva diritto, è possibile recuperare fino a 5 anni di arretrati presentando all’attuale datore di lavoro, un modello SR16 per ogni anno; questo deve essere debitamente compilato con i dati relativi al nucleo familiare ed ai redditi conseguiti nell’anno solare precedente il 1° luglio di ogni anno di riferimento.
Chi paga l’ANF
L’assegno viene erogato in busta paga.
E’ tuttavia possibile richiederne il pagamento in favore del coniuge che non ha un rapporto di lavoro o non è titolare di pensione compilando un apposito quadro del modulo INPS che prevede anche l’indicazione delle relative modalità di pagamento al coniuge.
Casi particolari
  • In caso di variazione del nucleo familiare cambiano i parametri di riferimento per il calcolo e l’erogazione dell’assegno ed è necessario quindi segnalare la variazione all’azienda
  • Per il personale a part time l’assegno spetta in misura intera se l’orario di lavoro non è inferiore alle 24 ore settimanali; in caso contrario, vengono riconosciuti tanti assegni quante sono le giornate di lavoro svolte, indipendentemente dal numero delle ore di lavoro nella giornata

Consulta i rappresentanti della FISAC CGIL in azienda, o contatta gli uffici del Patronato INCA CGIL della propria città per verificare la tua specifica situazione e ricevere consulenza e supporto per l’eventuale compilazione della modulistica prevista per la richiesta degli assegni in questione, con particolare riferimento alle domande che richiedono preventiva autorizzazione da parte dell’INPS.

FISAC CGIL Coordinamento Nazionale Credito Cooperativo
Allegati:



Banca d’Italia: la Grande Guerra delle Filiali

Dopo svariati mesi trascorsi ad errare per la periferia, più o meno remota, della Banca d’Italia, il Vertice è tornato a casa, soddisfatto perché convinto di aver pacificato le Province, anche quelle più turbolente.

Le domande scomode, durante le visite, non sono mancate. Soprattutto circa il destino che avranno le Filiali, ed in special modo quelle più piccole.

Le rassicurazioni del Vertice non hanno giovato più di tanto all’umore generale: erano forse troppo simili a quelle che avevano preceduto le prime due ristrutturazioni territoriali?
Nel frattempo la vita nelle Filiali somiglia sempre più a quella di trincea: lunghi periodi di noia intervallati da improvvisi momenti di panico.
Perché, da un lato, la Banca ha rinunciato a svolgere alcune delle sue attività “tipiche”, oppure ha deciso di avocarle dalla periferia al centro. Dall’altro, nonostante quanto appena detto, sono sempre più frequenti i picchi “ciclici” di operatività che la Filiali si trovano ad affrontare con compagini decimate da pensionamenti senza turn over e missioni operative in entrata disposte col contagocce.
L’umore delle truppe, lì al fronte, non è dei migliori; e la domanda che tutti si fanno non è più “se”, ma “quando” la chiusura riguarderà anche loro.

Discorso a parte meritano le 10 UST, Filiali “a scadenza” con chiusura programmata a di-cembre 2018.
Queste realtà, condannate alla chiusura perché, a dire del Vertice, oramai inutili, si trovano oggi a fronteggiare una mole di lavoro del tutto spropositata rispetto al numero degli addetti: dalle Sedi Regionali viene delegata, ad esempio, la lavorazione di migliaia e migliaia di esposti e di richieste di accesso alla Centrale dei Rischi, così come moltissimo impegno richiede la lavorazione in “subappalto” delle pratiche ABF.
La domanda, allora, sorge spontanea: ma non si era detto che quelle Filiali erano inutili?
O forse l’idea del Vertice è che, trattandosi di Filiali “a scadenza programmata”, i colleghi addetti a quelle realtà siano da trattarsi alla stregua di yogurt, e dunque “da CONSUMARSI entro il 31.12.2018”?

Quale fiducia possiamo avere nel nostro futuro, volendo parafrasare le recenti parole del Governatore, se in quelle Filiali si sta “come d’autunno, sugli alberi, le foglie”?

 

Fonte: www.fisacbancaditalia.it

 




Licenziati per un commento sui social

Si moltiplicano le sentenze sui lavoratori per i post contro le proprie aziende: “Rompono la fiducia col datore”.

Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione: licenziamento per giusta causa nei confronti di una impiegata di Forlì che sul suo profilo Facebook si era lasciata andare a uno sfogo contro la sua azienda:

“Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”

è il post riportato sulla sentenza. Secondo i giudici, di carattere diffamatorio e tale da aver definitivamente incrinato il rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro. Non è però la prima volta né l’unico caso di licenziamenti e sanzioni disciplinari dovuti ai social network. Basta una breve ricerca per rintracciare una esplicativa casistica, come quella riportata dal sito Workengo, che si occupa di reputazione online. Ma partiamo da Forlì.

La vicenda risale al 2012. La donna pubblica sul suo profilo Facebook un post che nella sentenza della Cassazione viene riportato tra virgolette: “Mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e della proprietà”. Tra i suoi amici virtuali, però, c’è anche un collega nonché il legale della società. La donna cancella il post ma viene licenziata e la sanzione viene confermata in primo e in secondo grado.
“La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone – scrivono i giudici della Suprema Corte – pertanto la condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo”. Giusta causa, dunque. La difesa ha provato a spiegare che la donna, 43 anni e invalida al 67%, non era consapevole della eco che avrebbe avuto il suo sfogo, che credeva corrispondesse a una chiacchierata con un gruppetto di amici. La fine del rapporto di fiducia, spiegano i giudici, c’è indipendentemente dalla natura colposa della diffamazione. E anche se l’azienda non era citata direttamente, il destinatario era facilmente identificabile.

 

A Nichelino (Torino) nel 2015, una dipendente di una mensa scolastica condivide sul proprio profilo Facebook il post di un politico che denuncia il ritrovamento di insetti nella purea servita agli alunni. Si limita a commentare:

“Mah… io una polenta con aggiunta di scarafaggi non la mangerei volentieri”.

L’azienda se ne accorge e la licenzia (guadagnava 370 euro al mese) nonostante non avesse nominato la mensa in cui lavorava direttamente e nonostante avesse condiviso il post in un profilo con impostazioni di privacy private.

 

Nel 2014 era toccato invece a una dipendente della Perugina, licenziata per aver criticato un capo-reparto con un post su Facebook. Nel messaggio raccontava di aver sentito che diceva a un collega che per lui era necessario il collare. Nonostante le proteste sindacali, l’azienda non si era scomposta e, contro la dipendente (che era oltretutto una sindacalista) aveva sostenuto che il caporeparto stesse riprendendo il dipendente per la scarsa osservazione delle norme di sicurezza e igiene. “Da un esponente sindacale – aveva spiegato la Nestlé – che ha la responsabilità di rappresentare centinaia di persone che lavorano nel più grande stabilimento del Gruppo Nestlé in Italia, ci si attendeva il sostegno e non la critica agli sforzi rivolti a salvaguardare la sicurezza sul posto di lavoro, l’igiene e la qualità del prodotto”.

 

E ancora. Nel 2012 un operaio abruzzese era stato adescato su Facebook dal proprio capo “sotto mentite spoglie”. Il titolare aveva creato un falso profilo femminile sulla piattaforma e si era accorto che il dipendente aveva preferito chattare invece di occuparsi di una lamiera incastrata sotto una pressa. La Cassazione aveva riconosciuto legittimo lo strumento di “investigazione” anche perché il lavoratore avrebbe avuto anche in precedenza atteggiamenti d’allarme: “Il lavoratore – si legge nella sentenza – era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositivo elettronico utile per conversazioni via Internet”.

 

I motivi dei licenziamenti a causa dei social sono, comunque, molti. “Attenzione anche a usare troppo i social durante l’orario di lavoro, non è una grande idea”, si legge su Workengo.

L’esempio è una sentenza del 2016 del Tribunale di Brescia in cui il datore di lavoro aveva calcolato che la sua dipendente ogni tre ore effettuava circa 16 accessi a Facebook sottraendo, secondo il giudice, tempo all’attività lavorativa e incrinando così il rapporto di fiducia tra lei e il suo datore di lavoro.
“Se poi siete assenti dal lavoro e pubblicate foto mentre fate aperitivo o siete al mare invece di essere sotto le coperte e stravolti dalla febbre come avevate assicurato – spiegano ancora gli esperti di Workengo – beh… non si può dire che il vostro licenziamento sia immotivato da molteplici punti di vista”.
E ricordano il caso del dipendente di Veneto Banca licenziato perché, dopo aver richiesto un permesso per stress psicofisico, era poi andato al concerto di Madonna.

Articolo di Virginia Della Sala su “Il Fatto Quotidiano” dell’8/6/2018

 

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